Un collega giornalista italiano, interessato ai temi d’attualità, viene nel Granducato per capire se il modello migratorio lussemburghese può essere d’esempio per altre nazioni. Cerca contatti e fonti, prende appunti, prepara interviste a persone della società civile, delle OnG, della politica. Questo è il quadro che ne emerge. Un Paese che ha bisogno economicamente della manodopora “straniera”, con politiche spesso all’avanguardia (sulla doppia cittadinanza, per esempio) e un quadro migratorio solido ma che rischia di adeguarsi al trend di “chiusura” europeo

“Non tutti sanno che la storia del Lussemburgo si è consolidata attraverso flussi migratori che hanno plasmato l’identità di questo crocevia europeo. Fondata su uno sperone di roccia lungo la valle dell’Alzette (affluente della Mosa) nel 987, elevata a ducato del Sacro Romano Impero nel 1354 e annessa da Luigi XIV nel 1684, questa terra ha dato i natali ad Arrigo VII, meglio noto come Enrico, imperatore del Sacro Romano Impero. Questo legame storico si rafforza nel tempo attraverso l’emigrazione, un fenomeno che ha segnato profondamente il Granducato”. Paola Cairo, giornalista italiana in Lussemburgo dal 2002 e fondatrice, insieme alla collega Maria Grazia Galati, di PassaParola Magazine, mensile in lingua italiana nel Granducato passato all’online nel 2023, ci introduce così al legame profondo e poco conosciuto tra le comunità migratorie, anche in provenienza dall’Italia, e questo piccolo Stato. “Noi per primi, come italiani, abbiamo fatto parte della prima ondata migratoria verso il Lussemburgo, alla fine dell’Ottocento. Nell’epoca industriale già alcuni nuclei di italiani vennero registrati nella capitale Luxembourg-ville ma fu soprattutto la manodopera proveniente dal Nord e dal centro Italia a stabilirsi nel Sud del Paese, attratta dalle miniere di ferro e dall’industria siderurgica”, spiega Paola Cairo: “Tanto che dal secondo Dopoguerra, accordi bilaterali tra Italia e Lussemburgo, ma anche con altri Paesi come il Portogallo, favorirono un raddoppio della presenza italiana, con flussi provenienti soprattutto dal Sud della Penisola.”

L’economia lussemburghese, in rapida trasformazione, passò dalla siderurgia ai settori bancario, finanziario e delle istituzioni europee. “La nascita della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) negli anni ’50, seguita da CEE (Comunità Economica Europea), CEEA (Comunità Europea dell’Energia Atomica) e infine dall’Unione Europea, ha attratto una nuova generazione di italiani: non più solo operai ma professionisti qualificati e famiglie. Oggi si annoverano tra le seconde, terze e quarte generazioni ministri, politici, medici, ricercatori, giornalisti, ristoratori, cineasti, artisti e professori universitari. Dal 2008, la possibilità di mantenere la doppia nazionalità ha ulteriormente permesso di diventare cittadini del Granducato. Questo consente di votare per le elezioni politiche nazionali pur mantenendo il passaporto italiano”.

I requisiti di un modello per l’Europa?

Il Lussemburgo rappresenta sicuramente un caso unico in Europa: un piccolo Stato che, grazie alla sua posizione centrale e alla sua apertura cosmopolita, è riuscito a integrare comunità straniere senza perdere la propria identità. Ad oggi però il modello di integrazione lussemburghese si trova di fronte una situazione delicata, soprattutto per quanto riguarda i rifugiati e le comunità provenienti dal Sud globale. Per approfondire, abbiamo intervistato Roberto Martadirettore generale di Cooperation Nord Sud, Sergio Ferreira, portavoce di ASTI (Association de Soutien aux Travailleurs Immigrés), Alessandro Morini, ex Presidente di Amnesty International Lussemburgo e Marianne Donven, fondatrice della catena di ristoranti Chiche! ed ex funzionaria del Ministero degli Affari Esteri.

