Il referendum che si è svolto ai primi di giugno non ha raggiunto purtroppo la percentuale di votanti che potesse renderlo valido. Gli italiani hanno disertato le urne, confondendo anche in buona parte la sfiducia nella politica con il diritto/dovere civico a poter scegliere in prima persona per cambiare ciò che non va. Cosa non ha funzionato? da dove si deve ripartire per guadagnare una nuova coscienza civica e politica nel nostro Paese?  Dove possiamo leggere comunque un segnale positivo ? Lo abbiamo chiesto a Edoardo Pizzoli e Roberto Serra, due rappresentanti autorevoli della comunità associativa italiana in Lussemburgo, Paese che ha registrato, importante sottolinearlo, fra le  migliori partecipazioni al voto degli italiani residenti all’estero

Edoardo Pizzoli (presidente Inca CGIL Lussemburgo e presidente ANPI Lussemburgo)

Il risultato del Referendum dell’8-9 giugno scorso ci permette di fare due importanti riflessioni sulla vita democratica del nostro amato Paese. Purtroppo c’è stato un partito ostile all’ iniziativa legislativa del popolo  e all’istituto democratico del referendum sin dall’Assemblea Costituente italiana e dall’introduzione dell’articolo 75 della Costituzione. Si dovrà attendere infatti la Legge n. 352 del 1970 per l’attuazione del principio costituzionale (ben 25 anni dopo!). Umberto Terracini, uno dei padri della nostra Costituzione Repubblicana, Presidente dell’Assemblea Costituente, citava ad esempio in un discorso al Senato del 1951  ‘’la voce dell’onorevole Zotta (Democratico Cristiano) che a forza di parlarci di esplosioni simboliche e allegoriche ha probabilmente finito per credere lui stesso di trovarsi oggi, in quest’Aula, di fronte se non ad un fatto rivoluzionario, quanto meno a un ordigno dinamitardo. No, il referendum non è nulla di ciò. E nulla c’è nella nostra Costituzione che possa anche lontanamente essere paragonato ad un’esplosione’’. Il referendum non implica pericoli per la nostra vita nazionale; ma rappresenta invece un riparo contro pericoli che forse già maturano, »molti oggi sono qui nel loro intimo sfavorevoli all’istituto del referendum’’. Questa ostilità degli avversari aperti o nascosti dell’istituto del referendum, purtroppo (e va ricordato alle nuove generazioni) ha una lunga storia ed è ancora presente.  L’invito al non voto, il quorum elevato per la sua validità, la possibilità di formulare solo quesiti referendari abrogativi, la scelta delle date del voto, sono ostacoli evidenti a chiunque, posti affinché questo istituto fallisca nella sua applicazione concreta; fallisca ovvero la democrazia ‘’realizzata’’ che dovrebbe andare oltre il richiamo dei sui principi teorici. Un secondo spunto di riflessione è stato dato dal modo in cui sono stati presentati e discussi pubblicamente i contenuti dei quesiti referendari. Questo, nello specifico, dei quattro quesiti che riguardavano il lavoro, uno dei cardini fondamentali della nostra Costituzione Repubblicana, che si collegavano con il quinto quesito che dava diritto di cittadinanza ai lavoratori stranieri nel nostro Paese. I cittadini italiani potevano spingere il legislatore a «porre fine alla precarietà, alle morti sul lavoro, ai licenziamenti ingiusti», citando in questo caso Maurizio Landini. Ci si sarebbe aspettato un approfondimento e una divulgazione delle  ‘’vitali’’ questioni in ballo, dati alla mano, dopo 10 anni dall’applicazione del Jobs Act,  che tratta la riforma della legislazione italiana in senso ‘’iberista’’ del mercato del lavoro, dopo le  sudate conquiste dello Statuto dei lavoratori del Maggio 1970. Argomenti che interessavano tutti, giovani e anziani, lavoratori o meno, in Italia o all’estero, di ogni colore politico. Nulla di tutto questo: tutti i principali partiti e i grandi media hanno presentato il referendum superficialmente come un voto pro o contro il governo attuale di centro-destra. Un voto risultato poco interessante ai più, visto che si conoscevano già gli orientamenti degli elettori e quindi, come risultato politico, una sconfitta annunciata dell’attuale centro-sinistra. E l’istituto del referendum?  Umiliato, come umiliate le questioni vitali poste per milioni di cittadini italiani (e non solo).

