Al momento l’Unione europea, che conta già 27 stati membri (28 prima della Brexit), è confrontata all’esame delle candidature di otto nuovi paesi europei: Turchia, Macedonia, Montenegro, Serbia Albania, Ucraina, Moldavia, Bosnia-Erzegovina. Se tutti aderissero all’UE, come diventerebbe l’Europa? Uno sguardo sugli aspetti istituzionali, demografia, sostenibilità politica, fondi, agricoltura, partendo dalla storia
Nell’ordine, la Turchia che aveva presentato una prima candidatura nel 1987, respinta a Lussemburgo nel 1997 ma riammessa nel 1999, la Macedonia del Nord, ammessa nel 2004 dopo una strenua opposizione della Grecia, il Montenegro candidato dal 2010, la Serbia dal 2012, l’Albania dal 2014. Infine nella convulsa situazione creata in Europa dalla nota “operazione militare speciale russa” Ucraina, Moldavia, Bosnia Erzegovina sono state ammesse nel 2022. Quindi, oggi un allargamento da 27 a 35 stati membri dell’Unione europea è dietro l’angolo, anche se i media europei continuano a restare concentrati sulle operazioni di guerra e di controffensiva in Ucraina. Si tratterebbe del secondo allargamento in dimensione della storia europea dopo quello a dodici concluso fra il 2004 e il 2007 che ha raddoppiato nel giro di pochi anni il numero di nuovi membri (sei) immaginato originariamente al vertice di Lussemburgo del 1997 secondo le proposte della Commissione diretta allora dal lussemburghese Jacques Santer.
Forse a questo punto vale la pena di un accenno storico sulla storia dell’Europa.
Non occorre ritornare sui libri del liceo per ricordare che l’impero carolingio si era costituito sull’idea portante del fascino e della grandezza della Roma imperiale. L’incoronazione di Carlo Magno nella famosa notte di Natale dell’800 in San Pietro suggellava la nascita del Sacro Romano Impero d’Occidente. Questo, replicato sul ricordo imperituro dell’Impero Romano era fondato su di una Advocatio Ecclesiae invece estranea al mondo romano e frutto dell’impronta religiosa cristiana introdotta con l’imperatore Costantino, la cui Basilica Palatina domina il centro di quella che fu la temporanea (293-395 d.C.) ma preziosa sede dell’impero Romano d’Occidente, la vicina Trier (Augusta Treverorum). Unendo al carattere politico il carattere religioso l’Impero si immaginava così privo di confini giuridici, si poneva come realtà universale: nella città di Dio agostiniana gli appartenenti alla Chiesa erano tutti partecipi dell’Impero. Ma l’Impero anche se fondato su leggi universali valide per tutto l’Impero (i famosi Capitolari) nascondeva una sua intrinseca debolezza. Politicamente i tre nuclei componenti (franco, italiano, germanico) erano fra loro distanti e la loro eterogeneità fu sempre alla base di una certa congenita debolezza imperiale cui solo la personalità eccezionale e la potenza dei capi poteva in certi momenti porre rimedio. Ma un secondo fattore congenito contribuiva alla debolezza della costruzione politica immaginata. Ricordiamo che proprio il carattere religioso cristiano e la parte avuta dal Papa nella ricostruzione dell’Impero portavano con sé i germi del conflitto di autorità e di supremazia che dovevano condurre a contrasti drammatici fra la superiorità pretesa di un Papa, Vicario di Cristo, delegava l’autorità all’Imperatore e questi che, considerandosi erede dei Cesari, non riconosceva altra autorità terrena superiore. Conflitto che attraverso il Medioevo doveva spaccare l’Italia nella dicotomia guelfi/ghibellini per poi trovare un eco profondissimo propria nell’opera e nella vita sofferta di Dante. Sino a che sarebbe tramontato in Italia il sogno ghibellino di Federico II di Svevia e con lui l’applicazione per il regno di Sicilia di una Costituzione di Melfi (1231) che avrebbe fatto dell’Italia un’appendice centralizzata dell’Impero, probabilmente portando storicamente il paese fuori dalla situazione speculare oggi presente, con le tendenze reiterate della politica italiana al patchwork regionale. Sino allo spegnersi poi, con la morte a Buonconvento di Arrigo VII di Lussemburgo, le speranze di Dante (nell’”alto Arrigo”) e l’avvento dopo Ludovico il Bavaro e Giovanni di Boemia del sistema italiano delle Leghe a partire dalla Lombardia del XIV secolo. Ora è abbastanza singolare notare delle coincidenze strutturali fra la storia antica dell’Impero Romano d’Occidente e la storia post-bellica di quella che oggi si chiama Unione europea. Ma che in passato è stata anche la Comunità del Carbone e dell’Acciaio, la Comunità Economia europea, la Comunità europea dell’Energia Atomica, la Comunità europea.
