Si può pensare, in questo mondo ad economia liquida, che il senso del territorio, la variabile fisica della geografia, non abbiano più alcuna importanza, con una globalizzazione che ha ormai sconnesso l’identità dagli abitanti, i territori dalle economie e le economie dagli Stati? Dove lo sviluppo della alta tecnologia promette un mondo di intelligenze artificiali in competizione con la realtà fisica, facendo immaginare che magari, un giorno, le nascite si costruiranno intorno ad un computer e da grande qualcuno non ricorderà più se è stato allattato dalla madre o da un avatar?

Source: University of Texas, Perry Castaneda Library Map Collection – Courtesy of the Un. of Texas Libraries, The University of Texas at Austin

Poi si atterra nel Sahel. Ci si lascia indietro il verde tropicale africano e si va a nord o nord-est e tutto progressivamente si perde nell’immensità degli spazi desertici. Ma non è un erg alla libica, un fotogenico deserto di dune gialle, ma un deserto petroso di pietra macinata, un paesaggio lunare, sconfinato, dove non c’è il segno di un albero, di un filo d’erba, solo qualche raro cespuglio spinato, che vibra nel vento, su sfondi di massicci sfumati, in quella che sembra una cortina di nebbia ma è solo polvere lontana, polvere sollevata dal vento. Ma questa zona dal clima violento, dalle escursioni termiche incredibili, fra giorni divorati dalla calura e notti segnate dai lamenti dei dromedari intirizziti, vivono anche delle persone: sahraui, originari del Sahara, tebu, retaggio umano di quando il Sahara era savana abitata da popolazioni che provenivano dall’Africa equatoriale, tuareg, uomini blu, arabo-berberi i cui turbanti colorati all’indaco finiscono per segnare anche la pelle del viso. Genti che nella storia sopravvivevano con commerci transahariani e allevamenti nella libertà di spazi indefiniti e sconfinati. Poi dalla fine dal XIX secolo hanno conosciuto i primi confini coloniali sovrapposti ai vecchi reami, Macina, Songhai, e poi sono finite nel secolo scorso nelle prigioni fisiche dai limiti assurdi tirati sulle carte militari a delimitare la Mauritania, il Mali, il Niger, il Burkina Faso, il Ciad con la dissoluzione dell’Africa governata dalla Francia, l’Africa Occidentale Francese, e il processo delle indipendenze dal 1960. Nel meccanismo post-coloniale diventati loro, sahraui e tuareg, abituati ad una antica superiorità razziale bianca, gli esponenti di una piccola minoranza marginale e reietta, parte del “cattivo Mali’” per il governo dei neri del Buon Mali, quello tropicale, incentrato su Bamako. Dimenticati ed affamati scientemente da governi centrali corrotti, costituiti da maggioranze nere, soverchianti, intorno alle quali si era incentrato il potere coloniale, poggiato sui canali degli affari intrattenuti con la madrepatria.

Picture taken about 15 km North-West of Niamey during the dry cooler season in the Sahel (Istock free)

E noi, gli europei occidentali, pieni di teorie sulla superiorità dei diritti umani, ma collusi con i loro governanti, di queste genti abbiamo accettato un processo di genocidio quasi scientifico, da nuovi pellirosse d’Africa, accettando da governi amici il loro boicottaggio soprattutto durante gli anni Novanta del secolo scorso, nelle forniture di alimenti, di medicinali preziosi per la loro sopravvivenza. La cooperazione internazionale non poteva riguardare sahraui, tebu, tuareg, anzi, quando le condizioni climatiche estreme li spingevano ad arrivare nelle zone sedentarie se ne criminalizzavano le gesta.