Roberto Serra (presidente Circolo Ricreativo e Culturale “Eugenio Curiel”)

Il risultato dei 5 referendum dell’8 e 9 giugno è stato, tecnicamente, una sconfitta. Tecnicamente perché la legge che regola le consultazioni referendarie in Italia impone che si rechi alle urne il 50 più uno per cento degli aventi diritto al voto. E, dunque, una sconfitta per chi ha promosso i 5 quesiti referendari. Ricordiamo: i 4 sul lavoro promossi dalla CGIL e il quinto sulla cittadinanza promosso da +Europa e altre formazioni politiche di ispirazione socialista e progressista. La sconfitta, ovviamente, riguarda anche quelle forze politiche e quella parte del mondo associativo che hanno sostenuto la battaglia referendaria: PD, M5S e AVS in primis. Tuttavia, quella parte della politica che si dedica alle analisi del voto insegna che sarebbe ingeneroso, oltre che superficiale, fermarsi al dato “tecnico” citato poc’anzi. Il voto è un dato numerico che sempre contiene in sé un dato politico. E anche riguardo a quest’ultimo bisogna cercare di andare oltre lo schema, tanto di moda in questa epoca manicheistica “vincitori-vinti”. Il dato numerico del referendum dell’8 e 9 giugno scorsi ci dice che poco più del 30% degli aventi diritto al voto si sono recati alle urne. In termini numerici assoluti poco oltre 14 milioni di votanti. Se da un lato siamo ben lontani dal quorum di metà più uno di poco oltre 25 milioni di aventi diritto al voto, dall’altro siamo già di dieci punti percentuali oltre il dato di affluenza dell’ultima consultazione referendaria del giugno 2022 (il pacchetto di referendum sulla giustizia). Insomma, il dato conferma la disaffezione degli italiani a questa forma di democrazia diretta, ma abbiamo assistito ad una sorta di “sussulto” di partecipazione che è già, di per sé, un indicatore importante. Degli oltre 14 milioni di votanti, circa 13 milioni hanno votato SÌ, e cioè hanno accolto le indicazioni dei promotori di modificare alcune norme del Jobs Act e quelle relative alla sicurezza sui posti di lavoro. Difficile derubricare un risultato di questo tipo semplicemente come una “sconfitta”. 13 milioni di italiane e italiani hanno chiesto di poter lavorare in sicurezza, di avere maggiori tutele sul posto di lavoro e di vincolare le imprese a una responsabilità sociale pressoché sconosciuta al mercato imprenditoriale italiano. Tecnicamente è certamente una sconfitta, come già detto. Politicamente, invece, è stata conferita una dimensione e data una voce a una parte consistente del Paese che pensa che il lavoro non è solo o anzitutto merce, ma soprattutto luogo di dignità, crescita personale e professionale,  apprendimento.  

Una considerazione a parte merita il voto del referendum sulla cittadinanza.

Nel già citato quadro di una sconfitta tecnica, i votanti per il SÌ sono sotto i 10 milioni. Il dato politico rilevante è che circa 3 milioni di elettori che hanno votato per un allargamento dei diritti nel mondo del lavoro hanno, invece, optato per un “congelamento” del diritto di cittadinanza a chi non è italiano. Detto altrimenti, anche nel fronte “progressista” si teme quella che potremmo definire “la regina” delle aperture. E cioè la facilitazione a diventare cittadini, a pieno titolo, per oltre 5 milioni di stranieri che contribuiscono, anch’essi lavoratori, alla ricchezza di un Paese troppo ripiegato su se stesso, invecchiato e incerto sul proprio futuro.

RED

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