“Abbiamo iniziato a occuparci di integrazione professionale dei rifugiati a gennaio 2024. La nostra associazione, Cooperation Nord Sud, è nata nel 2011 con l’obiettivo di promuovere la solidarietà tra il Nord e il Sud del mondo, attraverso progetti di cooperazione in Kenya, Uganda, Tanzania e, presto, Ruanda, cofinanziati dal Ministero degli Esteri lussemburghese. Il Lussemburgo è uno dei Paesi più generosi al mondo in questo ambito, destinando l’1% del PIL alla cooperazione, con fondi esclusivamente dedicati a questo scopo.” Così Roberto Marta, direttore generale di Coopération Nord-Sud ci presenta la sua organizzazione, specializzata proprio nel fornire assistenza alle comunità marginalizzate. “Per quanto riguarda i rifugiati, il nostro programma offre un accompagnamento personalizzato: elaboriamo un bilancio delle competenze di ciascun partecipante, basato su studi, esperienze lavorative e passioni, per costruire un progetto professionale su misura, che include formazioni linguistiche, professionali e soft skills, oltre a un piano d’azione per raggiungere gli obiettivi”. Marta sottolinea le peculiarità del contesto lussemburghese: “La lingua è un ostacolo significativo. Qui ci sono tre lingue ufficiali – lussemburghese, francese e tedesco – e l’inglese sta diventando sempre più importante. Per i rifugiati, imparare il francese è cruciale per l’integrazione lavorativa, ma molti vogliono anche studiare il lussemburghese per ottenere la cittadinanza dopo cinque anni di residenza. Gli ucraini, ad esempio, spesso conoscono già l’inglese e possono trovare lavoro più facilmente, ma per altre nazionalità, come siriani e afghani, la situazione è più complessa. Molte domande di asilo vengono respinte, e l’unica possibilità per rimanere è ottenere un permesso di soggiorno per motivi lavorativi, un processo lungo e difficile.”

Un altro aspetto critico è l’accesso al lavoro: “I richiedenti asilo non possono lavorare nei primi sei mesi dalla richiesta di protezione internazionale e, successivamente, necessitano di un’autorizzazione temporanea, che scoraggia i datori di lavoro, specialmente per lavori semplici come quelli in ristoranti o imprese di pulizia. Stiamo cercando di sensibilizzare le aziende, ma la burocrazia rimane un ostacolo.” Marta evidenzia anche il problema abitativo: “In Lussemburgo, l’alloggio è quasi impossibile da trovare. Non esistono vere case popolari, e i prezzi del mercato immobiliare sono altissimi. Anche con il salario minimo, i rifugiati non possono permettersi un affitto, e i proprietari spesso sono riluttanti ad affittare a loro. Questo ha portato a un aumento dei senzatetto, un fenomeno nuovo per un Paese ricco come il Lussemburgo.”

Il Lussemburgo come modello migratorio? Marta è cauto: “Fino a un paio d’anni fa, avrei detto che il Lussemburgo era un modello positivo. Oggi, però, si sta adeguando al trend europeo di chiusura verso i migranti, influenzato dal nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo dell’UE (che introdurrà regole più rigide nel 2026). Comunità come quella capoverdiana, grazie a legami storici con il Portogallo e alla cooperazione diretta con il Lussemburgo, gode di un’integrazione più agevole. Per altre, come gli africani o i sudamericani, le difficoltà sono crescenti, con molte domande di asilo respinte.”

Politiche migratorie più rigide

Sergio Ferreira, portavoce di ASTI (Associazione di Sostegno ai Lavoratori Immigrati) ci fornisce un altro punto di vista attraverso la sua organizzazione: “ASTI è nata nel 1979, fondata da un gruppo misto di cittadini lussemburghesi e stranieri, in risposta alle trasformazioni migratorie seguite agli accordi bilaterali del 1972 con Portogallo e Jugoslavia, che per la prima volta includevano il diritto al ricongiungimento familiare.” A differenza delle precedenti ondate migratorie italiane, legate all’industria siderurgica, l’arrivo di famiglie portoghesi portò nuove difficoltà: accesso all’alloggio, istruzione e sicurezza sociale. “ASTI opera su tre livelli: progetti sul territorio, analisi e riflessione, e lobbying politico. Ci definiamo un’associazione ‘do and think’: agiamo sul campo con iniziative come il supporto linguistico e l’inserimento lavorativo, e proponiamo politiche per un’integrazione più efficace. Come direttore politico, mi occupo principalmente di advocacy presso il Parlamento e il governo.”

