Ogni settimana una poetessa, un poeta, un profilo, una citazione sul suo intendere il modo di costruire le parole, la sua poesia.

Aldo Palazzeschi

Del resto Aldo Pietro Vincenzo Giurlani, nato nel 1885 in centro, a Firenze, in via Guicciardini, da Alberto e Amalia Martinelli, umbra di Città di Castello, è destinato dal padre a studi di ragioneria, ma quasi subito passa al teatro, si trova un nome d’arte, quello della nonna materna e si iscrive alla scuola di recitazione “Tommaso Salvini”, perché il padre è contrario che reciti col nome di famiglia.  E’ baciato subito dalla Musa della poesia. Vuole pubblicare una raccolta di poesie a verso libero, si rivolge ad editori che quasi si offendono per l’impudenza di un giovine autore (ha vent’anni) che non rispetta alcun canone metrico. Allora pubblica a sue spese, prende il nome del suo gatto, Cesare Blanc, e immagina un indirizzo di fantasia della casa editrice, via Calimala 2, Firenze. Nascono cosi’ le sue prime due raccolte di versi I cavalli bianchi e Lanterna, che la casa editrice Empiria ha di recente ripubblicato. Inizia con degli accenti crepuscolari ma non è che l’inizio. Lo stesso editore immaginario fa uscire nel 1908 il suo primo romanzo in stile liberty, Riflessi, incredibile mélange di decadentismo, comicità, leggerezza mondana. Segue la sua terza antologia, Poemi. L’agilità con cui infrange la rigidità dello schema metrico per esprimersi in versi di ogni lunghezza pur privilegiando ancora il ternario e il senario viene notata dal personaggio piu’ in vista del futurismo milanese, Francesco Tommaso Marinetti, che entusiasta lo complimenta per lo “sforzo talora riuscitissimo per rivelare in un modo assolutamente nuovo un’anima indubbiamente nuova”. Invitato a collaborare alla rivista “Poesia” pubblica l’antologia “L’Incendiario” dedicata a “F.T. Marinetti anima della nostra fiamma”, e poco prima il “Rapporto sulla vittoria futurista a Trieste” che contiene la poesia E lasciatemi divertire, una delle sue piu’ conosciute, volume poi sequestrato a Trento per i toni accesamente interventisti della prefazione. Nel 1909 è al Tribunale di Milano accanto a Marinetti, accusato e poi assolto, per oltraggio al pudore per il suo romanzo “Mafarka il Futurista”. L’anno dopo la pubblicazione del romanzo Il codice di Perelà si avvicina a Ardengo Soffici e Giovanni Papini, che allontanatisi dalla Voce sono impegnati a fondare la rivista Lacerba. Con loro si ritrova a Parigi nel 1914 e come loro incontra Apollinaire, Alexis Léger, Franco Modigliani, Max Jacob, Umberto Boccioni, Pablo Picasso e vi trova anche Ungaretti, uscito dalla Sorbona. Comunque se Palazzeschi aderisce al futurismo, ammirando in particolare la vitalità straordinaria di Marinetti, riesce comunque sempre a mantenere una sua personale autonomia creativa e proprio per questo ha successo piu’ di altri nel ruolo di pontiere nella rissa futurista scoppiata da Firenze con il futurismo milanese, per una stroncatura di Govoni su Lacerba di una mostra futurista a Milano. Del resto, all’inizio della prima guerra Palazzeschi sarà contrario all’acceso interventismo espresso dai futuristi e seguendo il messaggio di pace di Benedetto XV replicherà:” Mi offrite una guerra che ha per mezzo la morte e per fine la vita, io ve ne domando una che abbia per mezzo la vita e per fine la morte”.