In Mali, oggi, il caso dei Peuls. Poi nei kasr del deserto sono arrivate le idee di una rivincita sulla storia. Il ritorno al mito del deserto, lo spazio libero del deserto, l’Azawad, la patria degli imohar, gli uomini liberi. Ma anche il ritorno ai fondamenti dell’Islam, incoraggiato dalla propaganda wahhabita diffusa dai sauditi nella umma sunnita, in contrapposizione all’animismo o al cristianesimo delle genti del sud, infine l’adesione a quei gruppi di jihadismo armato, che oggi sono riuniti nella regione in due grandi confederazioni, lo Stato Islamico nel Grande Sahara (SIGS) e il Gruppo di sostegno all’Islam e ai Musulmani (JNIM), emanazione di al-Qaida. Ma che si sono anche chiamati Ansar Dine, Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad, Katiba Macina, AQMI (al-Qaida nel Maghreb islamico), MUJAO (Movimento per l’Unicità e il Jihad nell’Africa Occidentale) E qui, in queste terre immense e inospitali, l’Occidente ha scoperto il terrorismo, ha dovuto affrontare la War on Terror, armare o sostenere missioni militari Serval, Barkhane, G5 Sahel, Takuba, che poi è un pugnale locale, in più della missione dell’ONU, MINUSMA. E oggi la regione conosce continui attacchi, rapimenti, sequestri, eccidi, in particolare nel triangolo dove si incontrano nell’ansa più settentrionale del fiume Niger, il Liptako-Gourma, tre paesi, il Mali, il Burkina Faso, il Niger e dove un tempo, dal VII secolo, si estendeva l’impero Songhai.

Mentre in vari paesi i governi civili, in Mali, Burkina Faso, Guinea sono sostituiti da giunte militari e, dall’esterno, stanno penetrando nuovi paesi Turchia, Cina, Russia in zone abituate sin dal 1960 a mantenersi nell’orbita post-coloniale occidentale. Intanto, l’originale jihadismo globale si innesta e si radica sempre piu’ sui problemi locali, quasi insolubili, diventa da jihadismo globale, jihadismo locale. E le forze militari francesi, benedette dopo l’operazione Serval nel 2013, di fronte alla prima penetrazione jihadista su Timbuctu, Gao, Kidal, dieci anni dopo sono richieste di lasciare il Mali e molto difficilmente mantengono dei corretti rapporti con il Burkina-Faso. Mentre sui media occidentali si parla del Sahel solo per l’arrivo delle milizie russe Wagner, impiegate anche in Ucraina, le genti del deserto vedono ogni giorno peggiorare le loro condizioni di vita. Nel Sahel il riscaldamento climatico è il più intenso del pianeta, ma se gli allevatori Peuls sconfinano nelle zone sedentarie dei Dogon, costretti dalla morte per siccità degli animali, non hanno l’aiuto di nessuno. Così, quello che molto comodamente viene chiamato terrorismo, termine che poi non significa nulla, continua ad avanzare con gli effetti del riscaldamento climatico. Mentre noi e i nostri media ci limitiamo ad appiccicare etichette standard sull’avanzata jihadista, senza volerci interessare della situazione reale sul terreno. Non sappiamo così che sessantadue donne sono uscite di recente in gruppo dal loro villaggio e si sono fatte rapire, a Arbinda nel Burkina Faso, da un gruppo jihadista, soltanto perché cercavano del cibo, perché come ha dichiarato di recente il presidente di transizione del paese, Ibrahim Traoré, nel loro villaggio “era rimasta solo l’erba da mangiare”.

Per contrasto, con l’arrivo delle alte tecnologie, con l’ubiquità delle informazioni, con l’intelligenza artificiale, il trionfo del meta-verso, pensare ai territori fisici del mondo e ai loro concreti abitanti sembra ormai una cosa obsoleta. Se poi, presi da un soprassalto di umanità, facciamo arrivare degli aiuti in Sahel, diciamo in Mali, si fermano nella capitale, Bamako, per poi disperdersi in mille rivoli, spesso inconfessati. Ma non prendono mai la strada del nord, per raggiungere la gente del deserto…Il Sahelistan. Che oggi sembra fare rima proprio con Afghanistan.

Se poi ci riferiamo alla freddezza delle cifre, analizzando i parametri socio-economici elaborati dal PNUD per i cinque paesi associati al Sahel, cioè Mauritania, Mali, Niger, Burkina Faso e Chad, che del resto sono uniti nella missione militare G 5 Sahel, abbiamo ulteriori indicazioni sulla realtà regionale.

