Per affrontare con un minimo di onestà intellettuale la questione dei Balcani, riaccesa di recente con gli scontri – che hanno visto feriti anche alcuni alpini italiani – fra la minoranza serba della regione settentrionale del Kosovo ed i militari NATO della missione KFOR presenti nel paese, bisogna raccontare molte cose

Ci sono cose lontane, come la presenza dal X secolo nella regione balcanica in Serbia e in Bosnia dei Bogomili, seguaci di un movimento cristiano eterodosso che si ispirava al pope bulgaro Bogomil (amato da Dio). Considerati eretici e lungamente perseguitati sia dai cattolici che dagli ortodossi, dopo la conquista ottomana dei Balcani con la vittoria sui Serbi a Kosovo Polje dopo la metà del XVI secolo, i Bogomili si convertiranno alla religione musulmana e cominceranno a loro volta le persecuzioni di ortodossi e cattolici.

Poi cose più vicine. Dopo la seconda guerra mondiale, liberandosi dai nazi-fascisti senza l’aiuto dell’URSS, Joseph Broz Tito unifica la Jugoslavia come repubblica popolare federativa costituita da sei repubbliche, Slovenia, Croazia, Macedonia, Serbia, Montenegro, Bosnia-Erzegovina e due province serbe autonome, la Vojvodina a maggioranza ungherese e il Kosovo dalla forte presenza albanese. Paese socialista, ma ad economia di mercato, la Jugoslavia si disaggrega dopo la morte di Tito, a partire dal 1991 quando per gli scontri fra le tre componenti etniche della Bosnia-Erzegovina, quest’ultima si ritira dalle riunioni del Consiglio federativo delle Repubbliche. Con un processo di disgregazione che, contro il parere speculare della Francia, la Germania Federale agevolerà, riconoscendo con il governo di Helmut Kohl a fine dicembre 1991 unilateralmente l’indipendenza di Slovenia e Croazia. Ne seguiranno i drammatici anni della guerra civile jugoslava, caratterizzati da gravi stragi di civili come a Sarajevo e a Srebrenica, nonostante la presenza delle forze di pace dell’ONU, e in seguito un processo di indipendenza di quattro repubbliche fra il 1991 e il 1992 riconosciute anche dalla Russia.

Sarajevo (Wikipedia)

Drammatico invece il caso della indipendenza della Croazia e della Bosnia-Erzegovina, con il confronto fra minoranze musulmane, croato-bosniache e serbo-bosniache contrarie al processo di indipendenza dalla Serbia. Di fronte alle manifestazioni per l’indipendenza della Croazia, Belgrado reagirà occupando la Slovenia orientale ed alcune zone della Croazia meridionale. Il conflitto serbo-croato si concluderà dolorosamente con l’evacuazione dalla Krajina, regione che si era auto-proclamata Repubblica Serba di Krajina dopo l’operazione croata Tempesta (Operacija Oluja) del settembre 1995 con l’esodo di centinaia di migliaia di serbi e la morte di migliaia di civili nel conflitto. Poi, dopo gli accordi di Dayton del 1995, e la loro mancata realizzazione per il disaccordo fra leaders serbi, croati e bosniaci, assisteremo nel 1999 alla continuazione dell’ingranaggio della guerra con l’intervento della NATO e 78 giorni di bombardamenti della Serbia di Milosevic. In un quadro politico europeo in cui la decisone unilaterale della Germania aveva avuto l’effetto di accelerare il processo di frantumazione della Jugoslavia, la prima operazione della NATO in Europa nel 1999 ha formato oggetto di una tale disinformazione anti-serba a senso unico che è opportuno ritornarci per chiarezza storica.

Da un lato, Slobodan Milosevic, il leader serbo protagonista degli Accordi di pacificazione di Dayton nel 1995, che non comprende che, tramontato il sogno post-socialista della Grande Serbia, perdute Krajina e Slavonia, la parte orientale della Croazia,  è il momento di scendere nella ex-Jugoslavia ad un compromesso pacificatore e non di cercare invece un nuovo casus belli con il Kosovo, provincia a maggioranza albanese, ma con forte presenza serba a Kosovska Mitrovica nel nord e a sud a Štrpce, sino ad allora considerata internazionalmente a sovranità serba.