Cambierà in seguito parere, convinto dai compagni che combattere avrebbe significato impedire alla lunga la guerra stessa. Diventa soldato del genio. A differenza di Marinetti dopo la guerra non aderisce alla cultura ufficiale, con Giuseppe De Robertis continua a collaborare con la Voce ma anche con il Corriere della sera e altri giornali e riviste. Alla fine di un libero percorso intellettuale, qualche anno dopo, nel 1932, dopo anni fecondi di pubblicazioni e traduzioni (celebri quelle di Alphonse Daudet per Mondadori) ritorna a forme di espressione piu’ tradizionali pubblicando per suggerimento di Ugo Ojetti Stampe dell’Ottocento, un volume in prosa che gli vale una menzione del Premio Mussolini. Sono lontani i tempi in cui Palazzeschi pubblicava solo …col suo gatto. Ormai è un saggista, poeta, pubblicista affermato. Anticipato a puntate nella Nuova Antologia diretta da Luigi Federzoni, Vallecchi pubblica nel 1934 il suo terzo romanzo Sorelle Materassi– dopo il Codice di Perelà era uscito nel 1926 Piramide -, positivamente recensito da Antonio Baldini sulla rivista Omnibus di Longanesi. Le Sorelle Materassi sceneggiato dalla RAI nel 1972 gli assicurerà una larga celebrità. Iniziata nel 1939 una collaborazione con la rivista di Curzio Malaparte Prospettive dopo la morte di entrambi i genitori nel 1941 decide di trasferirsi a Roma. Alla fine della guerra pubblica il saggio autobiografico Tre imperi..mancati, opera che ha lui stesso sempre ritenuto mancata.

Ma tre anni dopo nel 1948 con il romanzo I fratelli Cuccoli ottiene il Premio Viareggio (ex-aequo con Elsa Morante) e nel 1953 con Roma il Premio Marzotto. Con Vanni Scheiwiller pubblica nel 1955 l’antologia Viaggio sentimentale e nel 1957 gli viene assegnato dall’Accademia dei Lincei il premio Feltrinelli per la letteratura. Laureato in Lettere honoris causa dalla Università di Padova nel 1960, dopo aver pubblicato l’autobiografia “Il piacere della memoria” riceve a Cascais dalle mani dell’ex-sovrano Umberto II, già luogotenente generale del Regno,  l’onorificenza di cavaliere dell’Ordine al merito civile di Savoia. Altri riconoscimenti italiani e francesi seguiranno negli anni ’70. Mentre collaborando col principale editore dei suoi ultimi anni, Arnoldo Mondadori, con le riviste Verri e Galleria sta per celebrare il suo novantesimo anno, se ne va, dopo una vita culturale straordinaria, per un ascesso dentario trascurato, al Fatebenefratelli il 17 agosto 1975. Sulla sua tomba di Settignano sta giustamente riassunto in una sola parola tutto il senso della sua lunga vita. Resta inciso il suo nome d’arte “Aldo Palazzeschi scrittore”. Forse un’ultima prova di rispetto della volontà di quel padre che lo voleva ragioniere ma che avrebbe probabilmente volentieri modificato nel tempo il suo divieto all’uso del nome di famiglia nei primi tentativi teatrali del figlio.

Loris Jacin

“I miei primi tre libri di poesie, trattandosi di componimenti in verso libero non avendo trovato a nessun costo possibilità di pubblicazione presso nessun editore, (gli editori non soltanto opponevano il più deciso rifiuto, ma si ritenevano direttamente offesi per la sfacciataggine di una simile offerta) vennero pubblicati da me e l’editore Cesare Blanc. Non fu che un mio espediente nella decisione di superare qualsiasi ostacolo. E cosi’ mi vedevo destinato con la piu’ grande disinvoltura a continuare, fino a quando nel 1909 ricevetti un caloroso e fraterno invito per parte di Marinetti, che mi aveva scoperto nell’ombra e mi chiamava con entusiasmo a partecipare a collaborare con la mia opera al movimento futurista. E senza conoscerci, senza sapere nulla l’uno dell’altro, tutti quelli che da alcuni anni in Italia praticavano il verso libero, nel 1909 si trovarono raccolti intorno a quella bandiera; per modo che è col tanto deprecato, vilipeso e osteggiato verso libero, che agli albori del secolo si inizia la lirica del 900. E i poeti che contemporaneamente praticano le antiche forme devono essere considerati come gli ultimi dell’800.