Sull’evoluzione della società lussemburghese, Ferreira osserva: “Negli anni ’70 e ’80, si pensava che l’integrazione avvenisse spontaneamente. Negli anni ’90, si è capito che servono politiche attive. Oggi, il 48% della popolazione è straniera, con il 76% proveniente dall’UE. La riforma del 2009 sulla cittadinanza, con la doppia nazionalità e il recupero della cittadinanza per i discendenti, ha permesso a oltre 20.000 brasiliani di diventare lussemburghesi, anche senza parlare le lingue del Paese. Nel 2023, il concetto di ‘integrazione’ è stato sostituito da ‘vivere insieme’, un paradigma che richiede un impegno reciproco tra chi arriva e la società ospitante.”

Tuttavia, Ferreira evidenzia limiti: “Le politiche migratorie si sono irrigidite dal 2023, con procedure più complesse per ricongiungimenti familiari e permessi di soggiorno. I richiedenti asilo possono aspettare fino a due anni senza poter lavorare, e il mercato immobiliare, privo di case popolari, rende l’autonomia quasi impossibile. Inoltre, ci sono discriminazioni nell’accesso al lavoro, specialmente per chi ha nomi arabi o africani. Sul piano politico, però, ci sono progressi: i cittadini europei e di Paesi terzi possono votare ed essere eletti a livello comunale, una conquista rara in Europa.”

Il Lussemburgo come modello migratorio? Ferreira è realista: “Il concetto di ‘vivere insieme’ è innovativo, ma la sua applicazione è ancora incompleta. Il Lussemburgo considera la migrazione un fatto strutturale, non emergenziale, e questo è un punto di forza. Tuttavia, rispetto al diritto d’asilo, altri Paesi come il Belgio sono più avanzati, permettendo ai richiedenti asilo di lavorare dopo tre mesi. Il Lussemburgo oscilla tra ambizioni progressiste e una certa prudenza.”

La solidarietà non basta

 
Alessandro Morini, ex Presidente di Amnesty International Lussemburgo spiega che “le politiche del Lussemburgo, come l’assistenza rapida per i richiedenti asilo e l’educazione trilingue, sembrano progressiste, ma la loro efficacia va valutata in base alla protezione dei diritti fondamentali, come l’accesso all’alloggio, alla sanità universale e al lavoro. L’educazione multilingue è utile, soprattutto per i giovani rifugiati, ma persistono sfide strutturali, come la crisi abitativa e l’insicurezza amministrativa per migranti privi di documenti o richiedenti asilo respinti secondo il Regolamento Dublino III. Questi gruppi spesso non hanno accesso a servizi essenziali. Amnesty International Lussemburgo vede nel nuovo Patto UE su Migrazione e Asilo un’opportunità per migliorare la protezione, specialmente per i minori non accompagnati, ma teme che pratiche come l’esternalizzazione delle responsabilità o la detenzione dei migranti irregolari possano compromettere valutazioni eque.

Sul confronto con la visione di Amnesty, Morini aggiunge: “Il Lussemburgo aderisce ai quadri normativi europei e ha gestito efficacemente la protezione temporanea per gli ucraini dal 2022, mostrando attenzione anche ai minori non accompagnati. Tuttavia, l’erosione del diritto al ricongiungimento familiare e le lungaggini burocratiche per i richiedenti asilo contrastano con l’approccio umanitario che Amnesty promuove, basato su protezione, equità e prevenzione dei respingimenti. Il Lussemburgo mostra solidarietà, ma deve integrare meglio i sistemi di alloggio, istruzione, assistenza legale e accesso al lavoro.” E poi ci sono le lacune legali: “Il Lussemburgo ha un quadro migratorio solido, ma l’erosione dell’approccio umanitario a livello UE, con l’esternalizzazione e la detenzione, rischia di influenzarlo. Servono miglioramenti in alloggio, accesso al lavoro, sanità e meccanismi di rilevazione delle vulnerabilità. Chiediamo maggiore trasparenza nelle procedure di asilo e un trattamento in linea con gli obblighi internazionali, come quelli della Corte Europea dei Diritti Umani.”

Sul modello lussemburghese come esempio per l’Europa, anche Morini è cauto: “Il Lussemburgo offre soluzioni tempestive e un sistema educativo ben strutturato, ma non è un modello replicabile per l’Europa occidentale, dati i diversi contesti nazionali. È piuttosto un laboratorio di buone pratiche, con margini di miglioramento in aree come l’alloggio, l’accesso al lavoro e la gestione dei ritorni. Fino a quando queste questioni non saranno risolte, è difficile considerarlo un modello completo.”

