Chi ha la ventura di nascere a Genova (condizione umana che non ricorda ancora la sfiga) è condannato comunque ad un destino di dubbi, di perplessità. Da grande sarà genoano o sampdoriano, stravedrà per il binomio cromatico del rosso con il blu o preferirà il rossoblucerchiato, tavolozza già più complessa? Ma soprattutto, d’estate, conoscerà le corna di un faticoso dilemma: andare a fare il bagno a Levante o a Ponente?

Foto: Raffaello degli Abbati

Chi ha la ventura di nascere a Genova  conosce una condizione umana che ti  condanna comunque ad un destino di dubbi, di perplessità. Da grande il genovese sarà genoano o sampdoriano, stravederà per il binomio cromatico del rosso con il blu o preferirà il rossoblucerchiato, tavolozza già più complessa? Ma soprattutto, d’estate, conoscerà le corna di un faticoso dilemma: andare a fare il bagno a Levante o a Ponente? Vittima sin da piccolo di tutta l’ambiguità di una Riviera che circonda la città dai due opposti sensi cardinali. A Levante la costa di Pieve Ligure, immortalata dalla presenza di Beppe Grillo, Sori e poi Rapallo, Santa Margherita, Portofino, sino alle 5 Terre dove il turista giapponese fermandosi a fotografare i panorami oggi rischia ormai lo schiacciamento fisico di massa. A Ponente invece Vesima, Varazze, Finale Ligure, Alassio, Sanremo. Chi non conosce Sanremo? Ma non per il Festival, sempre meno melodico, ma per l’addensamento invernale di signore milanesi di mezza età, tutte egualmente traspiranti sino a pochi anni fa nei bus a venti gradi di temperatura sotto spessori esibiti di visoni, astrakan, ocelot, leopardi, castori ed altre creature ignobilmente strappate ad una vita di famiglia dalla esigenza di provocare il classico effetto look “Ueila, noi frequentiamo Sanremo e vi facciamo anche vedere che ne abbiamo tanti”.

Poi, poco più lontano, lo splendido tratto di confine fra Ventimiglia e Mentone, tanto bello e pescoso da formare oggetto di una vecchia lite confinaria fra Francia e Italia. Per un giovane studente genovese, la scelta Levante/Ponente non era poi libera, ma atavicamente condizionata dal livello dei prezzi, massimo a Levante, più moderato a Ponente. Quindi si andava a Levante da studenti solo a condizione di sfruttare esclusivamente scogli, spiagge libere, insenature riparate, lontane da bagnini buttafuori, da ingressi di stabilimenti da frequentare solo dopo essere passati in banca alla ricerca di un fido.

Quindi da Genova si andava a Levante, ma in corriera e con gli occhi solo ai meravigliosi squarci di scogliera aperti al popolo. Per questo si cercava fra amici, dopo le lezioni sudatissime del mattino in severe scuole in cui era immorale stare disattenti, anche per un solo attimo, la partenza pomeridiana delle corriere che andassero a Levante, sul classico percorso Genova- Recco.

Cominciavano i nostri pomeriggi in corriera che da Genova-centro ci portavano a Levante, a Pieve Ligure, sulla scogliera. I pomeriggi in cui dai finestrini, passata la tregenda urbana dei palazzoni imponenti e inquietanti, ci veniva di colpo incontro tutta una fantasmagoria fatata di colori, di dislivelli, di guizzi di luce a precipizio sulle discese, di agavi sospese a perpendicolo, di ville ottocentesche e casette bianche fra fasce verdissime che sembravano cubetti di ghiaccio in un bicchiere di menta. Spacchi, strappi, strabalzi dove ogni contrasto era fiabesco.

Passavano, i porticcioli, le chiese e i campanili, ma anche i cimiteri sospesi come chiglie di navi al varo, diceva il poeta. E si lasciava la razionalità noiosa delle conurbazioni urbane per ritrovare lo sfogo della natura. Constatavamo tutta l’ambiguità di una costa indecisa se ritrarsi o dare sfogo all’onda, questa perplessità del paesaggio che si era fabbricato un entroterra a picco sul mare con le ansie dei precipizi e delle discese, questi colpi d’occhi dove la verdura cedeva a dei baratri scoscesi, dove i percorsi da montagna finivano in baiette o in grossi scogli allungati come balene verso il largo. E i colori sfumavano fra il verde smeraldo della costa, i toni viola del mare profondo sino all’esplosione dorata dei riverberi sulla superficie più vicina alla costa. E poi ci si mettevano gli uomini, che si inerpicavano sulle fasce pettinandole e aggiungevano alla varietà della natura la loro tavolozza di colori che faceva delle alte murate delle case strappate alle discese un palinsesto variopinto, incredibilmente allegro, quasi dicessero: “Venite con noi, noi siamo colorati perché la felicità ce l’abbiamo già dentro.” Ma non bastava questa ubriacatura di bellezza della costa.

Anche il mare voleva entrare nel gioco e si offriva appena sotto i tagli delle scogliere venate di bianco e di grigio. Circondava, avvolgeva, inghiottiva e si mostrava. Si mostrava a noi, apneisti, anche grazie alle magnifiche maschere Pinocchio che un ex-marinaio incursore, Egidio Cressi, aveva cominciato a fabbricare in un garage di Quarto, insieme alle pinne Rondine. Argenteo, balenante, fatto di una miriade di pagliuzze dorate in superficie ma appena qualche metro sotto, esigendo un silenzio contemplativo, svelava un altro mondo, il nostro sesto continente, fatto ancora di altri riflessi, ricco di flore e creature che sembravano volere competere nell’attrazione con il mondo capovolto che si era appena lasciato a pelo d’acqua. Nella meraviglia di un ambiente mediterraneo dove la tavolozza non era quella ad olio dei mari tropicali, ma la finissima ispirazione di un commovente acquarello che dipingeva ricci, polipi, intelligenti e ansiosi, lame guizzanti di saraghi e branzini, fra pendii dove esplodevano i colori delle posidonie, delle alghe, dei coralli, degli spirografi, dei cavallucci marini, i cento cromatismi dei pescetti di scoglio, l’andamento possente delle cernie in profondità, il respiro inquietante a bocca aperta delle murene. Ci si nuotava in mezzo pensando che non si sarebbe mai potuto fare parte della banda per una diversità congenita, ma che magari se tutte queste belle creature avessero voluto avrebbero potuto almeno accettarci come un aggregato del loro paesaggio. E quando si finiva la nuotata restava il dubbio se si stesse meglio giù oppure nel mondo di su. Ma si pensava anche comunque che i due mondi se la battessero davvero in bellezza per una stretta incollatura.

Quando in corriera si riprendeva la via della città, magari con la sensazione di qualche sassolino fra noi e il sedile, con qualche umidità dello zainetto, si sentiva dentro un grande appagamento. E i palazzoni che ci ritornavano inevitabilmente incontro sembravano adesso meno inquietanti, tollerabili.

Ripeto, io non so e probabilmente non saprò mai se nascere genovese per un italiano sia una sfiga o una fortuna, ma i pomeriggi in corriera nel Levante ligure da Genova, quelli sì, si possono fare ancora oggi per davvero.

Carlo degli Abbati

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