Incontriamo, a 26 anni di distanza dai tragici attentati a Falcone e Borsellino, il figlio del generale ucciso dalla mafia nel 1982. Che ci dice: «Le commemorazioni si fanno spesso, di memoria purtroppo se ne fa meno»
Tra Capaci e via d’Amelio ci sono appena 57 giorni. Tra quelle due terribili stragi e i giorni nostri ci sono invece ventisei anni di interrogativi, indagini, sentenze, rabbia e dolore. Per chi ha vissuto quei momenti, da semplice cittadino o da persona impegnata attivamente nella lotta alle mafie, le immagini nella memoria sono incancellabili. Nando Dalla Chiesa, sociologo, scrittore, ex deputato e storico esponente dell’antimafia, ricorda benissimo le ore successive all’attentato di Capaci, che inaugurò la terribile stagione stragista del 1992-93, uccidendo il giudice Falcone, la moglie e tre agenti della scorta: «Ricordo l’orrore, il dolore e anche la speranza, durata qualche ora, che le vittime si salvassero. Ero stato da poco eletto deputato ed ebbi la sensazione che quella strage fosse stata compiuta anche per intervenire sulle elezioni presidenziali, cosa che, poi, alcuni collaboratori confermarono».
A precedere le commemorazioni, quest’anno è stata la sentenza di primo grado sulla trattativa Stato-mafia. Ci stiamo avvicinando finalmente a una verità più completa?
È una sentenza di primo grado, questo va sempre ricordato, però ci ha detto che i pubblici ministeri che si sono occupati di questo processo non erano evidentemente un manipolo isolato di ossessionati, dato che in primo grado hanno trovato dei magistrati che hanno riconosciuto le loro ragioni. Questo non è affatto secondario, perché vuol dire che, al di là di come finirà il processo, questa inchiesta ha dei fondamenti di verità.
Qual è la Sua opinione in merito alla trattativa?
Sono sempre stato convinto che la trattativa ci sia stata. L’ho potuto verificare nel 1996, quando sono stato rieletto in Parlamento e ho visto che le cose che Cosa Nostra aveva richiesto, prima o poi diventavano provvedimenti o comunque entravano nel dibattito parlamentare.
Davanti a una sentenza così importante ci si aspettava un dibattito acceso e invece…
Il mondo politico, ma anche i giornali, è come se non avessero saputo di questa sentenza. Per tanto tempo si è detto, da più parti, di aspettare la sentenza, poi, una volta arrivata, non è piaciuta e allora è stata accantonata.
In questa fase storica, la politica non sembra mettere al centro il tema della lotta alle mafie. Secondo Lei perché?
Perché non piace parlare di mafia o perché non se n’è capaci. Non lo si reputa un problema fondamentale del Paese. La mafia viene usata semplicemente per scaricare l’aggettivo mafioso addosso a qualcuno che non piace, ma non è davvero una ragione di impegno, lotta civile, ricostruzione della vita pubblica. La nostra è una nazione che sembra quasi rassegnata all’idea di tenersi la mafia in grembo.
Che valore assume la memoria?
Bisogna separare concettualmente memoria da commemorazioni. Le commemorazioni si fanno spesso, di memoria purtroppo se ne fa meno, anche perché già nelle commemorazioni essa tende a svanire. Ci sono uomini, come gli stessi Falcone e Borsellino, che vengono ricordati come se fossero stati degli eroi permanentemente appoggiati dallo Stato buono contro la mafia cattiva. E sappiamo che non fu così. Abbiamo un problema di onestà della memoria.
Sono ancora attive e in salute le convergenze di cui parlava in un Suo celebre libro?
Le convergenze ci sono, è evidente. Se io non mi occupo di mafie, non parlo di loro, penso che non esistano, faccio un favore a loro. Il disinteresse, l’indifferenza le favoriscono e si manifestano nei ritardi sui beni confiscati, nell’incuria con cui si fanno le leggi, nell’economia. La cosa che un’organizzazione mafiosa può chiedere a un Paese è di non parlare e non occuparsi di loro. Di più cosa deve chiedere?
Massimiliano Perna