Marianne Donven, ex funzionaria del Ministero degli Affari Esteri lussemburghese è anche tra i fondatori di Chiche!, una catena di ristoranti che fornisce lavoro ai richiedenti asilo e rifugiati. “Ho lavorato per undici anni al Ministero degli Affari Esteri, occupandomi di aiuti umanitari. Viaggiavo in zone di crisi, da disastri naturali a conflitti, carestie e siccità, vedendo molta sofferenza. Ho sviluppato un grande rispetto per le popolazioni resilienti, specialmente le donne che riuscivano a crescere i figli in condizioni estreme, in luoghi come Sud Sudan e Congo. Quando nel 2015 i rifugiati sono arrivati in Lussemburgo, volevo incontrarli, capendo bene da dove venivano e perché avevano lasciato i loro Paesi. Ho iniziato come volontaria alla Croce Rossa, poi ho contribuito a creare il progetto Hariko, un centro artistico per giovani, dove ho conosciuto molti rifugiati arrivati tra il 2015 e il 2017. Offrivamo laboratori per aiutarli a superare le loro esperienze difficili.”

Sul progetto Chiche! Donven racconta: “Per caso, un vecchio amico mi contattò, proponendomi di usare delle case in demolizione nel quartiere di Hollerich per un progetto. Notai che molti siriani che avevo conosciuto erano eccellenti cuochi, così decidemmo di aprire un pop-up restaurant, Syriously. L’esperienza durò sei mesi, ma non funzionò a causa di problemi con lo chef e il rispetto delle norme igieniche. Parallelamente, creammo Chiche!, che al contrario ebbe molto successo. Iniziammo con un piccolo spazio, poi ci siamo espansi, utilizzando case vicine disabitate. Quando gli edifici furono demoliti, avevamo già 18 dipendenti e molti clienti. Trovammo una sede permanente in un altro quartiere, Limpertsberg, e da lì è stata una storia di successo. Oggi abbiamo sei ristoranti e alcuni punti vendita più piccoli, come un chiosco e un servizio di catering. Impieghiamo 77 persone, tutte tranne due sono richiedenti asilo o rifugiati. Circa la metà ha ottenuto la protezione nazionale, mentre l’altra metà ha ricevuto permessi di soggiorno attraverso il lavoro. L’obiettivo di Chiche! è creare prospettive per rifugiati e richiedenti asilo che vogliono lavorare in Lussemburgo.”

Sulle nazionalità dei lavoratori, Donven spiega: “La maggior parte è arrivata con l’ondata migratoria del 2015-2017. Alcuni avevano scelto il Lussemburgo per la sua mentalità aperta e multiculturale, ma molti credevano di essere in Germania o Francia. I gruppi principali sono siriani, iracheni, afghani, eritrei e, più recentemente, ucraini. Alcuni sono arrivati tramite ricongiungimenti familiari, ma sono pochi. Il Lussemburgo ha una popolazione per metà di origine migratoria, spesso con contratti di lavoro già firmati in settori come l’IT o l’edilizia, a differenza di chi arriva irregolarmente cercando di ottenere documenti.”

Anche Marianne sottolinea la crisi abitativa: “Non abbiamo una crisi di rifugiati, ma una crisi abitativa. I prezzi degli alloggi sono insostenibili, anche per i giovani lussemburghesi. Molti rifugiati vivono in condizioni precarie, come quattro persone in una stanza, o pagano affitti esorbitanti, come 1.700 euro al mese per un alloggio. Alcuni miei dipendenti sono senza fissa dimora o dormono nei nostri ristoranti perché non trovano casa. Fino a poco tempo fa, il Lussemburgo garantiva posti nei centri di accoglienza, ma con il nuovo governo, dal 2023, le persone con un rifiuto definitivo di asilo devono lasciare i centri entro cinque giorni, creando un aumento dei senzatetto. Anche i rifugiati riconosciuti vengono spinti a trovare alloggi privati rapidamente, ma il mercato immobiliare non offre soluzioni accessibili.”

Cosa ne pensa la politica?

