In America Latina la scomparsa progressiva, nel corso degli Anni ’90 del Novecento, dei regimi militari che avevano sempre ottenuto dal dopoguerra il sostegno diretto e indiretto degli Stati Uniti fedeli alla dottrina Monroe, non ha comportato la scomparsa delle tensioni sociali

Tali disparità socioeconomiche si iscrivono poi nel sub-continente in un contesto di forte pressione demografica e di una crisi urbana provocata da scelte di politica economica, spesso vincolate al “Washington consensus” veicolato dai “programmi di aggiustamento strutturale”, i P.A.S., imposti dalle organizzazioni preposte alla concessione internazionale di prestiti – dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) alla Banca Mondiale – che hanno provocato l’effetto perverso di un forte esodo rurale aggravando l’esodo dalle zone “expulsoras” soprattutto andine e la formazione di un contesto di megalopoli che costituiscono la sede ideale dei conflitti sociali. Delle prime cento megalopoli mondiali, 12 sono situate in America Latina (6 solo in Brasile).

Source: University of Texas, Perry Castaneda Library Map Collection – Courtesy of the Un. of Texas Libraries, The University of Texas at Austin

Non può meravigliare questo fenomeno se si ritorna un attimo sui contenuti ultraliberisti espressi dalle condizioni imposte soprattutto nella fase dell’”aggiustamento strutturale” a breve dal FMI a dei paesi che ricorrevano a dei prestiti a causa dei loro squilibri finanziari. Si trattava di condizioni che, esaminate una a una nella loro ripetitività ossessiva, non facevano che aggravare uniformemente le forti diseguaglianze sociali già esistenti nei diversi paesi. Innanzi tutto la denominazione in dollari americani del prestito FMI e del rimborso del prestito non in valuta locale ma nello stesso dollaro, cioè in una valuta forte difficilmente reperibile. Secondo, la presa in conto del “rischio paese” nella definizione dell’ammontare del tasso di interesse applicato dal FMI, che rendeva gli oneri  dei prestiti tanto più gravosi tanto più il paese si ritrovava in difficoltà. Poi, il peso delle condizioni ancora uniformemente imposte per i prestiti a breve di aggiustamento strutturale (massimo tre anni) prima dell’intervento a più lungo termine della Banca Mondiale. La Conditionnalities’ Matrix allegata ai prestiti del FMI esprimeva sempre un approccio ultra-liberale uniformemente  neo-platonico di un organismo che, del resto, non aveva nel mondo delle filiali di informazione stabilmente presenti sul territorio e istruiva le pratiche direttamente da Washington.

I paesi sotto aggiustamento erano costretti a rivedere le politiche di bilancio, eliminando le sovvenzioni dirette spesso alimentari verso gli strati piu’ poveri delle popolazioni. Dovevano molto spesso ridurre il tasso di cambio della loro moneta nazionale, quasi sempre considerato troppo alto, con il risultato di aggravare le condizioni di sussistenza dei paesi in deficit alimentare e quindi importatori di derrate estere. Erano obbligati a rinforzare le attività di esportazione naturalmente necessarie per ottenere la valuta forte prevista per la restituzione a breve del prestito, con ciò obbligandosi ad insistere sulle sole forme di esportazioni già sfruttate, senza avere il tempo né i mezzi per una diversificazione a lungo termine. Dovevano infine privatizzare le poche attività rimaste sotto controllo pubblico.

La debolezza poi del tessuto industriale, dovuto alla eredità coloniale, che conduceva alla importazione di manufatti dalla madrepatria è particolarmente evidente nel contesto andino, in America Centrale e nelle Antille. Solo parzialmente compensato dalle politiche economiche di esportazione delle materie prime e dei prodotti agricoli avviate in Bolivia (rame e stagno), Venezuela (petrolio), Colombia (caffè), Ecuador (banane, petrolio), Honduras (banane). Nelle Antille, la economia di piantagione ha poi continuato a pesare sulle bilance commerciali anche se più di recente si sono avviate delle colture sostitutive.

