L’invasione dell’Ucraina e le ragioni moscovite
Secondo la narrativa dei media occidentali i leader dei Paesi a vocazione autoritaria fuori della sfera di influenza liberal-democratica sono prima o poi designati come folli e psicopatici. E’ successo con Muammar al-Gheddafi – oggi il Mediterraneo nel caos migranti paga il prezzo della sua eliminazione per mano occidentale – e attualmente la storia si ripete con la rappresentazione di Vladimir Putin dopo la sua decisione di entrare militarmente in Ucraina. Decisione non facile, come del resto le riunioni del Consiglio Nazionale di Difesa hanno chiaramente dimostrato.
Poiché, in generale, invece è sbagliato credere che uno è il Marchese del Grillo e gli altri non son un c… come Panatta ha ricordato a proposito delle attitudini di Novak Djokovic in Australia, cerchiamo di chiarire i motivi della non facile decisione di Putin.
Il primo motivo è stato quello di dover constatare l’ assoluta mancanza di progresso nella soluzione negoziata della crisi. Gli accordi di Minsk del 2014 che immaginavano una autonomia delle Repubbliche occidentali ucraine a maggioranza russa del Donbass in un quadro federale sono rimasti, per volontà del governo di Kiev, lettera morta e come osservato dal Ministro degli esteri Lavrov, con riferimento all’incontro con la collega britannica, il dialogo con gli Occidentali era quello di un sordo con un muto.
Qui vale la pena per una volta di mettere a fuoco il punto di partenza di Mosca, la visione mosco-centrica del problema. Cioè le ragioni della Federazione Russa e non gli interessi del campo americano perfettamente integrante lo schieramento occidentale.
Dopo il naufragio dell’invasione dell’Afghanistan e lo sforzo inane di inseguire le “guerre stellari” del presidente Reagan, la Federazione Russa ha cercato nonostante il crollo sistemico dell’URSS, dal 1989, di salvaguardare una zona di influenza che gli assicurasse una sufficiente profondità strategica. Ha creato la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), cercando di mantenere intorno a sé, malgrado l’incapacità di effettuarvi degli investimenti, le Repubbliche ex-sovietiche che nel frattempo avevano acceduto all’indipendenza, come l’Ucraina, nel 1991.
Già aiutata dalla UE, nella sua difficile conversione, con il programma TACIS di accompagnamento del sistema dirigistico verso l’economia di mercato, la Russia aveva proposto sin dall’inizio degli Anni ’90 ai Paesi europei una forma di cooperazione euroasiatica. La proposta dell’EURASIA era stata immediatamente rinviata al mittente dagli Stati Uniti per il tramite degli alleati europei. Era chiarissimo oltre-Atlantico che la formazione di un glacis europeo dal Mediterraneo alla Siberia, riunente la tecnologia europea occidentale alla ricchezza russa in materie prime, avrebbe segnato la fine del controllo geostrategico americano sul mondo, condotto con delle flotte di sottomarini nucleari che non sarebbero più stati liberi di navigare in franchigia nei diversi oceani. In altri termini avrebbe segnato la fine, come già prima la talassocrazia britannica, anche della talassocrazia americana.
