Molte cose stanno cambiando nel quadro della “guerra mondiale a pezzi” di cui parlava molto lucidamente Papa Francesco. E i cambiamenti geopolitici riguardano anche la Russia
Storicamente, quando nella prima metà del XIII secolo i mongoli attaccarono da est la Rus’ di Kiev con Ὅgὂdei, successore di Gengis Khan, morto nel 1227, contemporaneamente la regione subiva un ulteriore attacco questa volta da ovest, condotto dai cavalieri portaspada di Livonia e poi dai cavalieri teutonici e svedesi. In realtà nel 1232 il Papa Gregorio IX, cioè Ugolino di Anagni, il creatore dei Tribunali della Santa Inquisizione, aveva proclamato una crociata contro i popoli baltici ancora pagani, che coinvolse anche i russi ortodossi con Jaroslav principe di Novgorod. Questi riuscì a respingerli nel 1234. Fu il giovane principe di Novgorod Aleksandr (1221-1263) a battere nel 1240 sul fiume Neva i cavalieri svedesi, protagonisti di una seconda crociata proclamata da Gregorio IX poco prima della morte e, nel 1242, i cavalieri teutonici nella Battaglia del Lago Ghacciato. Sarà Sergej Prokof’ev a fornire la musica per la colonna sonora del film Aleksadr Nevskij che nel 1938 immortalerà la battaglia. Divenuto a sua volta principe nel 1249, Aleksandr Nevskij continuò a combattere i nemici occidentali, ma accettò di sottomettersi ai mongoli dell’Orda d’Oro. Si riparla oggi di questo lontano episodio nel constatare il ravvicinamento della Russia alla soverchiante Cina, secondo un rapporto diseguale che ricorda quello istaurato da Aleksandr Nevskij che preferì sottomettersi ai mongoli dell’Orda d’Oro, per poter affrontare con maggior successo i cavalieri teutonici. Ancora una volta, come nel Medio Evo, l’Oriente sarebbe considerato meno minaccioso per la Russia dell’Occidente.
Ora, se non si può dimenticare l’occidentalismo, l’eurocentrismo, il riferimento all’Europa dalla fine del XVII secolo come una costante della Russia sin da Pietro il Grande, del resto perdurante nei riferimenti culturali della Federazione Russa ancora oggi, è indubbio che il riferimento attuale alla Grande Eurasia è legato al rifiuto dell’universalismo egemonico dell’Occidente e si colloca nel quadro dell’allontanamento dalla imitazione del modello europeo del XIX secolo.
Eppure, dopo il crollo dell’URSS, non erano mancate le premesse della creazione di un nuovo ordine di sicurezza in Europa, anche se la promessa del segretario di stato James Baker fatta a Gorbaciov nel febbraio 1990 di sopprimere la NATO dopo la scomparsa del Patto di Varsavia non era stata mantenuta e la NATO, organizzazione militare creata contro l’URSS, era sopravvissuta, formalmente per fare fronte “ad altri pericoli”. La collaborazione fra Unione Europea, Stati Uniti e Russia non era comunque mancata. La UE aveva previsto il grande programma TACIS per aiutare il sistema russo ad uscire dalla economia dirigistica, riconoscendo alla Federazione Russa nel 2002 lo status di “economia di mercato”, mentre nello stesso anno a Pratica di Mare si era creato il Consiglio NATO-Russia. Senza dimenticare che il presidente da poco eletto, Vladimir Putin, aveva offerto dopo l’11 settembre 2001 il proprio supporto agli Stati Uniti nella lotta contro terrorismo. Malgrado quindi l’ostilità mai celata di paesi interni ed esterni alla UE come la Gran Bretagna, la Polonia e i tre paesi Baltici, non si poteva allora escludere che la visione dell’Europa voluta da Charles de Gaulle “dall’Atlantico agli Urali” potesse trasformarsi in una effettiva realtà, come del resto accennato ancora nel 2005 da Putin in un suo celebre discorso. Solo l’affermazione ideologica dei neo-conservatori americani intorno alla presidenza di Georges W. Bush all’inizio del terzo millennio, da Dick Cheney a Donald Rumsfeld, da Richard Perle a Paul Wolfowitz, da Stephen Schwartz a Laurent