Ciò ha determinato, in particolare nelle zone urbane, la creazione di un vasto settore “informale”, di mercato nero, di economia sommersa, che consente in gran parte la sopravvivenza delle popolazioni, mentre in zona rurale la rottura del cartello internazionale del caffè, provocato negli Anni ‘80 dagli importatori nordamericani e perfettamente tollerata dal governo Reagan, ha comportato con il crollo delle remunerazioni dei produttori un enorme sviluppo nelle regioni andine della produzione di coca o marjuana.

La situazione descritta ha inevitabilmente provocato una grande disparità di crescita fra paesi e anche all’interno dei diversi contesti regionali.

Mentre, nonostante la enorme disuguaglianza nella distribuzione interna della ricchezza, Brasile e Messico fanno ormai parte delle grandi potenze economiche mondiali, i paesi andini, le Antille e i paesi di America Centrale sono ancora afflitti da gravi situazioni di povertà e sottosviluppo.

In questo quadro, la ricerca di messa in atto o rinvigorimento dei vari e numerosi programmi di integrazione regionale (dal Mercato Comune Centroamericano al Mercosur per non citare che i due più noti) appaiono più concorrenti che complementari. Soprattutto la questione sociale sembra minacciare l’avvenire delle politiche economiche fortemente liberali che, sotto la pressione del FMI e della Banca Mondiale, sono state tentate, da circa un trentennio sino ad oggi, quale ricetta esclusiva di crescita economica e che non appaiono neppure messe seriamente in discussione a seguito della recente crisi finanziaria ed economica mondiale del 2008.

In questo quadro di dominante liberismo, peraltro, il tentativo statunitense di estendere la zona di libero scambio NAFTA – North America Free Trade Area – all’intero continente attraverso l’ALCA, l’area di libero commercio delle Americhe, è al presente fallito. Di fatto configurandosi, sin dall’inizio, più come una nuova “dottrina Monroe”, che fissava sin dal 1823 con il famoso “America to Americans” un protettorato di fatto degli Stati Uniti sull’intero “emisfero occidentale”.

Tale progetto ha subito una battuta d’arresto nel 2005, certo per l’opposizione del Venezuela e anche del Brasile: alla conferenza conclusiva di Mar del Plata, arricchita dalla significativa presenza di Eduardo Galeano, l’appello lanciato da Hugo Chavez “Al-CA AL-CA AL-CARAJO” (L’ALCA al diavolo!) divenne subito un enorme coro ripreso dai presenti. Ma all’insuccesso non è estranea anche la inveterata tendenza del governo americano a preferire alle intese regionali degli accordi di libero scambio bilaterali nell’ambito dei quali poter fare pesare di fronte ai singoli paesi il proprio strapotere economico (accordi bilaterali con l’America centrale, la Repubblica Dominicana, la Colombia e il Perù). Il fallito accordo potrebbe segnare comunque l’inizio di una progressiva perdita della influenza degli Stati Uniti sulla parte del continente a sud del Rio Grande, vecchia di più di un secolo, secondo le tendenze regionali che indichiamo di seguito.

   Minoranze autoctone di Centro-sud America e  crisi del “Washington consensus”

Quando nel 1534 giunge a Sevilla il gigantesco riscatto che Francisco Pizarro ha fatto pagare all’imperatore inca Atahualpa, prima di garrottarlo e poi decapitarlo – si tratta dell’equivalente di una stanza piena d’oro e di due stanze piene di argento – nessuno avverte nella Spagna della Conquista, che aveva brillantemente conquistato alla Fede cattolica un immenso nuovo territorio, che il mondo è confrontato alla fine di un’epoca. Quello che sarà chiamato nei libri di storia europea l’avvento dell’Evo Moderno, a seguito della avventura colombiana, segna invece per i popoli delle nuove terre attraverso la storia della colonizzazione la continuazione nell'”altrove” del più oscuro Medio-Evo europeo, del resto consacrato dalla introduzione nelle colonie di istituzioni feudali come il latifondo, in progressivo superamento nelle lontane madrepatrie. In questo modo, nei paesi del Nuovo Mondo, “specializzati per rimetterci”, il mercantilismo delle teorie economiche, il feudalesimo delle istituzioni e la schiavitù delle popolazioni si fondono in un durevole sistema economico e sociale perpetuato senza troppe varianti sino ad oggi.