Veniamo prima all’elemento del condizionamento esterno. Per il Sacro Romano Impero certamente la figura del Vicario di Cristo, il Papa, autorità da cui dipendeva attraverso la cerimonia stessa dell’incoronazione la figura dell’Imperatore. Solo eccezionalmente, come nel caso di Arrigo VII o di Ludovico il Bavaro, l’incoronazione dell’Imperatore avveniva al di fuori della Santa Sede. Per la più recente comunità europea invece l’ingombrante presenza della potenza egemone, vincitrice assoluta della II Guerra Mondiale, gli Stati Uniti d’America, ha sempre costituito un fattore esogeno condizionante le scelte europee post-belliche. Nonostante le aspirazioni risentite in alcuni ambiti europei (in primis, la Francia del Generale Charles de Gaulle) le aspirazioni europee di collocarsi in una posizione terzaforzista fra i due blocchi post-bellici contrapposti facenti capo agli USA e agli URSS non hanno mai avuto alcun seguito. Nel 1955 a Bandung, nell’isola di Giava, in Indonesia nasceva il movimento dei paesi non allineati, che riuniva quelli che oggi chiamiamo i BRICS, più una moltitudine di diversi paesi, come l’Afghanistan. Invece i sei paesi europei occidentali riuniti nella CECA, ma prima in altre intese di tipo classico (UEO, Consiglio d’Europa, OECE) e progressivamente allargati sino a 28 membri nella UE, non sono mai usciti dallo schieramento occidentale atlantico, marcato militarmente da una NATO a guida statunitense. Condizionati dalla situazione militare di un continente in cui, una volta liberatolo nel 1945, le forze militari americane avevano deciso di stazionare senza limiti di tempo, trovando i paesi europei nell’ombrello nucleare americano al di qua della individuata cortina di ferro un comodo rifugio protettivo dai rischi di un confronto con il sistema speculare che il dirigismo sovietico rappresentava per il mondo occidentale. Da qui la definizione di pacifico “giardino” che sarebbe l’Europa nella rappresentazione del suo “ministro degli esteri”, lo spagnolo Josep Borrell Fontelles. Quindi, come gli Imperatori del Sacro Romano Impero, anche i leader europei hanno sempre dovuto conoscere i limiti chiari delle loro scelte sovrane, talvolta da Oltreoceano accompagnate, qualche volta condivise, talaltra osteggiate, comunque sempre condizionate. Sino alla evidente mancanza di un minimo di distacco rispetto alle scelte militari americane nel problema della seconda guerra europea dopo la Serbia (l’Ucraina) che, di fatto, impedendo un minimo di credibilità internazionale dopo l’assoluta adesione di un’organizzazione multilaterale ad una indefettibile scelta di campo precludono all’Unione europea qualunque ruolo internazionale di pacificazione europea del conflitto. Mettendo sostanzialmente in questo modo il futuro pacifico, ma anche il futuro economico, dell’Unione europea in mano a soggetti esterni come Stati Uniti e Cina, aventi palesi obiettivi geostrategici evidentemente non coincidenti con gli interessi europei. E qui possiamo passare a trattare il primo elemento interno di debolezza attuale della costruzione europea che ricorda l’eterogeneità degli elementi e dei nuclei etnici riuniti sotto l’Impero carolingio. Ora, senza scomodare gli ottimi lavori dell’antropologo francese Emmanuel Todd e la sua configurazione dell’Europa come spazio inventato, secondo quanto del Mediterraneo aveva detto Pierre Willa dopo la magnifica rappresentazione di Fernand Braudel, dell’Unione