Murawiec, imbevuti dell’idea imperiale di un nuovo mondo unipolare dopo il crollo dell’URSS, in cui gli Stati Uniti si ergevano come il solo paese intitolato a creare “una nuova realtà”, aveva condotto ad una serie di iniziative assunte spesso al di fuori da ogni quadro legale internazionale che avevano sollevato la progressiva sfiducia della Russia nei confronti dell’Occidente. Basti ricordare le iniziative americane dalla Bosnia alla Serbia, dall’Afghanistan all’ Iraq, dalla Libia alla Siria. Se il sistema sovietico si era disfatto e la seconda potenza mondiale si trovava costretta nel 1991 ad un ruolo quasi insignificante, il ruolo storico svolto sino ad allora, la vittoria nella II Guerra mondiale contro il nazismo, con i suoi ventisei milioni di morti russi nella “grande guerra patriottica”, esigeva che il mondo occidentale riservasse alla Federazione Russa nata sulle rovine dell’URSS, se non una comprensione per la sua dolorosa fase storica, perlomeno un doveroso rispetto. Si assisteva invece da parte della nuova élite americana ad una serie di operazioni che andavano tutte nel senso di una destabilizzazione dello scenario internazionale e toccavano direttamente gli interessi geopolitici russi. Del resto, la visione dei neo-conservatori americani, perfettamente riassunta ne “La Grande Scacchiera” (“the Grand Chessboard”) del loro capofila Zbigniew Brzezinski, disponibile sin dal 1997, si basava su tre obiettivi, di cui due riguardavano il controllo della Ucraina e il confinamento della Federazione ai confini della vecchia URSS, il terzo essendo la preparazione degli USA allo scontro finale con la Cina.
Nel 1995 c’erano stati i bombardamenti americani sulla Bosnia Erzegovina e l’intervento militare nella pianura della Krajina in appoggio alla minoranza croata. Nel 1999 il bombardamento a tappeto NATO della Serbia, ultimo alleato della Federazione nei Balcani, con la complicità totale del governo italiano, quindi l’invasione dell’Afghanistan nel 2001 e dell’Iraq nel 2003, il sostegno alle rivoluzioni colorate in Georgia e Ucraina nel 2003-4, il grande ampliamento NATO verso Est del 2004 (sette paesi ex-sovietici in blocco, più i tre già ammessi nel 1999, Polonia, Ungheria, Cechia) accompagnato dalla contemporanea -con l’avvicinamento del fronte NATO ai confini russi- rinuncia unilaterale americana dei trattati missilistici bilaterali già firmati con la Russia (ABM, INF). Poi la scelta capitale, nonostante il warning di Putin a Monaco nel 2007, di ammettere nella NATO Georgia e Ucraina nel meeting NATO di Bucarest del 2008. Infine, gli interventi in Libia e in Siria del 2011 che vedevano l’intervento degli alleati NATO contro dei leader vicini alla Federazione, con esiti fra l’altro tuttora drammatici per la stabilità e del Nord-Africa e del Medio Oriente e indirettamente incidenti anche la politica interna dell’Unione Europea a causa dei forti flussi di immigrazione.
Più vicino a noi, proprio la pressione congiunta degli Stati Uniti e della UE con il suo Partenariato orientale volti a far entrare l’Ucraina nell’orbita occidentale, facendone ad un tempo un membro della UE e della NATO, toccavano nel vivo gli interessi della Federazione Russa per molteplici ragioni. Per ragioni storiche, essendo la Piccola Russia (Malorossija) parte integrante dell’immaginario slavo, per ragioni strategiche perché la Russia avrebbe perso uno stato cuscinetto che permetteva di meglio organizzare le difese di una grande pianura sarmatica priva di difese naturali in caso di invasione da ovest, per ragioni economiche, essendo l’Ucraina stata individuata come una componente essenziale del progetto eurasiatico , lo Evrazijskij Sojuz o Unione Eurasiatica, immaginato da Putin sin dall’ottobre 2011 e messo in forse da una leadership ucraina dichiaratamente filo-occidentale.