Ma, più in generale, la ricerca esclusiva dei beni materiali, delle risorse minerarie, dell’oro e dell’argento, l’incasso del valore aggiunto ottenuto dal lavoro degli schiavi prima locali e poi importati nella economia di piantagione, la affermazione di metodi esterni di creazione del valore economico che disprezzano totalmente l’esigenza della maggioranza delle popolazioni native di preoccuparsi di una economia che innanzi tutto assicuri loro la sopravvivenza, la perversione voluta dei sistemi comunitari preesistenti sacrificati ad una politica di conquista e spoliazione, segnano, a partire dal periodo delle grandi scoperte geografiche, il definitivo divorzio della politica economica europea dall’etica e dalla morale pubblica.

Se, prima, il dibattito filosofico era ancora aperto nelle grandi scuole fra sofia e techné, se lo spazio dello spiritualismo religioso riusciva ancora a condizionare l’homo economicus, con il periodo delle scoperte si chiude in Europa un periodo della storia economica e il continente si avvia definitivamente verso una logica in cui l’individualismo economico diventa la molla motrice del futuro capitalismo. Ad esso certo attribuiva un sostegno diretto sia il puritanesimo religioso e il mito di una Città di Dio in cui non c’era spazio, in quanto non eletti, per i miserabili, sia le teorie filosofiche dell’empirismo inglese, degli Hobbes, degli Hume, dei Locke. Le fortune individuali espresse nelle forme monetarie assumono il primato come riferimento ideologico, la ricchezza espressa nel segno monetario, di fatto totalmente svincolata dal valore del territorio e solo parzialmente occultata da qualche pratica esteriore, si converte nel vero vitello d’oro da adorare durante la vita di ciascuno, l’espressione cifrata del valore degli individui. E furono proprio i metalli strappati ai nuovi domini coloniali a rendere possibile un tale tipo di sviluppo economico europeo. In una agostiniana confusione dei mezzi con i fini, si inserisce nel quadro complessivo l’inizio del disprezzo dei valori comunitari culturali di tipo solidale per avviare a partire da una società divenuta mercantile il trionfo del nuovo capitalismo economico, poggiato appunto sulla progressiva formazione di un mercato mondiale e sullo sfruttamento senza limiti delle nuove colonie. Di fronte al moltiplicarsi della circolazione monetaria, resa possibile dall’affluire delle nuove risorse coloniali, i rapporti sociali mutano progressivamente nella affermazione nota di una nuova classe “borghese”, dotata di mezzi economici e di un proletariato che, privato progressivamente dei mezzi di sussistenza attraverso un lungo processo di spossessamento, si trova a costretto a vendere in cambio di un salario, con la propria forza lavoro, l’ultima residua ricchezza posseduta. Si affermano le classi, definite secondo il loro rapporto con i mezzi di produzione posseduti, in particolare in capitale. E, a differenza di quanto avveniva nelle economie di sussistenza o in quelle finalizzate al consumo signorile, come osserva Franco Volpi ” la riproduzione del sistema economico proprio del capitalismo è riproduzione allargata, ossia su basi capitalistiche sempre più ampie: il capitale viene impiegato con l’obiettivo primario della sua auto-espansione”. Il resto è noto, sino alla crisi sistemica del 2008. Il sistema capitalistico più recente, svilendo sempre di più il valore dell’apporto del lavoro al sistema produttivo, privilegiando esclusivamente il capitale sino a sboccare nelle forme attuali di capitalismo finanziario, non riconoscendo più la giusta mercede in nome di risparmi di costi produttivi possibili con delocalizzazioni di attività in zone a scarsa protezione sociale, secondo l’approccio del “toyotismo” imperante, si allontana sempre di più dai valori di democrazia solidale.

Gli uomini si ritrovano progressivamente stritolati dalla assenza di regole imposte alla logica di funzionamento dei mercati, lasciati operare in totale spregio del fenomeno – pur conseguenza inevitabile di ogni processo produttivo – della creazione di economie esterne e diseconomie esterne ripercosse sulle comunità e sul territorio – sino alla condizione presente di giovani esclusi dalle prospettive di lavoro dalle decisioni dei consigli di amministrazione societari, tese alla ricerca di profitti consolidati sempre più elevati, ad esclusiva remunerazione dei capitali versati dagli azionisti. Effetto inevitabile di una globalizzazione, oggi peraltro messa in crisi dalla contrapposizione USA/ Russia-Cina, voluta comunque senza regole nell’interesse di pochi gruppi oligopolistici – all’origine delle corporations transnazionali nordamericane influenzanti il governo di Ronald Reagan – fondata sulla sconnessione delle identità dai territori, dei territori dalle economie, delle economie dagli stati, cui fa da corollario l’ineguaglianza distributiva.