“Allegoria di Novembre”, (nuovo titolo scelto per Riflessi ndr)  quello che io chiamo il mio romanzo liberty, …rispecchia fedelmente una giovinezza turbata e quasi disperata. E tale fu fino al giorno che tale disperazione e turbamento come per un miracolo, come per virtu’ di un incantesimo del quale non saprei io stesso spiegare il mistero (approfondita conoscenza della vita, degli altri e di me stesso?) si risolsero in allegria. E pur rimanendo un solitario fedele e geloso della mia solitudine, fui da quel giorno molto allegro, sempre più allegro. Poche persone in questo mondo risero quanto io ho riso, e tale ho saputo conservarmi sino alla vecchiezza…Chiudo questa breve nota aggiungendo che queste mie opere giovanili furono in parte legate al movimento futurista, anche per esservi state, in parte, ospitate editorialmente, pure non avendo quei caratteri che per futurismo comunemente s’intese e che rispecchiavano in modo particolare la personalità di Marinetti. Futurismo volle dire soprattutto, ora lo vediamo chiaramente, spirito di avanguardia, e i pochi che in quello spirito vivevano, sparuti e dispersi, ebbero tutti con esso qualche contatto in un paese che dopo essere stato per secoli all’avanguardia nella vita dello spirito, cedendo poi il passo ad altri, imperdonabilmente rinunciatario, quasi si fosse per lui fermato il tempo, si è addormentato sul passato. Marinetti usava spesso dire di me che io traevo futurismo dal passato più deprecabile. Precisamente, perché la vita è movimento. E concluderò affermando che i cinque anni nei quali feci parte del movimento futurista furono quelli della mia vita nei quali conobbi la giovinezza.”

( da Opere giovanili)

I fiori

Non so perché quella sera,
fossero i troppi profumi del banchetto…
irrequietezza della primavera…
un’indefinita pesantezza
mi gravava sul petto,
un vuoto infinito mi sentivo nel cuore…
ero stanco, avvilito, di malumore.
Non so perché, io non avea mangiato,
e pure sentendomi sazio come un re
digiuno ero come un mendico,
chi sa perché?
Non avevo preso parte
alle allegre risate,
ai parlar consueti
degli amici gai o lieti,
tutto m’era sembrato sconcio,
tutto m’era parso osceno,
non per un senso vano di moralità,
che in me non c’è,
e nessuno s’era curato di me,
chi sa…
O la sconcezza era in me…
o c’era l’ultimo avanzo della purità.
M’era, chi sa perché,
sembrata quella sera
terribilmente pesa
la gamba
che la buona vicina di destra
teneva sulla mia
fino dalla minestra.
E in fondo…
non era che una vecchia usanza,
vecchia quanto il mondo.
La vicina di sinistra,
chi sa perché,
non mi aveva assestato che un colpetto
alla fine del pranzo, al caffè;
e ficcatomi in bocca mezzo confetto
s’era voltata in là,
quasi volendo dire:
“ah!, ci sei anche te”.