Si creavano progressivamente le condizioni per una rottura definitiva con il fronte occidentale anche per la questione della tutela della minoranza russa o russofona della parte sud-occidentale dell’Ucraina (sette milioni sui 42 del 2021 dopo l’apice demografico di 51 milioni di dieci anni prima), cui le decisioni del governo centrale di Kiev di “ucrainizzare” il paese abolendo l’uso della lingua russa dopo i fatti del 2014 (rivolta di EuroMaidan contro il presidente filo-russo Janukovyč regolarmente eletto, ma costretto dalla piazza all’esilio) levavano ogni possibilità di permanenza. Decisione di “ucrainizzazione” concernente anche la minoranza ungherese in Transcarpazia, da cui l’ostilità del leader Victor Orban sempre espressa contro il presidente Zelenski. Tramontata poi anche la possibilità, per il rifiuto occidentale, a cavallo dell’inverno 2021/22, di vedere rispettata la seconda versione degli accordi di pace immaginati nel 2014 nella versione Minsk-II con l’inserimento nelle trattative del “Protocollo Normandia”, cioè di Francia e Germania.
Il testo dell’accordo avrebbe evitato la guerra e lo stupido, ma anche criminale sacrificio di un milione di vite umane, permettendo la creazione di vaste zone di autonomia del tipo Trentino-Alto Adige per le minoranze russe, e non solo, presenti in un paese che deve il suo nome proprio per essere una “frontiera” fra etnie diverse dalle molteplici appartenenze politiche nel corso della storia (Austro-Ungheria, Regno lituano polacco, Impero Ottomano, Russia zarista). Rifiutata la proposta di cui era corollario la esclusione dell’Ucraina dalla NATO, con la replica NATO della “porta aperta” per Kiev, si aprivano le condizioni della “operazione militare speciale” con l’Invasione dell’Ucraina del 24 febbraio 2022. Né, un mese dopo l’inizio delle ostilità, aveva miglior fortuna un tentativo di ripresa dei contenuti dell’accordo di Minsk-II con trattative condotte a Gomel in Bielorussia e poi ad Istanbul sotto egida turca, per l’incitamento fatto a Zelenski dai leader occidentali fra cui si è distinto da Boris Johnson, di continuare la guerra per mezzo di opportuni finanziamenti in armi. Nella fase in cui la certezza occidentale era quella del futuro crollo della Russia sotto il peso delle sanzioni e di una sua futura spartizione, che del resto formava anche oggetto di un convegno organizzato a Praga nel 2023 e costituiva il vero obbiettivo di questa guerra per procura. Ora, “l’operazione militare speciale” ha certamente avuto per Mosca una serie di conseguenze negative che Aldo Ferrari ha perfettamente citato nel suo recente lavoro sulla Russia – Russia, Storia di un impero euroasiatico: 2024- . Possiamo qui elencarle.