Dall’altro, l’Occidente che, desideroso di sbarazzarsi di Milosevic, inventa la nuova missione della “responsability to protect” che si aggiunge a quella di autodifesa della NATO e monta il caso della liberazione degli Albanesi del Kosovo con 78 giorni di bombardamenti su Belgrado, utilizzando anche delle bombe all’uranio impoverito.

Ora, la prima operazione militare della NATO in Europa (oggi con l’Ucraina arriva la seconda, anche se l’ineffabile presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, ne parla, beata lei, come prima guerra post-bellica in Europa), costituisce la pietra tombale non solo per le migliaia di civili serbi morti sotto i bombardamenti, non solo per la pretesa superiorità etica dei valori occidentali, ma anche per la fiducia della Federazione Russa nei confronti dell’Occidente. Il primo ministro russo, Evgeni Primakov, in volo verso Washington per un incontro bilaterale NATO/Russia, informato dei bombardamenti sulla Serbia, ultimo alleato rimasto alla Federazione nei Balcani, fa tornare indietro l’aereo e dichiara la necessità dell’avvicinamento della Russia con la Cina. La sfiducia russa nei confronti dell’Occidente non comincia nel 2014 con i fatti di Euromaidan, sulla piazza di Kiev, ma nel 1999 con le bombe NATO su Belgrado che oggi nei media occidentali è opportuno non ricordare. Ma lo fa invece, definendo il Kosovo come cuore della Serbia il grande tennista Novak Djokovic dal Roland-Garros, dove incidentalmente i tennisti russi e bielorussi partecipanti al torneo come Rublev o Medvedev o la Sabalenka non hanno diritto ad essere contrassegnati come gli altri dai colori nazionali nei comunicati stampa, trattati da apolidi, come fu davvero il magnifico Yaroslav Drobny negli anni ’50.

Source: University of Texas, Perry Castaneda Library Map Collection – Courtesy of the Un. of Texas Libraries, The University of Texas at Austin

Per venire agli avvenimenti recenti, il Kosovo, già provincia autonoma della Repubblica Popolare, oggi a maggioranza albanese dopo l’esodo di molta parte dei residenti serbi, ha proclamato la sua indipendenza il 17 febbraio 2008. Ricevendo il riconoscimento degli Stati Uniti che nel frattempo vi hanno costruito la base militare di Steelcamp, di una parte degli stati membri della UE, ma non di Serbia, Grecia, Turchia, Spagna, Portogallo. Del resto, i rapporti restano molto tesi fra il leader kosovaro Albin Kurti, già membro dell’ala politica del movimento di guerriglia kosovara UCK, di cui alcuni membri sono sotto giudizio per crimini di guerra di fronte al Tribunale penale internazionale e il leader serbo Aleksander Vučić, da lui definito come un “autocrate”. Venendo alla cronaca, già vi era stata l’invalidazione delle targhe automobilistiche serbe utilizzate nel Nord del Kosovo, i recenti disordini sono invece dovuti all’ingresso, nelle sedi municipali, dei nuovi sindaci eletti con le elezioni del 23 aprile scorso. Queste elezioni erano state boicottate dai residenti serbi, che hanno visto invece la composizione di consigli comunali di etnia albanese con componenti che in certi casi non avevano ricevuto alcun voto. Consigli che, comunque, vanno insediati per continuare nell’amministrazione dei territori. Gli scontri della popolazione serba locale con i militari della KFOR – “Forza per il Kosovo” o KFOR, missione della NATO operativa dal 1999 – che assicurano l’ordine insieme alla polizia kosovara e alla milizia Julex formata da polacchi, hanno riguardato tre dei quattro comuni serbi del Nord, Zvečan, Zubin Potok, Leposavić. Al momento i disordini non hanno riguardato Kosovska Mitrovica. Visto il livello dei disordini, con 70 militari della KFOR feriti, fra cui alcuni alpini italiani, il contingente è stato portato a 700 uomini.

