Furono 600 000 gli I.M.I. (Italienische Militär-Internierten), internati militari italiani che dopo l’8 settembre 1943 vennero deportati nei lager e trattati come traditori. Le loro storie ce le racconta Giacomo Vallozza in NO!, storia di un rifiuto. L’odissea degli internati militari italiani, di cui è autore e interprete, con la regia di Giancarlo Gentilucci. Lo spettacolo teatrale, organizzato da Anpi Lussemburgo, in collaborazione con Altrimenti e Circolo “E. Curiel“, in occasione del 25 aprile, verrà messo in scena il 29 aprile, ore 20.30 presso Altrimenti, con il patrocinio dell’Ambasciata d’Italia in Lussemburgo
Cosa ti ha spinto a indagare su un argomento così lontano e dimenticato della storia del nostro Paese?
In occasione della presentazione di un libro sugli IMI (organizzata dal Circolo Curiel e dall’Università di Lussemburgo, ndr) mi documentai a fondo. Dieci anni fa ricevetti da un parente il diario di prigionia di mio padre Tommaso. Era sottotenente e fu catturato a Lubiana dall’esercito tedesco, deportato e poi internato in 5 differenti campi. All’epoca non sapevo nulla degli IMI, come furono chiamati i soldati italiani catturati sui vari fronti dopo l’8 settembre ’43, che rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò e di continuare la guerra a fianco dei nazifascisti. Fu quello il primo atto di resistenza, una resistenza senz’armi come venne chiamata, ovvero la volontà, a volte consapevole altre meno, di riaffermare la propria dignità di uomini, di esseri pensanti, capacità che il fascismo aveva loro tolto.
Lo spettacolo, che si dipana attraverso un dialogo immaginario con tuo padre, ripercorre il ventennio fascista fino all’armistizio. Quanto lavoro di ricerca c’è dietro la preparazione del testo?
Tutto è venuto alla luce lentamente, quando si è avviata la ricerca su chi fosse mio padre. Ho dovuto “cominciare dal principio”, dagli Anni ’20, quando è nato il fascismo. Da questa ricerca è venuto fuori tutto quello che poi si ritrova nello spettacolo: la successione dei fatti storici, l’invasione della Libia e dell’Abissinia, l’entrata in guerra, le dissennate invasioni dei Balcani e della Grecia, le varie riforme sociali. Ma soprattutto le nefandezze di cui il fascismo si è macchiato, inclusa la strategia dell’internamento di cui è stato il primo ideatore. L’altro faro che ha illuminato la mia ricerca è stato Giovannino Guareschi. Al suo Diario clandestino si ispira l’ultima parte del-lo spettacolo, e la sua ironia ha influenzato la scrittura di tutta l’opera.
Qual è l’insegnamento più importante che hai tratto dalle storie di questi “eroi” a lungo dimenticati?
Per me quello degli IMI è un grande insegnamento. Mi ha molto colpito il discorso che il colonnello Pietro Testa (comandante del lager degli italiani a Wietzendorf, un paesino vicino Amburgo) ha tenuto agli ufficiali del campo, circa tremila uomini, che si apprestavano ad attraversare un altro inverno, con temperature sovente di parecchi gradi sotto lo zero, con vestiario inadeguato e vitto inconsistente: “Lasciarsi andare non può procurarci nulla di buono. Non dobbiamo crearci illusioni, ma vivere nella realtà per brutta che sia. Dobbiamo restare con i piedi per terra: su questa terra che vedete, con il suo fango, con le sue buche, con le sue pietre; se vogliamo un fiorellino in questa desolazione dobbiamo piantarcelo con le nostre mani e coltivarlo con il nostro amore”.
Se questa forza la dovevano trovare quegli uomini ch’erano al limite della sopravvivenza, lontani dall’affetto dei loro cari, in una situazione di degrado fisico e morale, perché non dovremmo trovarla noi nel cercare di costruire un mondo migliore, noi che viviamo nell’agiatezza, che abbiamo acqua, luce, gas e qualsiasi comfort a disposizione, e che vediamo comunque tanta disperazione e tanto malessere nel mondo?
