Difendiamo le parole (26) Poteva esserci qualcosa di comune fra Alessandro Parronchi, nato da una famiglia dell’alta borghesia con padre e nonno notai, e Vasco (Valerio) Pratolini che nasce da un commesso di negozio ed una sarta nel quartiere popolare di Via de’ Magazzini che descriverà come “una delle strade medievali di Firenze che al centro della città formano come un’isola di silenzio”? Non c’era niente di comune fra loro tranne di essere coevi (uno nato nel 1913, l’altro nel ’14) nella loro città, Firenze
Parronchi predisposto ad una parabola lineare, di studi classici, università, insegnamento, tutti svolti a Firenze. Del resto, perché allontanarsi?
Firenze allora respira tutta d’arte, di storia, di attività pubblicistiche. Ci sono riviste come Frontespizio, Campo di Marte, Michelangelo, Letteratura, La Chimera che frequentano Carlo Bo, Oreste Macrì, Gianfranco Contini e il genovese, ma fiorentino di adozione, Eugenio Montale.
L’altro è un autodidatta orfano della madre a cinque anni che da ragazzo fa tutti i mestieri, garzone di bottega, venditore ambulante, barista, per sopravvivere, ma legge ogni cosa per poi finire a frequentare un corso di francese presso il Circolo Filologico e soprattutto ad incontrare il pittore Ottone Rosai. Da allora (1932) comincia a scrivere e a collaborare con il Bargello fondato da Alessandro Pavolini. Sandro Parronchi invece si laurea in Storia dell’Arte e poi insegna all’Università dedicandosi alla critica d’arte. La sua prima raccolta di poesie viene pubblicata più tardi, I giorni sensibili, nel 1941. Anche Parronchi incontra Rosai, come tanti altri poeti, romanzieri, pittori che si muovono nella Firenze dell’epoca.
Ma l’amicizia più importante è con Vasco Pratolini che con lui non ha in comune che la passione per la letteratura e per Firenze. Non è poeta o critico d’arte, ma scrittore, giornalista e, solo tardivamente, insegnante a Napoli. Ma è innanzi tutto un giramondo, anche suo malgrado. Ammalato di tisi, è in Trentino e in Valtellina per curarsi. Guarito, rientra a Firenze e con Alfonso Gatto e Enrico Vallecchi fonda “Campo di Marte”, la fucina dell’ermetismo italiano, poi chiusa dal fascismo. In seguito è insegnante a Torino e Modena, a Roma lavora al Ministero dell’educazione nazionale, poi è a Milano da giornalista, a Napoli, dove insegna storia dell’arte, poi a Fermo e a Procida per trasferirsi definitivamente a Roma nel 1952. Ha fatto la Resistenza, è membro del PCI, responsabile nel 1943 del settore Flaminio-Ponte Milvio. Quando se ne va- muore a Roma nel 1991- se ne va da dottore, con una laurea honoris causa conferitagli nel giugno del 1983 dalla Facoltà di Magistero della sua città. E naturalmente viene sepolto al Cimitero delle Sante Porte in San Miniato. Ci lascia, dopo i lavori più giovanili “Via de’ Magazzini” (1942), Quartiere (1944), altre opere considerate esemplari del neo-realismo italiano, ampiamente note, da Le ragazze di Sanfrediano, Cronaca familiare, Cronaca di poveri amanti, Metello, Lo scialo, oltre alla sceneggiatura di Rocco e i suoi fratelli, spesso premiate (premio Libera Stampa a Lugano, Premio Feltrinelli, Premio Viareggio) e alcune tradotte in film da registi come Valerio Zurlini e Carlo Lizzani. Ma ci lascia anche una sua raccolta di poesie giovanili e due antologie pensate per La scuola media: Quello che scoprirai (1953) e Il Portolano (1983). Esempio di una versatilità straordinaria.
Parronchi invece resta a Firenze e insegna, ma non manca di seguire le traversie dell’amico. Pratolini ha ormai moglie e figli – aveva sposato nel 1941 Cecilia Punzo – ma per coerenza comunista rifiuta nel 1957 la collaborazione che gli offre Mario Missiroli al Corriere della Sera. Come ricorda Valerio Aiello nel sul bel “A Firenze con Vasco Pratolini. Baci, spari e altre forme di amore” pubblicato da Giulio Perrone nel 2024 “I soldi. Il denaro. I quattrini. Per lunghi tratti della sua vita Pratolini si è trovato in grandi difficoltà economiche. Non solo nella sua infanzia e giovinezza proletarie tra Piazza della Signoria e Santa Croce, quando studiava di giorno, lavorava di sera, scriveva di notte, mangiava poco e male e finì per ammalarsi di tubercolosi. Ma anche più avanti, quando era uno scrittore affermato”. Sostenuto però sempre nelle difficoltà dalla sua passione politica. A Parronchi la vita lascia invece degli spazi più tranquilli, per una meditazione che trasferisce nella poesia, cui sarà fedele tutta la vita. La sua prima raccolta I giorni sensibili è pubblicata da Vallecchi nel 1941, seguono I visi nel 1943, Un’attesa che pubblica Guanda nel 1949. L’ultima è Esilio, pubblicata più di mezzo secolo dopo, nel 2003, da Interlinea, quattro anni prima della morte. La sua vena non si confonderà con l’ermetismo fiorentino, sarà più intimista, spirituale, pregnante di un bisogno di infinito non lontano dall’anelito religioso di Clemente Rebora o dalla ricerca sofferta di Dino Campana, una meditazione sospesa fra la consapevolezza della finitezza delle cose e l’aspirazione ad una esistenza eterna, una tensione che ben esprime con queste parole:
“Che parte assegnare alla poesia nel continuo inarrestabile ricrescere delle abitudini, del benessere, del disordine, dei traffici, della disperazione e del cinismo, di un mondo che la seconda guerra mondiale aveva lasciato sparso di ceneri radioattive? Ci fu un momento nella nostra più lontana fanciullezza in cui questo mondo era immobile, il sole non sembrava mai decidersi a varcare il cerchio meridiano. Com’era facile allora leggere il tempo! Poi la gente prese a camminare, affrettò il passo, e andava sempre più in fretta, sorpassata da mezzi meccanici via via più veloci. Da quel momento, quanti record battuti. Il tempo prima non passava mai: si è arrivati a vincere il tempo. Lo spazio sembra infinito : si è riusciti a circoscriverlo. Il senso astratto di queste vittorie è già nel gesto liturgico di Ungaretti: ”Brucio sul colle spazio e tempo”.
