Un martedì grasso (ieri 28 febbraio, ndr) alternativo alla Philharmonie con la Cenerentola di Gioachino Rossini. Ecco le nostre impressioni.
Il dramma giocoso di Gioachino Rossini, che ebbe la sua prima nel gennaio del 1817 al Teatro Valle di Roma, non presenta la solita Cenerentola. È pur vero che il librettista Jacopo Ferretti si ispira al Cendrillon di Charles Perrault, ma ne elimina tutti gli elementi magici o sovrannaturali. Così non vi sono fatine, carrozze che si trasformano o incantesimi di alcun genere e… (ahimè!) alcuna scarpetta. Il mezzo che, infatti, permetterà al principe di identificare al sua amata è un bracciale che Cenerentola possiede doppio. E se manca la matrigna? Allora si ricorre ad un padre snaturato, un nobile decaduto e senza soldi che cerca solo di approfittare degli altri ed è dedito all’alcool.
Una Cenerentola Cecilia Bartoli umana, molto umana, che proprio per la sua normalità – o meglio – per la sua semplicità – […] scusate… perdonate Alla mia semplicità– … arriva non solo a prendere possesso del cuore di Ramiro (Edgardo Rocha), ma anche del pubblico.
La messa in scena di Claudia Blersch permette allo spettacolo di mantenere quella continua giocosità, l’ironia e la sottile critica alle convenzioni. Non servono grandi scenografie o chissà quali effetti speciali: il tutto verte su piccoli particolari come costumi stravaganti o accessori scenici atemporali. L’orchestra diretta dal Maestro Gianluca Capuano è di recente formazione (2016) e si trova direttamente in scena, così come il coro. Non restano meri esecutori musicali, ma diventano parte integrante dello spettacolo. Il tutto avviene con una semplicità che rende l’opera naturale, quasi non fosse possibile aspettarsela diversamente.
Spettacolari, senza ombra di dubbio, i costumi: le sorellastre Clorinda (Sen Guo) e Tisbe (Irène Friedl) appaiono prima in tenuta da camera, con bigodini o asciugamani in testa e poi, quando si fanno belle, degne della parata di carnevale di Magonza o Colonia, con costumi che richiamano alla mente un’ananas-pappagallo o una sirenetta in decadenza.
Anche Cenerentola, quando va al ballo, ha un vestito con piccole schegge riflettenti che creano meravigliosi effetti di luce. I costumi degli uomini, a dire il vero, sono abbastanza sobri: Dandini (Nicola Alaimo), travestito da Principe, esibisce una vistosa fascia e un bastone con pomello argentato, mentre Ramiro e Don Magnifico (Carlos Chausson) indossano costumi rigorosamente in tema. Unica velleità giocosa l’applicazione di ali d’oro ad Alidoro (Ugo Guagliardo) quando «appare» a Cenerentola.
Quello che colpisce di questa serata d’opera con Cecilia Bartoli è che in scena non si incontra una diva, ma una donna che ama il proprio ruolo e lo interpreta, con eccellenza, fino all’ultimo nervo. Ogni espressione facciale è travolgente e autentica: veritiera. Tappandosi le orecchie si riuscirebbe, solo guardando la mimica del volto a non perdere nemmeno una virgola dello spettacolo.
Tapparsi le orecchie, tuttavia, sarebbe un vero peccato, viste le qualità vocali di ogni singolo interprete: vibrati, canoni e vocalizzi ai limiti delle corde vocali che tengono testa e superano in potenza l’orchestra, fanno venire la pelle d’oca e voglia di più. Capita più di una volta, infatti, che il pubblico non riesca a trattenersi e scoppi in un fragoroso applauso. L’applauso finale è interminabile culmina in una standing ovation. Si vorrebbe, quasi, portare a casa, uno dei protagonisti e continuare a vivere nella favola musicale.
Elisa Cutullè