Ma il problema è eminentemente politico, legato alla difficile coesistenza in Kosovo dell’etnia albanese e dell’etnia serba. In realtà i Balcani, come l’America Centrale 30 anni fa, di recente trattata in questa rubrica, si trovano, dopo la frantumazione della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia alle prese con una multietnicità complessa a cui il conflitto aperto fra gli occidentali e la Federazione Russa aggiunge un’ulteriore criticità. E qui bisogna constatare il ruolo inefficace svolto nell’area dal 1990 dai paesi membri dell’Unione europea. Prima immemori della crisi jugoslava, poi peggiorandola con la decisione tedesca di riconoscere unilateralmente a fine 1991 Slovenia e Croazia, accelerando il processo di dissolvimento della Jugoslavia, in seguito organizzando vuote intese fra i leader serbo Milosevic, croato Tudjman, bosniaco Izbegović, infine allineandosi all’iniziativa americana di eliminare Milosevic in nome della liberazione kosovara, bombardando con la NATO indiscriminatamente la Serbia. Responsabilità assunta dal governo di Massimo D’Alema per un Italia da cui sono partite, nell’indifferenza dei media, la maggior parte delle missioni di bombardamento sulla Serbia durante i 78 giorni della loro durata.

Photo: serbia.com

Oggi, rispetto all’area, se il ministro degli esteri della UE Josep Borrell invita i Balcani occidentali a candidarsi per entrare in quello che lui chiama “il giardino europeo”, e viene organizzato così in Moldova il Consiglio europeo a 70 chilometri dall’acquartieramento in Transnistria (Tiraspol) delle truppe russe, la presenza europea deve innanzi tutto acquistare forza e credibilità. Impresa problematica da parte di un’Unione che è oggi di fatto spaccata fra il bellicismo anti-russo di polacchi e baltici, pronti a procedere contro la Russia di Putin sino all’ultimo cittadino ucraino- paesi convertitisi rapidamente, nonostante la forte aura di etnonazionalismo e di illiberismo nel ferro di lancia dell’opposizione NATO alla Russia, e il famoso EuroQuad, formato da Spagna, Francia, Germania, Italia. Sono i vecchi stati-membri fondatori, con la Spagna, la “vecchia Europa”, secondo la definizione americana di Robert Kagan e Donald Rumsfeld. Oggi l’EuroQuad (il vero Quadrilateral Security Dialogue riguarda Stati Uniti, India, Giappone, Australia) si è trasformato, come dice il geopolitico italiano Lucio Caracciolo, nel “vuoto al centro” dell’Europa. Vi prevale il silenzio politico propositivo, nella congiuntura delle elezioni anticipate in Spagna, delle difficoltà interne di Macron, delle contradditorie visioni dei membri della coalizione “semaforo” in una Germania particolarmente toccata dagli effetti economici della invasione russa, e di un’Italia tanto atlantista quanto opportunista.  Si può certo intuire che i poli opposti dello spettro europeo siano segnati dalla percezione polacca e da quella francese. Francia che pur, con il presidente Macron, prima del clangore della guerra, aveva espresso l’idea di una zona di influenza europea con la creazione della Comunità Politica Europea. Zona allargata, che va oltre i soli paesi membri o candidati ad una sempre e comunque difficile adesione, per creare una zona europea di influenza. Ma per venirne fuori l’UE deve anche avere una sua sicura visione, una sua idea del ruolo da rappresentare negli affari internazionali. Oltre ad una indiscussa appartenenza alla NATO di quasi tutti gli Stati membri non si capisce oggi facilmente in cosa consista nelle relazioni internazionali la visione europea. E mancando una visione comune e condivisa, il rischio del ritorno dei nazionalismi nel continente diventa un rischio sempre più probabile, quando proprio contro di essi e il loro rigurgito si era manifestato il sogno federalista di Altiero Spinelli. Aggiungono poi perplessità al quadro le dichiarazioni ufficiali della UE sul “continuare il sostegno all’Ucraina sino all’impossibile” che forse non tengono conto che intanto sono ucraini e russi a morire, ogni giorno, al di là dei comunicati.