Quando tutti si furono alzati,
e si furono sparpagliati
negli angoli, pei vani delle finestre,
sui divani
di qualche romito salottino,
io, non visto, scivolai nel giardino
per prendere un po’ d’aria.
E subito mi parve d’essere liberato,
la freschezza dell’aria
irruppe nel mio petto
risolutamente,
e il mio petto si sentì sollevato
dalla vaga e ignota pena
dopo i molti profumi della cena.
Bella sera luminosa!
Fresca, di primavera.
Pura e serena.
Milioni di stelle
sembravano sorridere amorose
dal firmamento
quasi un’immane cupola d’argento.
Come mi sentivo contento!
Ampie, robuste piante
dall’ombre generose,
sotto voi passeggiare,
sotto la vostra sana protezione
obliare,
ritrovare i nostri pensieri più cari,
sognare casti ideali,
sperare, sperare,
dimenticare tutti i mali del mondo,
degli uomini,
peccati e debolezze, miserie, viltà,
tutte le nefandezze;
tra voi fiori sorridere,
tra i vostri profumi soavi,
angelica carezza di frescura,
esseri puri della natura.
Oh! com’ è bello
sentirsi libero cittadino
solo,
nel cuore di un giardino.
– Zz… Zz…
– Che c’è?
– Zz… Zz…
– Chi è?
M’avvicinai donde veniva il segnale,
all’angolo del viale
una rosa voluminosa
si spampanava sulle spalle
in maniera scandalosa il 
décolleté.
– Non dico mica a te.
Fo cenno a quel gruppo di bocciuoli
che son sulla spalliera,
ma non vale la pena.
Magri affari stasera,
questi bravi figliuoli
non sono in vena.
– Ma tu chi sei? Che fai?
– Bella, sono una rosa,
non m’hai ancora veduta?
Sono una rosa e faccio la prostituta.
– Te?
– Io, sì, che male c’ è?
– Una rosa!
– Una rosa, perché?
All’angolo del viale
aspetto per guadagnarmi il pane,
fo qualcosa di male?
– Oh!
– Che diavolo ti piglia?
Credi che sien migliori,
i fiori,
in seno alla famiglia?
Voltati, dietro a te,
lo vedi quel cespuglio
di quattro personcine,
due grandi e due bambine?
Due rose e due bocciuoli?
Sono il padre, la madre, coi figlioli.
Se la intendono… e bene,
tra fratello e sorella,
il padre se la fa colla figliola,
la madre col figliolo…

Che cara famigliola!
È ancor miglior partito
farsi pagar l’amore
a ore,
che farsi maltrattare
da un porco di marito.
Quell’oca dell’ortensia,
senza nessun costrutto,
si fa sì finir tutto
da quel coglione
del girasole.
Vedi quei due garofani
al canto della strada?
Come sono eleganti!
Campano alle spalle delle loro amanti
che fanno la puttana
come me.
– Oh! Oh!
–  Oh! ciel che casi strani,
due garofani ruffiani.
E lo vedi quel giglio,
lì, al ceppo di quel tiglio?
Che arietta ingenua e casta!
Ah! Ah! Lo vedi? È un pederasta.
– No! No! Non più! Basta.
– Mio caro, e ci posso far qualcosa
io,
se il giglio è pederasta,
se puttana è la rosa?
– Anche voi!
– Che maraviglia!
Lesbica è la vainiglia.
E il narciso, quello specchio di candore,
si masturba quando è in petto alle signore.
– Anche voi!
Candidi, azzurri, rosei,
vellutati, profumati fiori…
– E la violacciocca,
fa certi lavoretti con la bocca…
– Nell’ora sì fugace che v’è data…
– E la modestissima violetta,
beghina d’ogni fiore?
Fa lunghe processioni di devozione
al Signore,
poi… all’ombra dell’erbetta,
vedessi cosa mostra al ciclamino…
povero lilli,
è la più gran vergogna
corrompere un bambino
– misero pasto delle passioni.
Levai la testa al cielo
per trovare un respiro,
mi sembrò dalle stelle pungermi
malefici bisbigli,
e il firmamento mi cadesse addosso
come coltre di spilli.
Prono mi gettai sulla terra
bussando con tutto il corpo affranto:
– Basta! Basta!
Ho paura.
Dio,
abbi pietà dell’ultimo tuo figlio.
Aprimi un nascondiglio
fuori della natura!

(da L’Incendiario)

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