Questa lunga premessa solo per ricordare che, senza lo sbarco dei Conquistadores nelle terre americane, la formazione di questa immensa periferia e il plurisecolare sfruttamento di quelle terre lontane, “momento essenziale della accumulazione originaria”, come direbbe Marx, l’Europa non avrebbe mai potuto inventare l’attuale capitalismo e collocarsi al centro del nuovo sistema unico mondiale.

Ma oggi, dopo secoli, per i discendenti degli amerindi, degli schiavi sfruttati, del mondo infinito dei “non-pudientes” latino-americani, sembra essersi aperta quasi d’incanto una nuova fase storica.

Votando vent’anni fa nel 2002 per Luis Inácio da Silva detto “Lula”, quasi riprendendo l’eredità storica riformatrice di Getulio Vargas, i brasiliani che lo hanno di recente rivotato hanno dato il là alla riscossa dell’elemento indigeno e allo stesso tempo alla uscita del subcontinente dalla logica dello sviluppo definito secondo i criteri neo-liberisti voluti dal potente vicino nordamericano.

Alla soglia della esplosione di un conflitto di minoranze certamente sanguinoso, dovuto alle conseguenze sociali estremamente negative che tali modelli di sviluppo facevano pesare sulle categorie meno abbienti delle popolazioni e quindi sulle comunità indigene in particolare, spesso analfabete e marginalizzate nelle votazioni sino a costituire tradizionalmente delle entità di scarsissimo peso politico, va dato merito alle comunità indigene di avere scelto quale risposta alle loro condizioni di sfruttamento e di miseria non la via del conflitto armato alla colombiana, ma la logica dell’entrata democratica nella lotta per il potere politico. Armando contro “los pudientes” la semplice arma del voto, della scheda elettorale, avendo ormai capito che senza una effettiva partecipazione alla lotta politica, la battaglia della emancipazione era comunque perduta in partenza.

Si abbandonava in questo modo la via argentina di Carlos Menem (1989-1999) che aveva rapidamente portato al dissesto di questo paese, buon allievo con la sua famosa “dolarización” delle logiche liberal-monetaristiche imposte dal FMI, secondo un modello che doveva poi ripetersi in Ecuador ed essere anche alla origine della forte emigrazione ecuadoriana verso l’Europa – soprattutto Spagna e Italia -e gli Stati Uniti.

Con “Lula” e il suo PT (Partido dos travalhadores) per la prima volta si affermava una compagine politica che portava in primo piano l’esigenza di risolvere i cronici problemi sociali del paese, ma anche di dare un contributo nella lotta contro le ineguaglianze e la fame sul piano mondiale.

La elezione di Lula ha innescato una serie di vittorie della sinistra e di una sinistra rappresentativa e in alcuni casi votata per la prima volta massicciamente dalle comunità indigene, con Nestor Kirchner in Argentina nel 2003, Tabaré Vazquez in Uruguay nel 2004, Evo Morales in Bolivia nel 2005, Michelle Bachelet in Cile, Rafael Correa Delgado in Ecuador nel 2006, del sandinista Daniel Ortega in Nicaragua nel 2007, di cui oggi si deve peraltro condannare l’autoritarismo. Mentre caso piu’ recente la conquista in El Salvador nel 2009 della presidenza da parte di un rappresentante, il noto giornalista Mauricio Funes, del partito di sinistra FMLN (Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional) tradizionale protagonista della guerra civile nel paese fra il 1979 sino al 1992.

Mentre, a parte il caso a sé stante di Cuba che cercava di perpetuare anche dopo la morte del suo leader un modello sociale rivoluzionario, si delineava l’importante tentativo in Venezuela, da parte di Hugo Chavez Frías, di avviare nel paese un’ importante anche se controversa riforma che, basata sulla ideologia dell’argentino Ceresole e del nazional-populismo sudamericano degli anni ’20 nel quadro di un forte posizionamento anti statunitense, intendeva di fatto realizzare una nuova forma sudamericana di socialdemocrazia partecipativa. E’ sua l’ALBA, l’iniziativa bolivariana per l’America latina, che intende innanzi tutto sottrarre i paesi latinoamericani all’egida anche finanziaria statunitense, facendo aggio sulla messa a disposizione dei capitali tratti dal commercio del petrolio venezuelano, di recente nazionalizzato.