Ma in pratica, viste materialmente, queste nozioni hanno finito col perdere il loro significato ideale. Risultato è che il presente non ha più senso. Il passaggio del tempo, già sublime fonte di pensiero e di turbamento e supremo cimento per l’espressione, sembra ormai sfuggire nella sua essenza ai poeti, che lo scambiano con registrazioni più o meno automatiche di quello che corre loro per la testa in quel momento. L’oggi, il presente, rimane velato e quasi non si distingue, ridotto ad una identità trascurabile. Lo stesso spostarsi dell’interesse verso altri mondi, non fa che attenuare quello doveroso che da noi esige la terra, groppo di problemi ancora insoluti. E mentre del futuro non si scorge che il vuoto, ecco il passato, non appena ci soffermiamo a guardarlo attentamente, apparirci vivo in ogni momento. “Tutto il passato in un punto dinanzi mi sarà comparso” (Montale). “E ora facciamo il sogno della vita in blocco” (Campana). Nel recupero interiore di una storia e di una antichità poetica, in una presbiopia che cerchi nelle musiche, nei volti, nei “casi che già furo” la prefigurazione stessa del nostro destino di domani, mi sembra consistere l’essenza di quello che per tutti – coscienti e incoscienti, poeti e brontoloni – è “il nostro caro tragico insostituibile tempo”.
Una esegesi, questa, di Parronchi che trova forse la più compiuta espressione in una poesia della raccolta “Incertezza amorosa”:
RICORDO DI UNA FANCIULLA MORTA
Brevemente, come fu breve il tempo
che ci trovammo vicini, e bastò
a darci annuncio di qualcosa
non destinato a perire,
io ti parli in questo giorno che le luci
fanno spazio e deserto
sul mondo e non rimane del passato
che un fiore da cogliere, solo.
C’era un segreto per noi da non dire,
e divampò la sera (prossima alla tua morte!)
che tra gente fastidiosa e bisbigli
tutto fu luce e deserto improvviso
per la tua apparizione,
un segreto che rimandare è dolce
perché la vita rode
intorno ai minuti e non si sa
come poterla interamente vivere
finché da questa sponda non si sbocca
a un’altra, quale sia,
fuori da un mondo dove tutto ha fine:
eri la prima creatura nuova,
però ti suggeriscono trapassi
di luce senza posa in questo giorno
che il cielo sale a fondersi la terra.
(Alessandro Parronchi)
L’ispirazione di Pratolini è invece il realismo con cui dipinge San Frediano (ma anche Sanfrediano) e le sue Ragazze che le Botteghe Oscure pubblicano nel 1949:
“Il rione di Sanfrediano è “di là dell’Arno” , è quel grosso mucchio di case tra la riva sinistra del fiume, la Chiesa del Carmine e le pendici di Bellosguardo; dall’alto, simili a contrafforti, la circondano Palazzo Pitti e i bastioni medicei; l’Arno vi scorre nel suo letto più disteso, vi trova la curva dolce, ampia e meravigliosa che lambisce le Cascine. Quanto v’è di perfetto, in una civiltà diventata essa stessa natura, l’immobilità terribile ed affascinante del sorriso di Dio, avvolge Sanfrediano, e lo esalta. Ma non è tutto oro ciò che riluce. Sanfrediano, per contrasto, è il quartiere più malsano della città; nel cuore delle sue strade, popolate come formicai, si trovano il Deposito Centrale delle Immondizie, il Dormitorio Pubblico, le Caserme. Gran parte dei suoi fondaci ospitano i raccoglitori di stracci, e coloro che cuociono le interiora dei bovini per farne commercio, assieme al brodo che ne ricavano. E che è gustoso, tuttavia, i sanfredianini lo disprezzano ma se ne nutrono, lo acquistano a fiaschi…”
( Le ragazze di Sanfrediano)
Sono questi i due autori che si riconoscono in Firenze, nella loro amicizia, e che ci hanno dato uno “Le lettere a Vasco” , l’altro “ La via de’ Magazzini”. Proprio al numero 1 della via dove era nato, una lapide ricorda la nascita di colui “che a narrare una storia italiana trasse perenne alimento dall’amore per la sua Firenze”. Firenze che, non matrigna, non ha mai dimenticato entrambi, né in vita né in morte.
LORIS JACIN
(foto cover: Piazza del Mercato Vecchio a Firenze – Sergio Calamandrei)