Per esplorare prospettive diverse, abbiamo intervistato anche alcuni esponenti politici lussemburghesi, tra cui il deputato Fred Keup, presidente del gruppo parlamentare di ADR (Alternativ Demokratesch Reformpartei)Barbara Agostino, deputata del Demokratische Partei (DP) e un rappresentante del Ministero degli Affari Familiari, Solidarietà, Vivere Insieme e Accoglienza dei Rifugiati.
Sul modello migratorio lussemburghese, Keup è netto: “Il cosiddetto ‘modello Lussemburgo’ sembra impressionante sulla carta, ma è una facciata più che una vera coesione. Quasi la metà della popolazione non è lussemburghese, e l’uso della nostra lingua nazionale sta diminuendo rapidamente. L’integrazione oggi significa spesso che i lussemburghesi si adattano agli stranieri, invece che i nuovi arrivati si uniscano al nostro stile di vita. Questo squilibrio crea società parallele e erode i punti di riferimento condivisi di cui un Paese ha bisogno. L’identità nazionale e la coesione sociale si stanno indebolendo, e molti lussemburghesi si sentono stranieri nel loro stesso Paese.”

Servono riforme necessarie, Keup sottolinea: “L’immigrazione incontrollata ha un costo reale per i lussemburghesi comuni. La crisi abitativa è il sintomo più evidente: la popolazione è cresciuta da 435.700 nel 2000 a 672.050 nel 2024, con 11.000 nuovi arrivi solo tra il 2023 e il 2024, spingendo i prezzi degli alloggi alle stelle. La competizione nel mercato immobiliare e del lavoro è alta, e i lussemburghesi dovrebbero avere la priorità per evitare di essere costretti a trasferirsi all’estero per trovare case accessibili. Lo Stato richiede sempre più la conoscenza del francese in molte posizioni, trascurando il lussemburghese, il che porta a discriminazioni contro i lussemburghesi nel loro stesso Paese. I più vulnerabili ne soffrono di più. Le scuole si adattano alle esigenze dei migranti, spesso a scapito dei lussemburghesi. I benefici sociali generosi dovrebbero essere concessi solo dopo un periodo di contribuzione equo, non immediatamente. Ogni riforma deve rispondere a una domanda: serve al benessere dei cittadini lussemburghesi?”.  Sul sistema educativo trilingue e le politiche multiculturali, Keup afferma: “Apprezziamo l’integrazione e il sistema trilingue storico, ma dividere i bambini in un nuovo percorso primario in francese frammenterebbe la coesione sociale fin dall’inizio. La scuola primaria deve unire, non separare, per questo ci opponiamo a percorsi linguistici separati. L’ADR promuoverebbe un maggiore uso del lussemburghese nelle prime classi per costruire un’identità comune, prima di passare al tedesco e poi al francese e all’inglese. Vogliamo anche una maggiore visibilità della lingua e della cultura lussemburghese nella vita pubblica e un test di cittadinanza che richieda una reale competenza linguistica. In breve, vogliamo una società costruita attorno alla nostra lingua e cultura, non comunità che coesistono.  Sulla sostenibilità del modello migratorio, Keup è scettico: “Una crescita senza fine non è sostenibile per un Paese delle dimensioni di una città-stato. Territorio, alloggi, traffico, posti scolastici, medici e bilanci sono già al limite, e le statistiche sulla criminalità crescono più velocemente della popolazione. Nel 2023, il Lussemburgo era il quinto nell’UE per richieste di asilo pro capite, un segno che la nostra capacità di assorbimento è al confine. La sostenibilità significa che i nuovi arrivi non devono peggiorare la qualità della vita dei residenti, e su questo il modello sta fallendo. L’ADR deve essere la sentinella che impone un controllo della realtà contro gli slogan ottimistici. Proponiamo immigrazione limitata, screening più rigorosi per l’asilo e rimpatri rapidi per chi non ha diritto di restare. Con una popolazione che si avvicina al milione, la qualità della vita sarebbe a rischio, e vogliamo evitarlo, come desidera la maggior parte dei lussemburghesi. Per il modello migratorio per l’Europa, Keup conclude: “Il Lussemburgo è l’Europa in miniatura e la nostra esperienza mostra che la diversità senza assimilazione indebolisce il tessuto sociale anche di una società prospera. La prima lezione è controllare i flussi e promuovere l’integrazione attraverso una lingua e una cultura civica comuni. La seconda è che la sovranità nazionale è importante; imporre quote migratorie crea reazioni negative e sfiducia verso Bruxelles. L’ADR promuove una politica che preserva la sovranità degli Stati nazionali, come fanno molti partiti in Europa. Dimostrando che un’immigrazione rapida e massiccia può erodere l’identità anche in uno Stato prospero, offriamo un esempio cautelativo. In Europa dovremmo essere orgogliosi della nostra storia, eredità e cultura, perché solo un’identità forte consente l’integrazione.”