Di enorme gravità, poi, il recente voto dell’Europarlamento che ha approvato la relazione della Commissione denominata Act to Support Ammunition Production (ASAP) che permette ai governi nazionali di impegnare per l’acquisto di armi fondi già destinati dal PNRR agli interventi strutturali e di coesione. Come se gli europei avessero più di bisogno di bombe che di scuole o di ospedali. E noi ci domandiamo invece sino a quando? Ancora per quanto tempo? Dopo due guerre mondiali disastrose per l’Europa, una terza non potrà avere un diverso destino. Anche se, come nel 1914, oggi si parte in guerra in nome dell’Ucraina con lo spirito di un tempo contro la Germania, con “la fleur au fusil”. Ma almeno allora era una guerra europea fra grandi potenze di un continente tonico. Ora non è più così.

Carlo degli Abbati

KOSOVO: Non essendo formalmente riconosciuto dalle Nazioni Unite, il Kosovo non è censito nelle statistiche del PNUD (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo). Da altre fonti può essere descritto come un piccolo paese montuoso abitato da ca. 2 milioni di ab. disposti su di una piccola superficie di 10.905 km2 incuneata fra Serbia, Montenegro, Albania e Macedonia. La popolazione è formata in grande prevalenza dal gruppo albanese (92,9%), mentre gruppi minori sono formati da serbi, bosniaci, turchi con una percentuale ciascuno intorno all’1,5%. La particolarità del Kosovo è che la lunga appartenenza all’impero ottomano ne fa un paese a grande prevalenza musulmano, con un totale del 95,6%, mentre la minoranza cattolica e ortodossa non supera il 3,7% della popolazione. Paese di agricoltura di montagna, con qualche risorsa mineraria soprattutto in carbone che alimenta le due centrali elettriche del paese, con una presenza modesta di industrie alimentari, metallurgiche e tessili, il Kosovo presenta un tasso di disoccupazione che supera il 25% con una componente femminile del 35% e sostanzialmente sopravvive grazie agli aiuti internazionali e alle rimesse degli emigranti. Con un debito estero di 2,5 miliardi il Kosovo ha ricevuto 350 milioni USD dall’estero (2020) soprattutto dagli Stati Uniti che vi mantengono la base militare di Steelcamp. La popolazione è ancora attiva in agricoltura e nell’allevamento per il 6%, nel settore secondario per il 26,7%, per il rimanente nel terziario. Sotto il profilo geopolitico è interessante osservare che non esiste nel paese alcuna commistione territoriale fra le due componenti maggioritaria albanese e minoritaria serba. La popolazione serba vive esclusivamente in un enclave meridionale (Šprce) e in quattro zone della parte nord settentrionale del paese Kosovska Mitrovica, Leposović, Zvečan, Zubin Potok.  La “Forza per il Kosovo” o KFOR, missione della NATO operativa dal 1999 mantiene l’ordine nel paese (con una forte presenza di militari italiani), accanto alla polizia locale ed una milizia Julex formata da polacchi.

Bibliografia consigliata

  • Roberto BELLONI, I Balcani dopo le guerre. Ascesa e declino dell’intervento inetrnazionale, Carocci, Roma, 2022
  • Egidio IVETIC, I Balcani. Civiltà, confini, popoli (1453-1912), Il Mulino, Bologna, 2020
  • Fabio DI GRAZIA, Kosava. Vento di odio etnico nella ex-Jugoslavia da Tito a Milosevic, Ilmiolibro, 2016
  • Fabio DI GRAZIA, La NATO nei conflitti europei. Ex-Jugoslavia ieri, Ucraina oggi, Delta3, Grottaminarda, 2022

*Carlo degli Abbati insegna Diritto dell’Unione Europea al Dip. di Lingue e Culture Moderne dell’Università degli Studi di Genova. Già docente di Economia dello Sviluppo presso lo stesso Ateneo e di Storia dei Paesi musulmani al Dip. di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento è stato funzionario responsabile del controllo della cooperazione europea allo sviluppo presso la Corte dei Conti Europea a Lussemburgo.

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