europea colpisce, almeno a contare dagli inizi di questo secolo, la sempre più evidente eterogeneità dei nuclei componenti. Mentre si era cercato con i criteri di Copenaghen del 1993 di imporre ai Paesi candidati una certa omogeneità delle condizioni di partenza, in termini economici, sociali, di rispetto dell’acquis communautaire, invece, con una decisione che si ha difficoltà ad immaginare endogena, a partire dall’inizio di questo secolo è prevalso un approccio all’adesione che non tiene più conto di questa tradizione procedurale. Da qui l’accesso alla UE di tutti i paesi ex-sovietici di Europa Centrale già membri dell’opposto Patto di Varsavia passati contemporaneamente nell’organizzazione NATO, con almeno due, Bulgaria e Romania, esentati da ogni adempimento ai criteri descritti. Si potrebbe allora immaginare all’origine la scelta innovante di un nuovo criterio di tipo geografico. Quindi, adesione di tutti i paesi geograficamente europei. Ma allora si aprirebbero con il caso della Turchia, che attende in realtà una decisione dal 1987, anche delle possibilità per il Kazakistan che è anch’esso un paese europeo anche se non ufficialmente candidato. Mentre si dichiarano già acquisite le otto adesioni di Ucraina, Moldavia, Albania e dei paesi dei Balcani occidentali vale a dire gli ex -stati della Repubblica federativa socialista di Jugoslavia, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia, Bosnia Erzegovina. Senza necessariamente immaginare l’UE fra una decina d’anni nelle condizioni del Sacro Romano Impero dopo la morte di Giovanni di Boemia alla metà del XIV Secolo, l’UE ulteriormente allargata (nella visione extra-large, chiamiamola così) non conterebbe solo i tre nuclei citati dell’impero germanico, ma ne conterebbe addirittura sei, come del resto quattro sono antropologicamente i sistemi familiari che si dividono lo spazio europeo. Il nucleo occidentale, quello che il politologo italiano Lucio Caracciolo chiama l’EUROQUAD, la “vecchia Europa”, secondo la definizione americana di Donald Rumsfeld, cioè i Paesi fondatori più i due paesi iberici con l’Austria. Poi il blocco scandinavo (Danimarca, Svezia, Finlandia) cui aggiungiamo la Repubblica d’Irlanda per prossimità solo geografica, il gruppo ugro-turco (Turchia, Ungheria), il gruppo balcanico (Grecia, Serbia, Croazia, Slovenia, Montenegro, Bosnia Erzegovina, Macedonia del Nord, Albania), il gruppo insulare strettamente mediterraneo (Malta, Cipro), il gruppo centro-europeo (Polonia, Baltici, Cechia, Slovacchia, Romania, Moldavia, Bulgaria), più l’Ucraina, naturalmente quando la Federazione Russa si rassegnasse ad una posizione geostrategica ormai trascurabile, essendosi convinta di avere definitivamente perso il controllo dell’Ucraina con “l’operazione militare speciale” e di dover quindi dimenticare in senso più ampio i 25 milioni di cittadini russi rimasti al di fuori dei nuovi confini della Federazione dal 1991.
Ora se è evidente che il passaggio deciso agli inizi di questo secolo di accettare praticamente insieme dodici nuovi paesi che si aggiungevano ai sedici già presenti non è stato facilissimo, non si ha difficoltà ad immaginare che il passaggio da 27 (dopo l’addio della Gran Bretagna) a 35 stati membri sia altrettanto problematico. Dando luogo ad una organizzazione profondamente diversa nel funzionamento delle istituzioni. Una Nuova Europa ma non nel seno ironico di Donald Rumsfeld. Un’altra Europa.
