Un libro che si attendeva (Ridolfi). Un libro diverso (Rapone). Così è stato definito il volume “Un’ idea di Matteotti. Un secolo dopo” (edito Marietti1820, 2024) che Enzo Fimiani, professore di Storia contemporanea all’Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara, è stato invitato a presentare il prossimo venerdì 29 novembre (ore 19) alla Libreria italiana di Lussemburgo dalla sezione ANPI-Lussemburgo e dal Circolo “E.Curiel” in occasione dei 100 anni dalla morte. Modera Maria Luisa Caldognetto. Ne abbiamo parlato con l’autore

Nel suo libro, cosa emerge di nuovo o di poco conosciuto sulla figura di Giacomo Matteotti e sul suo sacrificio per la democrazia italiana?

In una recensione firmata da uno degli storici italiani più autorevoli, Maurizio Ridolfi, è stato scritto che questo era “il libro che si attendeva”. In una delle ventiquattro presentazioni dall’uscita del volume che, in Italia e in Francia, hanno finora preceduto quella che si terrà a Lussemburgo il 29 novembre, un altro storico italiano molto noto e autorevole, Leonardo Rapone, l’ha invece definito “un libro diverso”. Mi permetto di pensare che simili giudizi su un lavoro che, non a caso, si intitola “Un’idea di Matteotti, un secolo dopo” (Bologna, Marietti1820 editore, 2024), vadano al di là dei graditi e forse immeritati riconoscimenti, che pure da soli già compensano la fatica di averlo condotto a termine. Essi esprimono bene gli obiettivi di fondo dell’opera, dai quali sono partito, quando appunto ho avuto “l’idea”, complicata, di avventurarmi anch’io all’interno di questo centenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti.

Un libro che in realtà non volevo scrivere. Sapevo infatti che decine di pubblicazioni, di varia natura e consistenza, sarebbero uscite nel 2024. Intendevo dunque evitare di scrivere il “solito” libro su Matteotti, che si perde in mezzo a tanti altri e che finisce per ripercorrerne le vicende più classiche, magari solo con altre parole, incentrandosi soprattutto sui due momenti più clamorosi, il ben noto discorso del 30 maggio e poi delitto, nel 1924, e poi il farsesco processo del 1926. Per di più, vi sono specialisti che all’uomo politico socialista hanno dedicato una vita di studi e ricerche, come Mauro Canali o Stefano Caretti, i quali hanno ormai delineato in modo del tutto attendibile i principali passaggi della parabola in vita di Matteotti.

Insomma, quando infine mi sono lasciato convincere dall’editore (una gloriosa casa editrice dell’Ottocento italiano, poi fallita qualche anno fa e ora rinata su nuove basi, rilanciata con alla guida un gruppo di giovani donne di grande valore), l’ho fatto solo perché volevo tentare, pur in tutta modestia, di scrivere un libro “diverso”. In altri termini: intendevo muovermi al di fuori, per quanto possibile, dei canoni matteottiani, battendo un terreno almeno in parte differente e adottando strumenti interpretativi non troppo influenzati da una lunga narrazione attorno a uno degli uomini politici più importanti della storia dell’Italia unita.

La “diversità” del libro consiste nel fatto che al centro dell’interesse si colloca non tanto e non solo la sua vicenda in sé, quanto quella che definisco la seconda vita di Matteotti, o se vogliamo la sua “second life”, con una locuzione più consona alla presente età digitale. Un tempo che comincia esattamente al momento della sua uccisione per mano di un gruppo organizzato al servizio del ministero dell’Interno del governo fascista (ergo: di Mussolini medesimo, essendo egli allora, come di fatto per tutto il periodo del regime, non solo “duce” ma al contempo anche ministro dell’Interno, la qual cosa spesso ci si dimentica di sottolineare). Dall’istante del delitto, prende avvio la lunga memoria matteottiana, durata finora già un secolo, assai di più della sua (breve) vita carnale tra 1885 e 1924.

