«Accogliere è un verbo che esprime un modo di essere e di stare al mondo. È una parola condivisa oppure è divisiva? Che significato ha per voi?». Si apre con un interrogativo tutt’altro che semplice  da risolvere, “Accogliere” (Piemme, 2023), il libro di Andrea Riccardi (storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio che da anni offre accoglienza ai profughi e ai più vulnerabili e dal 2015 presidente della Società Dante Alighieri) e Lucio Caracciolo (esperto di geopolitica e fondatore della rivista Limes), al centro di un dibattito svoltosi il 14 giugno presso la sede romana della Società Dante Alighieri che ha coinvolto oltre ai due autori, anche la scrittrice ungherese e testimone della Shoah, Edith Bruck, e il giornalista e rifugiato afghano Alidad Shiri

Il libro è un «pezzo di un dialogo tra me e Lucio Caracciolo che dura da anni e che ruota attorno ad una parola, un’idea, un problema: accogliere. Non c’è solamente il tema dell’accoglienza ai migranti o ai rifugiati ma un complessivo atteggiamento della società e anche dell’esistenza umana al centro di questa pubblicazione», spiega Riccardi aprendo l’evento. È proprio intorno al termine, dal significato tutt’altro che condiviso, in un tempo di pace e di guerra in cui l’accoglienza è tornata di grande attualità, che Riccardi s’interroga insieme a Caracciolo, che la ritiene «la necessità, e non la scelta, del nostro tempo». Il focus, però, non è solo quello dell’accoglienza dei migranti ma l’accogliere come dimensione personale di vita sociale perché nel momento in cui accogliamo o rifiutiamo di accogliere lo straniero mettiamo alla prova noi stessi e l’idea che abbiamo di noi. «Non si tratta – spiegano gli autori –  solo di migranti, di sfollati, di rifugiati politici, ma di fenomeni globali delle migrazioni, di politiche inclusive che ogni Paese e continente adotta, di scelte o aspirazioni individuali. Essere aperti o chiusi all’accoglienza determina una maniera di stare al mondo. Lo è stato nel passato, lo è nel presente e lo sarà ancora di più nel futuro».

Una questione, quella legata alle migrazioni, che diventa importante soprattutto in un Paese demograficamente anziano e a bassa natalità, come il nostro che proprio nei migranti trova una risorsa sia a livello lavorativo che familiare. «L’Italia – spiega Riccardi – ha vissuto un modello implicito d’integrazione» connesso al diritto romano e all’idea di adozione. «Questo – aggiunge – è stato possibile anche perché una parte degli immigrati si è inserita nelle famiglie, come collaboratrici domestiche o badanti. […] L’Italia ha tentato, senza teorizzazioni, di accogliere grazie a un modello familiare. L’integrazione italiana, quella che ha avuto più successo, è passata attraverso un processo adottivo, fatto di vicinanza personale, di convergenza in percorsi esistenziali e lavorativi, di familiarità. L’integrazione italiana riuscita è la somma di milioni di adozioni. Penso all’eccezionalità dell’adozione romana nel quadro della storia antica: questo, in un certo modo – se posso dirlo –, ispira ancora una parte del nostro vivere sociale». Più il nostro Paese invecchia, però, e meno sembra capace di accettare quello che non è solo un fatto di solidarietà ma una necessità strutturale della società italiana.

Non basta «accogliere o garantire uno sbarco in Italia questo è solo l’inizio di un processo complesso che dura per almeno una generazione».  Fondamentali ascolto e rispetto, oltre al pieno riconoscimento della dignità e della identità della persona. «Accogliere – afferma Caracciolo – è ascoltare, ascoltare è dire punti di vista diversi. Chi arriva in Italia è curioso di noi, è interessato a noi. Non c’è lo stesso atteggiamento da parte nostra, non siamo curiosi di loro. E cosa c’è di più offensivo per una persona di non incuriosire la persona con cui sta parlando?». Il linguaggio e l’ascolto si rivelano strumenti indispensabili. «La lingua italiana per me è stata la libertà la  liberazione e la rinascita. Dopo la guerra nessuno voleva sentir parlare noi “poveri avanzi di vita”. Ho iniziato a scrivere perché avevo bisogno di parole», conferma anche Edith Bruck raccontando la sua esperienza di migrazione e il suo arrivo a Napoli «dove per la prima volta mi sentì guardata, chiamata e sentita». Nelle sue parole tanta la nostalgia per l’Italia dell’epoca «meno razzista e chiusa di quella di oggi» in cui, secondo la scrittrice, regna l’incomunicabilità e solitudine, anche all’interno delle famiglie. Non manca, però, la speranza nelle parole della scrittrice. «Neanche nell’orrore di Auschwitz il mondo era totalmente nero. C’è sempre una luce. Nel mio libro (“Il pane perduto” [La Nave di Teseo, 2021], ndr) ho raccontato “le cinque luci di Auschwitz”. E i ragazzi oggi, anche se abbandonati a loro stessi davanti agli apparecchi elettronici, sono affamati di sapere e capire cosa è accaduto. Quando vado nelle scuole vedo che i ragazzi ascoltano con le orecchie, con gli occhi e con la bocca perché sono affamati di sapere e se riesco a cambiare la vita di 5 o 10 persone, la mia esistenza allora non è stata vana».

Un’accoglienza che passa dall’io al noi, anche quella auspicata dal giornalista afghano Alidad Shiri che ha raccontato il suo travagliato viaggio dall’Afghanistan dove a 10 anni ha visto uccidere suo padre (governatore della città in cui vivevano), poi dopo soli sei mesi anche la madre, la sorella e la nonna.  «Improvvisamente non ero più un bambino ma un rifugiato. Sono partito per il Pakistan poi dopo un viaggio di 23 giorni sono arrivato in Iran. Sognavo di studiare ma non potevo frequentare la scuola perché non avevo i documenti. Cercavo sempre di essere invisibile agli occhi di chiunque, delle forze dell’ordine come della folla o dei medici. Non potevo tornare indietro e sono andato avanti, fino all’Europa dove sono arrivato viaggiando sdraiato sotto il semiasse di un tir per due giorni e due notti. Sapevo di rischiare ma il rischio di tornare indietro era ancora più grande. Oggi vivo a Bolzano, in bilico tra due mondi e tra due lingue (italiano e tedesco)». 

Un io e un noi che fanno la differenza anche nelle relazioni in quella che Riccardi definisce la “società dell’io”  «figlia del mondo globale e del suo individualismo. Tale società dell’io è il terreno di cultura dei populismi, che hanno bisogno di affidarsi a un leader o di contrapporsi a qualcuno, a qualcosa, ad altri». Un tempo a fare da collante, oltre alla famiglia, c’erano i partiti e i sindacati ma poi quella dimensione del “vivere insieme” si è andata progressivamente frantumando. È la società dei social, quella in cui uomini e donne vivono la propria solitudine talvolta anche come esaltazione e competizione. «Spesso, invece, l’io in tanti momenti della vita è fragilità e dolore e assenza di sostegno. Questo è il grande problema delle nostre città, è il problema europeo. Come facciamo ad accogliere l’altro quando siamo soli e il noi si è dissolto?» si chiede il presidente della società Dante Alighieri auspicando che, «attraverso il “problema migratorio”, si inizi finalmente a parlare dell’Italia che vogliamo e del nostro futuro».

Valentina Ersilia Matrascìa

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