Solo un paese, la Mauritania, l’unico con uno sbocco sull’Atlantico, si eleva nella categoria dei paesi a Medio Sviluppo Umano (MHD) presentando il livello di reddito medio pro-capite più alto della regione, 5.075 USD PPA, e di scolarità, 4,92 anni di scolarità effettiva, nettamente migliori degli altri quattro paesi. Come relativamente più alta è la durata media di vita che raggiunge i 64,3 anni. In correlazione, il paese risulta anche molto meno affetto da vari anni dal fenomeno di violenza jihadista.

Gli altri quattro paesi del Sahel sono accomunati invece da un basso livello di sviluppo, figurano fra il 184° e il 190° posto su 191 paesi censiti nelle classifiche mondiali elaborati dal PNUD, occupando con il Ciad la penultima posizione, davanti al Sud Sudan che abbiamo già trattato, 191° e ultimo sui 191 paesi censiti. Presentano redditi medi bassissimi che se non corretti per tenere conto del potere di acquisto risultano in effettivo i seguenti: Mali 920 USD annui per persona, Burkina Faso 887, Ciad 697 Niger 595. Con una età media delle popolazioni bassissima, che va dai 16 anni ai 19,7 anni, i quattro paesi del Sahel presentano invece un indice di scolarità quasi trascurabile. Con una popolazione urbana relativamente modesta (dal 44,7% del totale del Mali sino al 17% del Niger) gli anni effettivi di scolarità sono ridottissimi. Vale la pena di evidenziarne la corta durata: Mali, D 2,8 U 2,3 anni; Niger D 1,7 U 2,78 anni; Burkina Faso D 1,58 U 2,7 anni; Ciad D 1,48 U 3,68. Scuole che dovrebbero invece essere disseminate sull’immensità di territori di 1,248 milioni km2 per il Mali, 1,267 milioni per il Niger, 1,284 milioni di km2 per il Ciad. Come anche ridotta è la speranza di vita alla nascita che varia dai 52,5 anni del Ciad ai 61,5 del Niger. Ma dove indici di fecondità elevate con il problema delle nascite da adolescenti fanno da pendant ad un alto tasso di mortalità infantile. Questi valori possono richiamarsi: freddamente. Per il MALI: fecondità 5,7 mortalità infantile 58,8 per mille; NIGER  6,7 -45,6; BURKINA FASO 5,0 – 52,8;  CIAD 5 6- 67,4.

In definitiva una regione in cui una popolazione attiva costituita per il quarto (Burkina Faso) sino ai tre quarti (Ciad) da allevatori e agricoltori vive una difficile sopravvivenza in condizioni climatiche spesso estreme. Ma anche in cui lo sfruttamento delle risorse esistenti, dall’oro all’uranio, al petrolio non ha mai portato al benessere delle popolazioni. Le risorse hanno arricchito invece nel classico ciclo della plantation economy solo governanti corrotti e madrepatrie lontane o nuovi concorrenti nella corsa all’Africa, lo scramble for Africa.

Carlo degli Abbati

Bibliografia consigliata

-E. BALDARO, Sahel. Geopolitiche di una crisi. Jihadismo, fragilità statale e intervento internazionale, Carocci, Roma, 2022

-C. DEGLI ABBATI, Il radicalismo nel nome dell’Islam. Una responsabilità condivisa?, Aracne, Roma, 2013

-F.DONELLI, Turkey in Africa. Turkey’s Strategic Involvement in Sub-saharan Africa, IB Tauris, Londra, New York, 2022

-D.QUIRICO-L.SECCI, La sconfitta dell’Occidente, Neri Pozza, Vicenza, 2019

Carlo degli Abbati insegna Diritto dell’Unione Europea al Dip. di Lingue e Culture Moderne dell’Università degli Studi di Genova. Già docente di Economia dello Sviluppo presso lo stesso Ateneo e di Storia dei Paesi musulmani al Dip. di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento è stato funzionario responsabile del controllo della cooperazione europea allo sviluppo presso la Corte dei Conti Europea a Lussemburgo.

(Foto cover https://earthobservatory.nasa.gov/)

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