Mi interessava, cioè, capire il Matteotti “memorato”. Come la memoria attorno a lui si è evoluta nel tempo? Quanto è mutata, si è rimodulata a seconda delle stagioni politiche, oppure è stata usata, pervertita, diluita, annacquata? E perché si sono verificati questi fenomeni? Un secolo di memorie, potremmo dire, che questo volume prova, in tutta modestia, a seguire, sviscerare, capire, interpretare. Anche in ragione del fatto che intorno a Matteotti si è in effetti accumulata una tale massa di memorie, da renderlo oggi, per alcuni versi, irriconoscibile, quasi confuso in una nebbia rispetto alla sua esistenza reale, al concreto contesto storico nel quale ha operato, si è impegnato, ha lottato, ed è stato assassinato. Un contesto che assume soprattutto i contorni del fascismo, naturalmente. Partendo da prospettive del genere, si può in breve dire che i cardini interpretativi del libro si muovano su due assi principali.

Da un lato, il mito di Matteotti: l’eroe, il martire, sono dimensioni dalle quali egli non sfugge e che, mentre ovviamente lo definiscono (perché è senza dubbio anche eroe e martire), al contempo in qualche modo lo ingabbiano in un pantheon senza tempo, allontanandolo dalla sua storia concreta e dalle motivazioni per cui è stato ucciso, e dalle responsabilità di questo assassinio. Il volume perciò tenta di decostruire la mitologia matteottiana, per renderlo invece nelle sue complessità storiche.

Dall’altro lato, questa “Idea di Matteotti” prova a comprendere le ragioni che stanno alla base di un mito memoriale che spesso finisce per porre l’uomo politico socialista in una specie di teca, come una sorta di santino laico, innocuo e dunque buono per tutte le stagioni. Non un uomo in carne ed ossa ma un mito, più facile da “maneggiare”, tanto per chi è erede di coloro che, del Matteotti in vita e dei suoi ideali, era stato feroce avversario o almeno di certo non amico, quanto per molti dei suoi stessi compagni di strada. Matteotti infatti – è una delle tesi principali del libro – è stato scomodo per tutti, sia in vita, sia post mortem: nemici, avversari, amici (molti, falsi amici), compagni di lotta. Per tutte le famiglie politiche italiane, guardare Matteotti negli occhi ha significato e significa dover fare i conti con i propri scheletri nell’armadio, con errori, limiti, manchevolezze, incoerenze di un passato politico del ‘900 che nell’Italia repubblicana è ancora vivo, e pesa. Se la destra naturalmente fatica a rapportarsi con Matteotti, e se le famiglie liberali e cattoliche, dopo averlo tanto osteggiato in vita, hanno dovuto trovare proprio nel mito dell’eroe e del martire la scorciatoia per elaborarne la scomoda memoria e diventarne “amiche”, è anche la stessa sinistra italiana che, filtrate nella vicenda matteottiana, nella coerenza etica del politico, nel suo sforzo unitario contro il fascismo che pure si rivela un fallimento, può leggere le tragedie del suo Novecento, le scissioni, le lacerazioni, gli smottamenti ideali rispetto alla sua idea originaria.

Come il contesto storico e politico dell’epoca ha influenzato il messaggio e l’eredità di Matteotti nel panorama italiano ed europeo?

Un’altra delle tesi che il libro propone può forse rispondere a questa domanda. Nelle pagine del volume si sostiene che, se davvero si vuole capire Matteotti e il suo tempo, è proprio al suo reale contesto storico che bisogna ritornare. Occorre cioè riportare Matteotti dall’iperuranio del mito alla storia, per così dire. Un contesto storico e politico da cui l’eroicità mitizzata e la sacralità quasi religiosa del suo martirologio lo hanno invece progressivamente allontanato, spesso in maniera voluta, appunto, per renderlo più digeribile per tutti, più inoffensivo.

La dimensione concreta nella quale egli si è mosso è invece fondamentale per comprendere e interpretare il senso della sua vita ma anche e soprattutto le sue eredità.

Matteotti, infatti, sta dentro i drammi delle democrazie del Novecento. Nelle sue battaglie per la centralità del parlamento rispetto al potere esecutivo, per la giustizia sociale, per la democrazia minacciata dall’anti-democrazia, c’è tutta la storia tormentata dell’idea democratica e del cortocircuito rispetto alla prassi. Sono questioni, queste, che certo non riguardano soltanto l’Italia, ma almeno l’Europa tutta. Peraltro, Matteotti è stato un politico di respiro europeo, che viaggiava, conosceva mondi diversi, parlava molte lingue, studiava, si informava al di là dell’orticello italiano.

E poi, Matteotti sta dentro la storia del fascismo, naturalmente, con tutte le eredità che essa ha lasciato all’Italia democratica e repubblicana, e che ancora fanno sentire i loro effetti nella nostra attualità di questo secolo XXI. Anche oggi, infatti, i disagi che vivono le democrazie hanno molto a che fare con il tempo concreto di Matteotti. E, per noi italiani, il fascismo è quel “passato che non passa” che lacera ancora la nostra vita pubblica. Per gli europei tutti, poi, i termini fascisme, in area anglosassone e francofona, e Faschismus in quella germanofona, ancora oggi indicano un regime anti-democratico tout court, di cui l’esperienza fascista italiana è stata un autentico modello a livello continentale, ispirando e influenzando tutti i regimi sorti tra le due guerre mondiali, dalla Grecia alla Germania, dal Portogallo alla Spagna, dalla Romania alla stessa vicenda di Vichy in Francia.

Che insegnamenti possiamo trarre dalla vicenda di Matteotti per affrontare le attuali minacce alla democrazia e ai diritti civili?

Almeno tre.

Il primo riguarda appunto la fondamentale inconciliabilità tra assetti democratici di uno Stato e impianti che in senso lato possiamo definire più “autoritari”. Non esiste, non può esistere un’autentica democrazia in modelli (ne vediamo tanti anche nel nostro panorama europeo di oggi, si parla persino di “democratura”) che pur lasciando intatte le forme della democrazia le svuotano della loro sostanza. Rinunciare a parti della democrazia concreta per avere in cambio società all’apparenza più “ordinate”, significa aprire il varco a regimi anti-democratici. Questo, Matteotti l’aveva capito prima di tutti i suoi compagni di strada, già dal 1920 o 1921: il fascismo non era un movimento poi partito politico come gli altri, magari più di destra, che dunque si proponeva di governare nella “normale” alternanza democratica. No: il fascismo aveva, in sé, una natura totalitaria, che intendeva rovesciare la democrazia, per farsi tutt’uno con lo Stato.

Il secondo insegnamento: la divisione, l’equilibrio e l’assoluta indipendenza reciproca dei tre poteri fondamentali dello Stato – legislativo, esecutivo, giudiziario – costituiscono l’architrave irrinunciabile di una democrazia. La quale si fonda sul ruolo fondamentale dell’assemblea legislativa, luogo deputato a dare sostanza al confronto, alla pluralità naturale e alle variabili degli assetti democratici. Matteotti ne è stato il testimone più coerente e consequenziale. Non è il potere esecutivo, di governo, a caratterizzare le democrazie, visto che governi forti esistono, naturalmente e ancor meglio, nelle dittature, bensì sono i parlamenti. Ogni volta che, in storia, c’è stato un forte disequilibrio a favore del potere esecutivo, lo sbocco è stato quasi sempre in regimi non democratici, in varia misura, autoritari, dittatoriali, totalitari.

Infine, il terzo insegnamento: si può far parte del ceto politico anche in un modo diverso rispetto all’oggi, cioè studiando, impegnandosi, lasciando da parte la vuota retorica o la spettacolarizzazione mediatica. Matteotti ne è stato l’emblema, e perciò, oggi, è così inattuale: non era un retore né un parolaio, bensì ogni suo intervento (parlamentare, sempre) si basava su fatti, cifre, dati, studio costante, logica, coerenza. E perciò, per il fascismo, egli è stato l’Arcinemico. Perché non si limitava a fare polemica ma lo incalzava sui fatti, ne svelava limiti, omissioni, errori, violenze, inadeguatezze, incalzando il governo mussoliniano sul piano concreto, mettendolo dunque spalle al muro, denudandolo degli orpelli propagandistici, in certo modo. Un antifascista consequenziale e, dunque, pericoloso: questo era Matteotti.

(Red/se.pc.mgg)

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