Agostino è invece positiva: “Il Lussemburgo è un esempio di coesione sociale basata su rispetto, dignità e inclusione. Abbiamo scelto la pluralità, dimostrando che l’integrazione funziona con politiche pubbliche coraggiose, un sistema scolastico plurilingue e accesso a formazione e lavoro. L’immigrazione è un’opportunità, non un problema. Servono politiche abitative ambiziose, lotta al lavoro precario e una migliore redistribuzione fiscale per garantire giustizia sociale a tutti, migranti e non.”
A proposito del sistema educativo, suggerisce: “Il trilinguismo va reso più flessibile, con maggiore uso del francese come lingua ponte e l’integrazione delle culture d’origine degli alunni per un’educazione inclusiva. Il modello è sostenibile con politiche lungimiranti che garantiscano diritti, doveri e coesione. I partiti devono promuovere una società aperta, integrando migrazione con politiche sociali e abitative.”
Uno modello per l’Europa? Conclude: “Il Lussemburgo insegna che l’integrazione funziona con politiche inclusive, che migrazione e giustizia sociale sono inseparabili, e che le identità multiple sono una forza. Il DP sostiene un’Europa basata su diritti, solidarietà e programmi di integrazione.”

Sul concetto di “vivere insieme”, il Ministero degli Affari Familiari, Solidarietà, Vivere Insieme e Accoglienza dei Rifugiati aggiunge: “Il ‘vivere insieme interculturale’ promuove rispetto reciproco, tolleranza, solidarietà, coesione sociale e la lotta contro il razzismo e ogni forma di discriminazione, considerando la diversità un valore per una società interculturale. È un processo partecipativo, dinamico e continuo che permette a chi vive o lavora in Lussemburgo di convivere, lavorare e decidere insieme. Strumenti chiave includono il Piano d’Azione Nazionale per il Vivere Insieme, il Biergerpakt (un impegno volontario che offre moduli formativi su storia, tradizioni, lingue e valori del Paese) e il Gemengepakt (patto comunale, ndr), che impegna i comuni in una collaborazione con il Ministero per promuovere l’accesso alle informazioni, la partecipazione e la lotta alla discriminazione, con supporto finanziario e consulenti interculturali per rispondere alle esigenze locali.”

E’ una storia di successo? Il Ministero afferma: “Attraverso il Biergerpakt, supportiamo i nuovi arrivati con programmi come l’Orientation Day, che fornisce informazioni essenziali sulla vita in Lussemburgo, consigli per partecipare ad associazioni e contatti con la pubblica amministrazione. Progetti come i meet&speak di INLL (Istituto nazionale di lingue del Lussemburgo), gli Sproochekaffi di ASTI o il sito LinGoLux promuovono l’apprendimento linguistico e culturale, aiutando i migranti a costruire reti sociali. Sebbene non abbiamo un esempio specifico, molti partecipanti diventano imprenditori o trovano lavoro in settori dove la diversità è un valore aggiunto, riflettendo la visione del Lussemburgo di una società inclusiva che valorizza la diversità.”

Il “modello Lussemburgo” ha dimostrato che l’integrazione è possibile quando si coniugano opportunità economiche, dialogo culturale e mobilità sociale, come testimoniano le esperienze italiane, portoghesi, capoverdiane e il progetto Chiche! Anche se le testimonianze di Marta, Ferreira, Morini e Donven e degli esponenti politici evidenziano un quadro complesso. Da un lato, il Lussemburgo si distingue per il suo approccio strutturale alla migrazione; dall’altro, secondo Keup, c’è il rischio di un’erosione dell’identità nazionale e della coesione sociale, mentre le difficoltà abitative e burocratiche, insieme al nuovo Patto UE su Migrazione e Asilo, mettono alla prova la sostenibilità del modello. In un’Europa alle prese con dibattiti complessi sull’immigrazione, il Granducato rimane un laboratorio interessante, ma non privo di contraddizioni.

di Jacopo Romanelli (per gentile concessione di INSIDEOVER)

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