La profondissima rottura politica ed economica con l’Occidente. L’aumento della diseguale dipendenza dalla Cina. L’ingresso e l’avvicinamento alla NATO di paesi sinora neutrali come Svezia e Finlandia. La perdita di buona parte del peso politico in Asia centrale in cui alcuni governi come il Kazakistan non hanno sostenuto l’azione russa. L’indebolimento russo anche nel Caucaso a causa dell’inazione verso l’alleato armeno nel 2022 dopo l’iniziativa azera sostenuta dalla Turchia sull’enclave del Nagorno-Karabakh. Di fronte al peso delle sanzioni americane ed europee che miravano ad un rapido regime cancel in Russia per il crollo dovuto alle sanzioni occidentali– sperato, ma poi mai avvenuto della economia russa – il riorientamento verso l’Asia della Federazione russa era resa inevitabile, con la chiusura dei mercati occidentali. Rifiutati dagli europei per ragioni “morali” – ma con gravissime conseguenze economiche che ancora oggi segnano la globale recessione economica europea degli ultimi anni con chiusura fra l’altro a raffica di stabilimenti nell’unico vero settore vincente dell’industria europea, il manifatturiero e l’automobile, messo anche in grave crisi dalle mandate policies ecologiche inventate da Bruxelles. Di fatto, il gas e il petrolio russi, dopo l’invasione dell’Ucraina, queste fondamentali commodities si sono indirizzate verso i paesi asiatici, dalla Cina all’India all’Indonesia, che non sono solo grandi paesi energivori, ma anche i principali concorrenti dell’industria europea. Dopo il gasdotto La Forza della Siberia I inaugurato nel 2019, nel settembre 2022 è stata annunciata la costruzione del gasdotto La Forza della Siberia II che rifornirà la Cina attraverso la Mongolia. Contemporaneamente, Mosca ha rinforzato la presenza, oltre che nel OTSC (Trattato della Sicurezza Collettiva) già esistente, anche nella SCO (Shanghai Cooperation Organisation) riunente dieci membri (India, Iran, Cina, Pakistan, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan, Bielorussia, Russia) e nei BRICS, rappresentanti di quel SUD globale che si sta progressivamente allargando ad una trentina di paesi intorno ai paesi fondatori indicati nell’acronimo (Brasile, Russia, India, Cina, Sud-Africa) che intendono distinguersi per il loro “anticolonialismo” contro il cosiddetto “Occidente collettivo”.
In definitiva, come osserva ancora Ferrari, il sempre più profondo contrasto con l’Occidente sembra dopo l’Ucraina spingere la Russia a “mettere in discussione i tre secoli e oltre durante i quali l’ha considerato come un imprescindibile punto di riferimento”. Scelta in cui comunque, questo lo aggiungiamo noi, la sicura perdente si sta delineando essere in ogni caso l’Unione europea. Con Ursula von der Leyen, per la sua subordinazione totale alle scelte NATO a guida statunitense, nella scomoda parte dell’emiro afghano Abdur Rahman schiacciato a fine Ottocento fra i due imperi, l’Orso Russo e il Leone Britannico, per ventuno lunghissimi anni. Non scriveva invece Altiero Spinelli che: “quando, superando l’orizzonte del vecchio continente, si abbracci in una visione di insieme tutti i popoli che costituiscono l’umanità, bisogna pur riconoscere che la federazione europea è l’unica garanzia concepibile che i rapporti con i popoli asiatici e americani possano svolgersi su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo”? Insegnamento che a Bruxelles evidentemente hanno dimenticato in molti in nome di un bellicismo anti-russo che può solo condurre verso la rovina economica secondo scelte che ingenuamente non distinguono fra morale e politica. Mentre i cittadini europei vogliono un reddito di cittadinanza e non nuove armi, come ha provato il successo dell’Afd in Germania alle recenti elezioni che ha poggiato la sua campagna proprio sulla politica migratoria e sul reddito di cittadinanza.
Carlo degli Abbati
Professore associato di Politica economica e finanziaria, insegna Diritto dell’Unione europea e Organizzazioni internazionali al Dip. di Lingue e Culture Moderne dell’Università degli Studi di Genova. Già docente di Economia dello Sviluppo presso lo stesso Ateneo e di Storia dei Paesi musulmani al Dip. di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento ha insegnato Storia dell’integrazione europea alla Facoltà di Lingue dell’Université de Lorraine Metz.
Le immagini presenti in questo articolo sono state scaricate da internet e quindi valutate di pubblico dominio.
Se i soggetti o gli autori avessero qualcosa in contrario alla pubblicazione non avranno che da segnalarlo contattandoci e si provvederà alla rimozione.