L’Unione europea festeggia quest’anno il 30° anniversario del mercato unico. Vale la pena prima di tentare una valutazione, ritornare sui vari momenti della sua realizzazione
Dopo l’approccio funzionale espresso dal trattato CECA, il Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea, firmato a Roma il 25 marzo 1957, aveva individuato come motore del processo integrativo l’instaurazione di un mercato comune avente tutte le caratteristiche del mercato interno a ciascuno degli allora sei Stati-membri (Italia, Francia, Germania, tre Paesi del Benelux) e, quindi, essendo contraddistinto dalle quattro fondamentali libertà di circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. Il MEC come si diceva allora avrebbe dovuto costituire il motore del processo integrativo europeo indirizzato, nel breve termine, alla realizzazione dell’unione doganale e, a più lungo termine, di una unione economica in Europa destinata a diventare anche politica.
L’opera paziente di riduzione degli ostacoli interni di natura doganale, amministrativa e fiscale aveva segnato un primo successo nel 1968 con l’entrata in funzione dell’Unione doganale, ma aveva subito un brusco rallentamento negli Anni ‘70 a causa delle crisi petrolifere del 1974 e del 1979 che avevano consigliato gli Stati-membri toccati dalla crisi di ripristinare la priorità e la chiusura amministrativa dei mercati nazionali.
Era stato necessario provvedere dagli Anni ‘80 soprattutto con la presidenza della Commissione affidata a Jacques Delors ad intraprendere il lungo cammino che avrebbe comportato dopo la approvazione dell’ATTO UNICO del 1987 la realizzazione del grande mercato unificato europeo all’orizzonte del 1° gennaio 1993.
La liberalizzazione del commercio intracomunitario dagli ostacoli oltre che doganali, già realizzata dal 1968, anche dovuti alle entraves fiscali, tecniche ed amministrative agli scambi avrebbe trovato piena ed effettiva realizzazione nel primo semestre 1993, con qualche ritardo rispetto al termine previsto in materia di legislazione del settore bancario.
Dagli Anni ‘90 la realtà del mercato unificato realizzato da Stati-membri presentanti in un primo tempo il vantaggio di un livello abbastanza omogeneo di crescita economica ha potuto effettivamente svolgere un ruolo importante nell’accelerare lo sviluppo economico della zona europea. realizzato in modo uniforme senza comportare gli effetti perversi di sostanziali delocalizzazioni e concentrazioni delle attività economiche nelle zone più favorite.
Al quadro indubbiamente positivo della operatività del mercato unificato in termini di massimizzazione della produttività marginale del sistema produttivo europeo, va però aggiunto un bemolle.
Funzionante nel quadro di un modello europeo passato rapidamente dall’economia sociale di mercato all’integrazione del modello neo-liberale di stampo anglosassone (Reagan- thatcheriano) basato sulla riduzione degli interventi statali e sulla supposta auto-regolamentazione automatica dei mercati, il mercato unificato è stato interpretato dalle istituzioni europee almeno a partire dagli Anni ‘90 come un obiettivo politico a sé stante, fondante il funzionamento interno su stretti principi di libera concorrenza ed escludendo ideologicamente come fattore di disturbo l’intervento pubblico nell’economia. Questo ha nei fatti impedito la compiuta realizzazione di una politica industriale realmente europea e la concretizzazione basata su interventi misti pubblico-privati di settori europei trainanti in ambiti fondamentali che avrebbe assicurato alla Unione Europea anche un superiore significato geopolitico. E’ rimasta la forza del grande mercato unificato di 450 milioni di consumatori e la costanza di un approccio fondamentalmente liberista che in fondo non si è mai scostato anche in Europa dalle riflessioni del sacro triangolo reagan-tachteriano F. Von Hayek (culto del libero mercato autoregolantesi) – M.Friedman (monetarismo) – A.Laffer (detassazione degli alti redditi). Fino a che la constatazione recente della conseguente crescita delle diseguaglianze in Europa messe chiaramente in luce dalla pandemia di COVID-19, nonché la esigenza inalienabile di attuare un percorso di transizione ecologica e digitale hanno apportato all’approccio europeo una salutare correzione costituita dal Green Deal e dal Next Generation EU. Strumenti di giusto complemento alla funzionalità del mercato unificato europeo che sino a poco tempo fa sembrava inquadrato in una sorte di agostiniana confusione dei mezzi con i fini del processo integrativo europeo. Con gravi rischi che le conseguenti ineguaglianze distributive comportassero la perdita progressiva del consenso politico da parte di vaste masse di cittadini intorno al processo integrativo europeo.
Se Federico Caffè, scomparso nel 1987, fosse ancora in vita, certo potrebbe apprezzerebbe gli orientamenti maturati di recente in seno alle istituzioni europee. Una recente rivincita perlomeno conseguita in Europa, mentre il nuovo governo Meloni sembra tardivamente interpretare la visione liberista speculare di Francesco Ferrara. Un « laissez faire laissez passer » che aggrava ulteriormente le ineguaglianze distributive del più fragile dei grandi stati-membri europei. Come se la diseguaglianza interna non comportasse assenza di crescita. O meglio prospettive di una decrescita, per una volta infelice. Perché si scrive decrescita ma si legge recessione.
Carlo degli Abbati
Professore associato di Politica Economica e Finanziaria insegna Diritto dell’Unione Europea presso il Dip. di Lingue e Culture Moderne dell’Università degli Studi di Genova