Prendiamo prima l’aspetto istituzionale. In particolare il decision making process, il processo decisionale comunitario. Oggi ci sono materie non economiche come difesa, politica estera, con l’appendice evidente della politica delle migrazioni, in cui l’UE non funziona come un organismo federale, ma come una conferenza intergovernativa. Le decisioni del Consiglio si assumono esclusivamente all’unanimità. Con 35 paesi appartenenti a sei diversi blocchi geopolitici, questo significherebbe il bloccaggio delle decisioni. Da ciò discende la proposta di recente espressa dal cancelliere tedesco Scholz di introdurre almeno l’abbandono del principio dell’unanimità nelle decisioni di politica estera. Proposta sinora sostenuta dai sei vecchi paesi fondatori più Spagna, Slovenia e Finlandia. Cioè da nove paesi su ventisette. Poi ci sono le complicazioni geopolitiche. Cominciamo ipotizzando l’adesione della Turchia. Non solo la sua presenza nella UE interiorizzerebbe la contrapposizione greco-turca conseguenza prima delle condizioni immaginate dal binomio dei vincitori, Francia-Gran Bretagna, nel 1920 con lo smembramento del califfato ottomano imposto con il trattato di Sèvres. Condizioni del Trattato che combattendo in casa loro l’invasione greca, i turchi avevano poi potuto modificare nel 1923, ma non per il tema della perdita del controllo di tutte le isole del Mediterraneo, tranne due, assegnate alla Grecia e con il Dodecaneso all’Italia. Situazione che ha sempre da allora avvelenato i rapporti greco-turchi. Ma poi c’è anche l’aspetto demografico. Con una popolazione superiore alla Germania (84 milioni contro 83), ma con prospettive demografiche ben migliori (indice di fecondità di 2 contro 1,5) la Turchia diverrebbe il titolare all’interno del PE del gruppo parlamentare più numeroso, oggi il tedesco, con 96 deputati. Cioè godrebbe di quella condizione di favore numerico nel PE che il presidente francese Jacques Chirac, nel vertice di Nizza del 2000, per non far contare di più la Germania rispetto alla Francia nelle votazioni a maggioranza qualificata del Consiglio, era stato comunque costretto a riconoscere alla Germania riunificata. Quindi il Parlamento europeo vivrebbe nel futuro con una presenza maggioritaria di deputati turchi e non tedeschi. Infine ci sono le ripercussioni dell’allargamento sulle questioni di bilancio, il famoso budget comunitario. Questo riguarda certamente l’adesione dell’Ucraina. Ora sinora si è affermato negli ambienti comunitari che il credito dell’UE era tale da consentire di reperire sui mercati gli ingenti capitali che sono stati impegnati anche dagli Stati membri con il Next Generation UE. Programma che dovrebbe implicare fra sovvenzioni e prestiti il trasferimento di 800 miliardi EURO, citando per la sola Italia 209 Miliardi di EURO, come paese particolarmente colpito dalla pandemia di Covid-19. E sembrava già questa una enorme sfida sulla cui adesione il governo tedesco di Angela Merkel aveva temporeggiato sino all’ultimo. Ma poi è venuta la guerra in Ucraina con il calcolo sbagliato di Vladimir Putin e di nuovo la UE ha impiegato altri 67 miliardi di aiuti umanitari, militari finanziari per Kiev. Non solo ma promettendo anche nel 2023 altri 18 miliardi di nuovi prestiti che la Commissione si impegna a ripagare cercando la garanzia dei 27 stati membri. In più l’Ucraina post-bellica arriverebbe nella UE in gran parte distrutta ed è difficilmente immaginabile che gli Stati Uniti, fra i veri beneficiari economici della guerra, soprattutto per i settori degli armamenti e del shale gas, ersatz (surrogato, ndr) del gas russo, pensino veramente di restituire all’Europa qualcosa. Lo si vede già con i loro protezionistici Inflation Reduction Act e Chips Act che favoriscono esclusivamente le imprese americane. Di fatto il loro impegno diretto all’indebolimento della Russia resta esclusivamente militare. Costo stimato al momento della ricostruzione e della ripresa del paese: oltre 400 miliardi EURO. Non solo. Arrivando nella UE dalla Ucraina ai Balcani gli otto nuovi paesi , tutti gli attuali Stati membri ad eccezione della Bulgaria diventerebbero dei contributori netti al bilancio europeo, cioè pagherebbero più di quanto ricevono dallo stesso bilancio. Inoltre, vista l’immensità delle sue estensioni cerealicole la PAC (la Politica Agricola Comune) finirebbe con le regole attuali di destinare all’ Ucraina la quasi totalità degli aiuti agricoli europei. Ma con quale sostenibilità politica negli altri Stati membri? Se poi si prendono insieme Ucraina ed i paesi dei Balcani occidentali, vale a dire gli stati derivati dal crollo della Repubblica jugoslava, si tratta di paesi che nelle statistiche ufficiali del PNUD, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, sono in condizioni ben differenti, se si eccettua la Bulgaria, dagli attuali stati membri. Gli attuali 27 stati membri sono tutti inseriti nei parametri socio-economici esaminati dal PNUD per 191 paesi fra il 6° posto della Danimarca e il 48° posto dell’Ungheria. Se si eccettua invece il ricco Kazakhistan (56° posto) e il piccolo Montenegro (49° posto), i paesi di futura adesione sono tutti invece in una situazione molto più precaria, addirittura con Ucraina, Macedonia del Nord e Moldavia a chiudere la fila rispettivamente al 77°,78°e 80° posto rispettivamente. Cioè si tratterrà di un arrivo massiccio di paesi molto più deboli economicamente, oltre che in alcuni casi anche popolosi, che proprio per la loro condizione imporranno tutta una redistribuzione di fondi strutturali, agricoli, di coesione che oggi favoriscono gli attuali cittadini della UE.
Se si immagina che la prossima legislatura europea fra il 2024 e il 2029 sarà in gran parte assorbita dal tema dell’allargamento, si possono immaginare quali saranno i problemi che dovrà affrontare nel primo semestre 2024 la presidenza belga del Consiglio. Sperando che anche il governo belga non dovrà arrivare alle conclusioni di certi sindaci eletti nel ponente ligure da lobby abituate atavicamente alla regola “un voto, un favore” che hanno finito per dimettersi il giorno dopo la elezione constatando la incompatibilità del budget comunale con le promesse elettorali. Ma sperando anche che soprattutto l’Unione europea non si ritrovi nelle condizioni dell’Impero dopo la sfortunata avventura italiana del figlio di Arrigo VII, Giovanni di Boemia. Anche perché è problematico incontrare fra i leader europei del momento qualcuno che abbia la tempra ma anche la chiaroveggenza politica di un Marsilio da Padova. E nessuno sembra essere in grado neppure di concepire nel senso della sovranità europea un manuale come quel “Defensor Pacis” che ci lascia invece in eredità il grande padovano. Comunque sin d’ora vada, ai membri della delegazione belga che assumerà la presidenza semestrale del Consiglio dal 1° gennaio 2024, per concluderla il 30 giugno a pochi giorni di distanza dalle elezioni europee, tutto il nostro auspicio di riuscita nel loro difficilissimo compito.
Carlo degli Abbati
*Carlo degli Abbati insegna Diritto dell’Unione Europea al Dip. di Lingue e Culture Moderne dell’Università degli Studi di Genova. Già docente di Economia dello Sviluppo presso lo stesso Ateneo e di Storia dei Paesi musulmani presso il Dip. di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento, è stato funzionario responsabile del controllo della cooperazione europea allo sviluppo presso la Corte dei Conti Europea a Lussemburgo.