Dopo questi 2 anni di pandemia che hanno colpito duramente il mondo dello spettacolo e del teatro in particolare, come è cambiato il tuo modo di approcciarti al teatro e cosa hai in programma nei prossimi mesi?
R. Due eventi per me epocali hanno cambiato le nostre vite: la pandemia e la guerra ai confini dell’Europa. La pandemia ha dato uno strattone considerevole al mio rapporto col tempo. E non so ancora oggi quanto di bene e male c’è in ciò che ha causato. Dapprima il tempo si è dilatato, e quindi, almeno per me, si è verificato un ritorno a quelle attività che prima erano fatte rubacchiando qua e là, ovvero la cura della casa, del giardino, la lettura. Poi, quando c’è stato il secondo lock-down tutto questo è stato fatto diversamente, quasi con rassegnazione. La lettura è scomparsa affidandosi ad una meno impegnativa visione di serie TV. Il rapporto con la terra è diventato più forsennato. Il teatro si è presentato in una forma che a primo acchito ho odiato, ovvero lo streaming. Per un attore di teatro lo streaming è una pugnalata al cuore ma era l’unico lavoro che veniva offerto. Anzi, spesso veniva chiesto senza compenso come se non fosse più un lavoro ma un servizio civile. L’ho odiato, tutto il tempo. Finalmente siamo tornati in teatro e quindi la carne si rivestiva di senso. In teatro, il corpo, sonoro o visivo, è il fondamento. L’energia lo spettatore deve sentirla sulla pelle, non può intellettualizzarla come al cinema. Siamo quindi tornati in presenza e ad una specie di normalità anche se ancora resiste una sensazione di inadeguatezza come se il prima non possa essere più come prima. Vedremo se è solo questione di tempo.
E poi la guerra. Quello che accade per me è difficile da comprendere. Pensare nel 2022 che la Russia possa fermare le lancette della storia e riportarle ai tempi della guerra fredda o, peggio, delle invasioni naziste, mi provoca un’enorme angoscia. Con tutte le ragione che può o non può avere. Sento in TV nomi di città protagoniste a suo tempo della prigionia di mio padre come Przemysl, o Leopoli, dove è stato prigioniero Umberto, tuo padre. Le scene che ho immaginato nei diari, della fame che ti costringe a rovistare nella spazzatura o mangiare roba avariata, del freddo, temperature che arrivano anche a decine di gradi sotto zero e devi restare la notte fuori per fuggire dai bombardamenti, in colonna per arrivare in territorio amico o l’attraversamento di fiumi gelati, mi riporta alle testimonianze degli internati, alle loro sofferenze. E ancora si riaffaccia l’urgenza di una verità politica: la democrazia non è eterna, è un bene da apprezzare, curare, manutenere, verificare, difendere giorno dopo giorno, in ogni luogo, in ogni contesto. E nonostante questa non sia l’unica guerra, forse è solo quella dove i riflettori sono più accesi che su altre e probabilmente anche per interessi di parte, eppure ogni volta è lampante la stupidita, l’insensatezza, la follia della guerra e la sconfitta che essa rappresenta per l’umanità. Spero vivamente che si faccia ogni sforzo possibile per accelerare il processo diplomatico, che l’Italia sia più incisiva e ripensi alla sua decisione di fornire armi (quanta ambiguità nella dicitura non letali). Infine spero che l’Europa diventi veramente protagonista e sappia superare le differenze che vi sono al suo interno per trovare una politica estera e di difesa comune. A volte gli eventi catastrofici come guerre o calamità naturali, accelerano questi processi e io spero che sia così anche in questo caso.
Intervista a cura di Daniele Domenicucci
Info: ANPI.LU
Prezzo d’ingresso: 25 euro (20 per soci Anpi, studenti e chiunque lo acquisti in prevendita)
Compra il biglietto QUI