Riceviamo e volentieri pubblichiamo un ricordo di guerra del prof. degli Abbati

Quando fra queste colline della valle Trebbia cessano i rumori degli uomini restano le parole delle cose. Portano il senso dei luoghi, la loro antica memoria. Così, vedo il soldato tedesco che avanza oltre il ponte ( è il 1° agosto 1944) e viene verso casa. Porta l’uniforme verde metallico degli uomini della Wermacht, il classico elmetto calato sugli occhi, ma sembra ballonzolare avanzando su stivali forse troppo grandi. Avanza con il lungo fucile dalla baionetta innestata. Siamo in una frazione del passo della Scoffera, la Fossa, a 20 km. a nord di Genova, lungo la SS45 Genova-Piacenza, località chiamata così perché la vecchia strada napoleonica che portava a Torriglia dopo il passo  scendeva verso il torrente Laccio e proprio lungo la strada si era formato molti secoli prima  il primo nucleo contadino della frazione, al riparo dai forti venti di tramontana  del passo, quello a cui apparteneva sin dal XVII secolo la famiglia di mio nonno paterno, un Fossa, appunto.

Il soldato scende le scale che portano al pianterreno della mia casa, posta in tre piani su tre fasce, la porta è aperta, gli va incontro mia madre sorpresa e terrorizzata. Dice una sola frase: “Raus, qui bruciare”. Mia madre è sconvolta e accenna: “Ma no, no, come facciamo?”.  Il soldato per tutta risposta alza il fucile con la baionetta innestata e indirizza la baionetta verso la mia tempia. Io sono a letto, infreddato con qualche linea di febbre, in una stanza che si apre verso la porta di ingresso e sento sulla tempia la  fredda sensazione  del metallo.  Mia madre è terrorizzata dal suo gesto, urla “No, No !!, la supplico, Sì, Sì, ce ne andiamo, ce ne andiamo!!”, mi prende in braccio, mi veste, mette in una cassetta di alluminio le poche gioie superstiti della famiglia e con il cuore in gola comincia a correre su per le scale.

Correndo mi trascina sulle fasce del Noell-a sopra casa mia e da lì comincia a salire lontano dal paese verso il monte Spina. Ai margini della frazione della Fossa ci raggiunge una altra donna del villaggio. Il nome non lo ricordo, ma ricordo che aveva sposato da poco un milite della X Mas che vedevo qualche volta scendere dalla corrriera la sera con il suo basco caratteristico e la sua divisa kaki marrone chiaro e che dopo la Liberazione si diceva fosse stato fucilato dai partigiani.

Tutti e tre spostandoci a mezza costa riusciamo a raggiungere dopo un lungo cammino il versante del monte che da su Moranego. Da Genova come se fosse la bocca aperta di un serpente si aprano sui due versanti del fiume Bisagno due strade parallele che si inerpicano sulle colline e finiscono per congiungersi solo al passo della Scoffera. Così Moranego, Sella, Davagna guardano di là dal fiume Sottocolle, Bargagli, Traso. Ci fermiamo ansimanti fra le fasce che grosso modo sono a monte  della località dove c’è adesso il ristorante “Il Gallo Cedrone”, oggi noto   per le sue ottime pizze.

Allungato in una fascia stretta fra le due donne, che in qualche modo cercavano di proteggermi, ricordo che avevo davanti una splendida spalla di rose selvatiche che mi celava la vista sulla vallata del Bregallo. Stemmo immobili a lungo, le donne  parlavano poco e a voce bassissima nel timore che qualcuno ci potesse reperire. Ad un certo momento, mi pare dopo molto tempo,  ebbi voglia di fare la pipì e ottenuto il permesso della Mamma che solo mi pregò di farla inginocchiato, per non farmi eventualmente vedere, mi sporsi attraverso il roseto….e mi trovai quasi a tu per tu, qualche fascia più sotto, forse venti metri più in basso,  con un ufficiale della Wermacht che con un suo splendido lungo binocolo, guardando in sù verso la mia direzione, stava organizzando il puntamento di un mortaio che aveva accanto, piazzato sulla strada fra Scoffera e Davagna, manovrato da due soldati.

Mi ritrassi, per non farmi scorgere. Qualche attimo dopo, cominciarono i tiri di mortaio verso l’alto con gli obici che ci sibilavano sulle teste e in successione si sentì subito dopo dall’alto dello Spina,  in direzione  dei tedeschi e quindi verso di noi, una serie di raffiche più fioche di mitraglietta – ormai riconoscevo il rumore degli Sten – che provavano la presenza di partigiani sul monte e spiegavano il puntamento del mortaio. Noi avevamo evidentemente scelto per scappare di casa  il luogo peggiore e adesso eravamo al centro di un fuoco incrociato. Fra i sibili  dei proiettili non trovammo altra via di salvezza che quella di addossarci tutti e tre al bordo superiore della fascia che era la zona a maggior riparo dal tiro delle mitragliette Sten che arrivavano dall’alto. Mia madre e l’altra signora si tenevano abbracciate con me soffocando i singhiozzi della disperazione  e della paura, io speravo solo che quei sibili e quei tonfi potessero finire al più presto perché capivo anche io che eravamo tutti in pericolo di vita.

Dopo un tempo indefinito i colpi cessarano dandoci un po’ di respiro, ma da qualche tempo nell’aria si era diffuso  un odore acre di fumo : la spedizione punitiva partita da Genova con ufficiali tedeschi e attendenza di repubblichini italiani  aveva avuto inizio, le frazioni di Tercesi e della Fossa bruciavano, bruciavano le case e i fienili, gli alberi e i prati e il fumo arrivava sino a noi.

Ad un certo punto si sentì anche nella vallata un fortissimo rumore di vetri infranti. La nostra casa avita, abbellita da mio nonno Carlo, di fronte alla porta principale aveva una parete di vetri colorati, dipinti secondo i motivi floreali tipici dello Stil nouveau degli Anni ’20, scorrevole su rotaie di metallo. Era l’unica parete a vetri della nostra frazione. A quel rumore inconfondibile, mia madre scoppiò in un pianto dirotto urlando ormai immemore dei soldati vicini : “Questa era la nostra casa, la nostra casa !”.

Sull’imbrunire, partite le squadre della Strafexpedition felicemente compiuta, potemmo rientrare nella frazione.

La sera io compivo il mio quarto anno, il primo agosto del 1944, dormendo nel prato accanto a casa  sotto le stelle, sotto un copriletto azzurro a fiori bianchi,  fra mia madre e mio padre, perché la nostra casa ormai non c’era più. Rimanevano in piedi solo i quattro muri perimetrali ancora neri e fumanti. Il cielo che ammiravo però era bellissimo e io mi sentivo al sicuro disteso  fra i miei genitori. I tedeschi e la loro intendenza repubblichina avevano prima  saccheggiato e  bruciato le case, poi gozzovigliato sulla piazza della Scoffera e infine erano ripartiti per Genova, non senza aver fucilato due poveri e oggi totalmente dimenticati dalla storiografia ufficiale, garzoni di fornaio che stavano lavorando nel panificio locale, colpevoli solo di non di aver risposto al richiamo alle armi  nell’esercito di Salò. Li avevano trapassati di pallottole contro il lungo muro  su cui si apre  la porta del ristorante una volta “Pampero” e oggi “Alessandro” dalla raffinata cucina. Per non fare distinzioni di genere  i tedeschi in origine avevano messo al muro anche mia zia Milena, fermata al suo ritorno da Moranego. Ma lei, alta e bionda, ormai tanto disperata da essere divenuta sprezzante di ogni  pericolo, aveva sorpreso con il suo atteggiamento altero  l’ufficiale tedesco che prima di gridare il classico ordine “Feuer!!” l’aveva levata dal muro all’ultimo momento.

Il giorno dopo, in una carretta tirata dal mulo dell’ottimo carrettiere Giose, amatissimo da noi bambini,  scendevamo a Genova lungo la carrozzabile per Davagna, cercando riparo nell’ultimo appartamento genovese ancora in piedi di mio nonno, in Circonvallazione a monte. Era all’ultimo piano, gli inglesi con gli spezzoni che il loro aereo notturno, il famoso Pippo, scaricava liberamente sulla città ormai priva di contraerea, avevano aperto un grande varco nel tetto, ma il palazzo era ancora in piedi, qualche mobile era rimasto e la vita poteva continuare.

La storia continua qualche anno dopo, con la nostra casa di Scoffera rimessa in piedi e ricostruita da mio padre e mio nonno, nel Dopoguerra, sui vecchi muri perimetrali unica parte della casa che si era salvata dall’incendio.

Quei vecchi muri  carichi di storia che, come le colline qui intorno, continuano ancora oggi con me un vecchio dialogo. Soprattutto quando intorno si fa anche  il grande silenzio delle cose, rotto appena  da qualche volo di gazze e passeri e dal tramestio di qualche capriolo o di qualche cinghiale che alla ricerca di vermi arriva nottempo nei prati sotto casa mia, insieme alle ombre dei soldati tedeschi.

Carlo degli Abbati

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