Nei fatti dal ’90 in poi la Federazione Russa ha visto, rispetto alla vecchia URSS, ridotta di quasi 1500 km in direzione di Mosca la sua profondità strategica. Ha assistito alla quasi perfetta realizzazione del programma americano di vedere i paesi satelliti dell’URSS nel Patto militare di Varsavia divenire membri dell’alleanza occidentale della NATO e gli stessi, già appartenenti economicamente al COMECON, essere accolti a braccia aperte nell’Unione Europea. Ha anche assistito subito dopo alla creazione di una nuova cortina di ferro, l’INTERMARIUM, esteso dal Baltico al Mediterraneo, lunga collana di basi NATO rivolte verso la Russia, dai Paesi baltici alla Polonia, alla Romania, alla Moldavia, sino alla Turchia. Ha osservato, con Barack Obama nel 2015, profilarsi per la ormai definita trascurabile “potenza regionale” la prospettiva di vedere l’Iran, riammesso nel consesso delle nazioni dopo gli accordi sul nucleare, divenire un pericoloso concorrente nelle forniture di gas all’Europa con una nuova sistemazione energetica delle forniture europee. E ha stoppato l’eventualità con l’invasione della Crimea. Autentica mossa del cavallo. Ha visto la NATO e la UE pretendere e concretamente promuovere l’integrazione nell’Occidente anche della Georgia a minoranza russofona e dell’Ucraina che nella sua parte orientale è sempre stata tradizionalmente russa, russofona e filo-russa, contando il Paese una minoranza di sette milioni di russi su quaranta milioni di abitanti.
Ha visto nel 2013 montare nella capitale Kiev dei disordini (Euro-Maidan) che, apparentemente accompagnati da una regia eterodiretta, dopo la propaganda per l’adesione dello Stato all’UE, condotta da alti rappresentanti del Parlamento europeo, hanno portato alla fuga del presidente filo-russo Yanukovic, mentre il nuovo governo ucraino denunziava immediatamente il contratto di locazione della base navale di Sebastopol nel Mar Nero e sopprimeva il russo come seconda lingua nazionale.
Il secondo motivo è la scelta del momento: il complesso militaro- industriale americano non ha esitato, negli ultimi tempi, a sfruttare la crisi per fornire all’esercito ucraino e agli Stati europei orientali della NATO quantità sempre più cospicue di armi. Mentre la stessa Turchia, in un certo senso, travolta dal successo commerciale del suo efficacissimo drone Bayraktar, aveva di recente cominciato le forniture in Ucraina. Del resto, dall’altro lato dell’Atlantico, gli Stati Uniti pur rullando mediaticamente continui tamburi di guerra, non sembravano disposti a scendere in guerra contro una potenza nucleare in un momento di forte debolezza della sua presidenza. Era per Putin il momentum, appunto di giocare d’anticipo.
Poi c’è un probabile terzo motivo personale. Vladimir Putin non ha dietro la storia breve dello stato italiano, ma il retaggio secolare della terra dei due Imperi che già all’inizio del XVI secolo aveva liberato i Principati di Mosca dal giogo mongolo dell’Ulus di Djochi. Dopo essere stato preso in contropiede nel 2013 da EuroMaidan, dalla strategia di allargamento della NATO all’Ucraina ed avere di fatto perso il controllo del Paese Putin non vuole, a due anni dalla pensione, passare alla storia come lo Zar che ha perso definitivamente la famiglia slava di Kiev.
E si è imbarcato in una pericolosa avventura militare fidando nella ipotesi che la risposta degli avversari occidentali rimanga asimmetrica, confinata al terreno economico delle sanzioni. Il futuro ci dirà se il suo rischio calcolato avrà successo. Dipenderà da molte cose. Durata, estensione delle operazioni, resistenza ucraina. Quindi, neppure il futuro politico di Vladimir Putin è oggi una cosa certa. Ma una seconda cosa sembra quasi certa. Il meccanicistico atlantismo europeo totalmente dipendente dal 1949 dalla visione americana del mondo espressa prima in funzione antisovietica e poi in funzione antirussa negli ambiti NATO è stato, sino ad oggi, assolutamente incapace di concepire una sua autonoma idea geopolitica di sicurezza valida per il proprio continente, l’Europa, di cui anche la Federazione Russa fa parte. Forse sarà proprio la forza dei nuovi rapporti di forza che farà arrivare laddove l’intelligenza politica, condizionata da quasi secolari riflessi automatici di dipendenza, non ha mai osato arrivare.
Carlo degli Abbati, docente di Storia dei Paesi musulmani al Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento