La fine della pace in Europa e la situazione  della moneta unica

Carlo degli Abbati riprende la situazione monetaria dell’Europa dopo l’uno-due che per una zona già di scarsa crescita hanno rappresentato e rappresentano gli effetti della pandemia e la fine della pace in Europa. Ritorna sugli aspetti politici che hanno condizionato l’EURO prima nella sua concezione (non più moneta comune ma moneta unica priva di una Banca centrale) e poi nella sua gestione (approccio ordo-liberistico di aspirazione e non di diffusione della massa monetaria nel sistema) e si interroga sulla evidenziazione  dei difetti strutturali dell’EURO che l’attuale drammatica congiuntura inevitabilmente comporta per l’Italia e l’Europa.

Uno dei principali argomenti che si affrontano quando si tratta con gli studenti il tema dei sistemi economici comparati è la necessità di una corretta comparazione fra modelli teorici diversi e fra sistemi reali diversi e non l’obliqua messa a confronto delle qualità di un modello teorico con i difetti di un sistema reale di tipo opposto.

Questa considerazione viene in mente se ci si riferisce alla constatazione che fa nell’ultimo LIMES Gabriele Guzzi sul tema: “L’euro è la moneta del nostro declino possiamo uscirne?”. Forse nessun aspetto della costruzione europea come l’EURO pone lo iato fra la indiscutibilità dell’integrazione europea anche monetaria come modello teorico e la sua invece sempre più problematica attuazione come sistema reale. E qui l’autore giustamente si interroga sulla urgenza di ”ridare un minimo di base razionale a quei processi economici che se non vengono rapidamente affrontati continuano a contribuire al declino economico dell’Italia entro l’Europa”. E aggiunge:” Mentre il mondo brucia fra guerre e divisioni, l’UE continua a discutere di zero virgola, di percentuali, di saldo strutturale. L’ideologia contabilistica e ragionieristica di Bruxelles si mostra ancora l’unico collante economico realmente esistente oggi in Europa”.

In realtà basta riferirsi come abbiamo fatto recentemente agli ultimi up-date 1/24 delle previsioni del FMI sulla crescita mondiale per constatare che se l’Europa è stata per decenni al centro della crescita, negli ultimi anni è in corso una suo processo di periferizzazione che la allontana sempre di piu’ dalla crescita e la rende quindi sempre meno interessante per futuri investimenti, con un modesto 7,5% di crescita complessiva prevista, ripartita nel periodo 2022-2025, contro una media dell’11,5 % di crescita degli altri paesi, sino al +20,2% dei paesi asiatici o al +21,3 dei PVS. Movimento di decrescita “infelice” per l’economia europea che già precedeva gli effetti negativi sulla economia europea aggiuntisi con la pandemia di SARS-Covid 19  e con la condizione di guerra in Europa. Anche se naturalmente non vanno sottovalutati gli ulteriori effetti compressivi dovuti agli ultimi avvenimenti – rallentamento economico provocato dalla pandemia di Covid-19 a partire dal 2020 a cui si sono aggiunti l’aumento dei costi dell’energia e l’effetto boomerang delle 17.500 sanzioni comminate contro la Federazione Russa a causa della invasione ucraina dal 2022. Se ci riferiamo al paese cardine della economia europea, la Germania, la perdita di crescita ha raggiunto cosi’ il -5,68 % fra il 2022 e il 2024 e non molto meglio fa la Francia con un -3,0%. Se poi prendiamo i dati previsionali UE osserviamo una crescita complessiva per il  2024 dell’0,9% (Francia 0.9 Italia 0,7 Germania 0,3 Svezia 0,2) contro il 2,1 degli Stati Uniti, il 3,2% della Russia, il 5% della Cina, il 6,5% dell’India. Il caustico matematico Piergiorgio Odifreddi, parafrasando Shakespeare, a questo punto osserverebbe “Something is rotten in the state of  Danemark”. Solo che apparentemente – questo è il punto – non sono solo i fattori congiunturali legati alla pandemia e alla proxy war ai confini in cui l’Europa è coinvolta a costituire i fattori essenziali dell’evidente declino europeo (ed italiano).

Già nel 2018 il premio Nobel per L’Economia, l’americano Joseph Stiglitz, mondialmente noto per la sua chiara disamina della crisi americana 2008 dei sub-prime, nella prefazione al suo critico volume sull’EURO gettava sull’EUROPA un grido di allarme. Premettendo: Il mondo è bombardato in permanenza da terribili notizie dall’Europa. La Grecia è in depressione e la metà dei suoi giovani sono disoccupati. L’estrema destra ha fatto in Francia dei progressi considerevoli. In Catalogna, la regione di Barcellona, gli indipendentisti che vogliono rompere con l’Europa, hanno la maggioranza al parlamento regionale. All’ora in cui questo lavoro è stampato, numerosi paesi europei arrivano al termine di un decennio perduto: il loro PIL per abitante è piu’ basso che prima della crisi finanziaria mondiale. Anche quando l’Europa festeggia qualche successo si tratta di un fallimento. Il tasso di disoccupazione si è abbassato in Spagna: dal 26% del 2013 al 20% dell’inizio del 2016! Ma quasi un giovane su due resta disoccupato, e il tasso di disoccupazione sarebbe ancora peggiore se tanti giovani di talento non avessero nel frattempo abbandonato il paese per cercare lavoro altrove. Cosa sta succedendo ?”.

Stigltz offriva una sua chiave di interpretazione dell’enigma europeo: la decisione presa nel 1992 di adottare una moneta unica (e non comune) senza dotarla delle istituzioni che l’avrebbero fatta funzionare dato che “i buoni sistemi monetari non possono garantire la prosperità, ma i cattivi sistemi possono condurre a delle recessioni e a delle depressioni”.

Qui si può anche scendere a qualche ricordo personale. L’euforia nelle capitali europee della riuscita dell’Atto Unico del 1987, l’affermazione del grande mercato unificato europeo all’orizzonte 1992 con il ripristino delle fondamentali libertà di circolazione di beni, servizi, persone, capitali aveva fatto immaginare alle istituzioni europee un ulteriore passo in avanti. Nasceva il “1992 LE DEFI” del presidente della Commissione Jacques Delors. Si immaginava il superamento del quadro economico europeo con una integrazione non solo economica ma anche monetaria europea. Dopo il rilancio del mercato unico, potentemente voluto dalla ERT -European Round Table for Industry– si era dato corpo alla vecchia idea del Commissario economico Raymond Barre del 1969, poi divenuta Rapporto Werner dal nome del presidente lussemburghese del Consiglio Pierre Werner che lo aveva approvato,  per la costruzione per tappe di una unione economica e monetaria europea.

Vent’anni dopo il 1970, però, un fatto nuovo ed inatteso aveva sconvolto gli equilibri in Europa: la riunificazione tedesca, la Wiedervereinigung, frutto della frantumazione dell’URSS, con una modifica netta dei principi fondanti della partecipazione della Germania all’Europa. Da allievo diligente della classe europea a superpotenza regionale, protesa verso la realizzazione di un duplice obbiettivo: riuscita del proprio processo di riunificazione nazionale e dell’ inserimento del paese riunificato con capitale Berlino in una concorrenza mondiale che, con gli accordi WTO dal 1994, le allora soverchianti multinazionali americane erano riuscite ad improntare ad una full deregulation, in modo da poter produrre in condizioni di quasi monopolio mondiale per un mercato globale di sette miliardi di consumatori. Nelle mutate condizioni geopolitiche europee, il sopravvivere del D-Mark con la sua forza avrebbero vanificato l’esistenza delle altre monete europee legate alla fluttuazione congiunta del cosiddetto serpente monetario europeo. Ne era stata constatazione evidente la crisi monetaria del 1992, che aveva obbligato la lira italiana e la lira sterlina inglese (da cui lo stress britannico all’origine vera del Brexit) ad abbandonare la fluttuazione congiunta delle monete non appena la Bundesbank, per attirare i capitali internazionali per la ricostruzione della DDR, aveva portato al 4% la rimunerazione dei depositi in Marchi. La Francia di Mitterand non avrebbe dopo di allora mai potuto accettare il mantenimento in circolazione del D-Mark. La proposta di Delors di una moneta comune europea (pensava di denominarla umanisticamente Fiorino) non poteva mantenersi. Un ‘intesa franco-tedesca doveva fare dell’EURO una moneta non comune ma unica, una sorta di killer delle monete nazionali.  Mentre precise regole di bilancio, i famosi parametri – si dice inventati  in una notte nei locali di Bercy da una dirigente. Silvestre, delle Finanze francesi – avrebbero dovuto mantenere la convergenza dei sistemi economici europei. Nascevano i parametri di Maastricht, nasceva a fine febbraio 2002 l’EURO come moneta unica europea. Ma l’EURO nasceva anche non dotato di istituzioni sufficienti a seguirne e proteggerne l’evoluzione. La BCE al centro del Sistema Europeo delle Banche Centrali non era una vera e propria banca centrale, dotata della funzione fondamentale di essere prestatrice di ultima istanza. Non era altro che la  banca epigona della Bank Deutscher Laender,  immaginata nel 1948 dal comitato inter-alleato di occupazione della Germania per sottrarre al nuovo governo federale il controllo della massa monetaria nel timore di una ripetizione della drammatica inflazione weimeriana, che era stata prodroma del nazismo. Un “non banca centrale”, concepita solo per il controllo della inflazione monetaria, mentre al governo federale si riservava esclusivamente il controllo della politica di cambio. Con l’introduzione dell’EURO, se la politica del tasso di cambio e del tasso di interesse veniva delegata al livello europeo, la politica fiscale era vincolata a stretti vincoli di austerità. La conseguente perdita di sovranità monetaria conseguente alla creazione di una moneta senza Stato, senza ministero del Tesoro, non veniva controbilanciata da adeguati trasferimenti fiscali correttivi, in assenza di una comune politica di bilancio e fiscale. La nuova moneta invece di stimolare la convergenza aveva l’effetto di approfondire le differenze e la frammentazione fra i diversi mercati finanziari europei, avvantaggiando i paesi eccedentari con provviste ampie a tassi convenienti e offrendo ai paesi deficitari dell’Eurozona (i c.d. PIIGS) linee di credito scarse a tassi più elevati.

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Planava sull’Europa la minacciosa ombra dello spread. Situazione ulteriormente aggravatasi con la crisi dei sub-prime, vergognoso episodio di rapacità bancaria nei confronti delle classi americane più deboli, originata negli USA  nel 2008 ma trasmessa all’Europa. Con l’effetto perverso di fare nella crisi dell’’EURO della BCE, concepita nella lontananza dalle questioni politiche, l’autorità più politica della UE. Nata per difetto non di economisti, ma di politici che avevano scelto di ignorare le teorie economiche per raggiungere una finalità politica, agendo secondo una chimera istituzionale, cita Guzzi, che finiva per fagocitare le sovranità nazionali. Alla fine rendendo, come osservava Stiglitz,  le scelte di politica monetaria europea indipendenti da centri democratici, ma strettamente dipendenti invece da  influenze di paesi, interessi e gruppi di potere opachi, malgrado la democraticità formale delle votazioni nel consiglio dei governatori, un voto per ciascun paese.

Ora senza avere la pretesa di voler indicare delle vie di uscita per l’Italia e l’Europa, è indubbio che le conseguenze della pandemia, il taglio degli approvvigionamenti del gas russo a basso costo, l’effetto boomerang delle 17.500 sanzioni europee comminate contro la Federazione Russa che sembrano aggravare innanzi tutto le condizioni già precarie di una  economia europea di pura trasformazione, priva di risorse energetiche, non possono che mettere ulteriormente in risalto i difetti strutturali dell’impianto europeo. A cominciare dalla zona EURO che continua a rappresentare la zona economica mondiale a piu’ basso tasso di crescita, non assistita da una vera Banca centrale, e anche priva di una comune politica fiscale e di una mutualizzazione del debito dei paesi partecipanti. Un EURO disegnato nel suo funzionamento per un solo andamento -irrealistico nei fatti – , il ciclo continuo di crescita dell’economia europea, senza provvidenze per manovre anti-cicliche.

Questa natura “acefala”  dell’EURO, caso unico di moneta priva  di una vera banca centrale, a differenza p.e. del binomio USD-FED-,  si conforta in Europa  di una visione  ordoliberista  – la scuola tedesca di Friburgo – che comporta ampie limitazioni di sovranità nazionale per gli stati dell’EURO in materia di bilancio ( l’ultima decisione al riguardo è del 2012), ci pone di fronte ad un interrogativo inquietante. In altri termini l’EURO nella sua struttura attuale comprime proprio quel fattore G ( spesa governativa) che è essenziale per l’equilibrio dei sistemi economici come abbiamo già potuto matematicamente provare nel 2013 per la Rivista di Economia Internazionale di Genova. Cominciamo allora a  domandarci se nella drammatica congiuntura attuale, di pandemia e di guerra europea, si stiano meglio comportando, rispetto ai paesi dell’EURO, quegli altri paesi della UE che hanno preferito conservare ( trascurando il caso della Gran Bretagna) la loro sovranità monetaria, come Svezia, Finlandia, Bulgaria, Croazia, Cechia, Ungheria, Polonia, Romania.

Ricordando che l’EURO sin dalla sua introduzione nel 2002 ha ridotto della metà – grazia anche al benign neglect del governo berlusconiano del tempo in tema di controllo dei prezzi – il potere di acquisto in lire degli italiani, mentre l’Italia è oggi  quasi totalmente inserita  nella catena di valore del paese motore che oggi presenta il minor livello di crescita in Europa (la Germania, 0,3% nel 2024 ) sarebbe forse opportuno che avvenisse in Italia una riflessione nazionale intorno ad un tema molto piu’ rilevante di tanti futili altri che occupano  le prime pagine e i talk shows dei media italiani.

Il tema del pieno recupero da parte dell’Italia della sua  sovranità monetaria per sfuggire ad una strutturale perdita di crescita, in nome  di una stabilità devitalizzata dell’EURO, che quasi si potrebbe definire “castrante”. Come se la crescita bloccata del paese  ricordasse i prigioni di Michelangelo nella Galleria dell’ Accademia di Firenze.

Carlo degli Abbati

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