Nel contempo, si moltiplicano nell’America centrale e meridionale degli sforzi di integrazione regionale che costituiscono dopo il fallimento dell’ALCA un allontanamento di fatto delle due sub-regioni dalla egemonia statunitense. Sotto questo profilo, è significativa, anche se con sviluppi oggi problematici appunto la recente riconquista del potere in Nicaragua, a distanza di undici anni, da parte del leader sandinista Daniel Ortega. Mentre lascia più che perplessi la posizione statunitense dopo il recente colpo di stato condotto in Honduras nel 2009 contro il Presidente Manuel Zelaya da una giunta golpista.

L’8 dicembre 2004, i capi di stato di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Ecuador, Guyana, Paraguay, Perù, Suriname, Uruguay e Venezuela hanno così sottoscritto con la Dichiarazione di Cuzco la creazione della Comunità Sudamericana delle Nazioni (CSAN), che privilegia la liberalizzazione degli scambi e l’apertura delle frontiere, ma che, prendendo come riferimento l’Unione Europea, intende raggiungere una vera e propria forma di integrazione politica fra i paesi partecipanti. Nel maggio del 2008 i presidenti dei paesi partecipanti hanno voluto rinforzare, secondo le linee dell’accordo già definito a Cochabamba in Bolivia due anni prima, tale processo di integrazione avviando la fondazione della Unione sudamericana delle nazioni (UNASUR) il cui obiettivo strategico è proprio, come indica il nome, la costituzione di una Unione sudamericana delle Nazioni.

Si tratta dell’ultimo passo nel rinnovo in atto della carta geopolitica dell’America latina. Dotata di un Parlamento a Cochabamba e di un segretariato generale a Quito, la nuova entità raggruppa una popolazione di 390 milioni di persone su di una superficie di 17,7 km2, che costituisce quasi la metà dell’intero continente.

Tali nuovi dirigenti hanno trovato al momento del loro ingresso una congiuntura economica divenuta più favorevole. Dopo le crisi finanziarie degli anni ’90 (tra cui la crisi brasiliana del 1999) e un inizio di secolo segnato dalla crisi argentina, una chiara ripresa si è disegnata nella sub-continente a partire dal 2003-2004 segnando tre anni consecutivi di crescita sino al 2005 (4,5% in media all’anno).

La forte domanda di materie prime e in particolare l’aumento dei prezzi petroliferi hanno consentito per lunghi periodi a paesi quale il Venezuela, il Cile, l’Ecuador, il Perù e la Bolivia di proseguire un certo livello di crescita.

Ma anche se il PIB nel continente è aumentato per il periodo 2003-2006 dell’11%, il bilancio risulta molto più modesto se riferito agli ultimi 15 anni. Se ci riferiamo alle statistiche della Banca Mondiale, la povertà è leggermente regredita in America Centrale (dal 30 al 29% della popolazione), mentre è aumentata nei paesi andini (dal 25 al 31%) e risulta in diminuzione solo nei paesi del Cono Sud (dal 24 al 19%) che sembrano meglio adattarsi alle sfide posta dalla globalizzazione.

Non è quindi sorprendente che il continente proceda a un tasso di crescita inferiore sia ad altri quadranti (Asia) sia a certi paesi sviluppati.

Nondimeno, va notato che nonostante fratture e divisioni, il sub-continente sta avviandosi in maniera chiara verso un sistema di “governance” a livello locale e regionale che, basandosi sulla vivacità della società civile, simbolizza la integrazione del continente al movimento di mondializzazione e ai dibattiti originati nell’ambito di questo movimento.

Come hanno del resto chiaramente dimostrato i vertici di Monterrey (2004) e Mar del Plata (2005). Ma anche la citata Unión de Naciones Suramericanas (UNASUR) che appena. costituita ha conosciuto il suo battesimo di fuoco nel maggio 2008, con la convocazione di urgenza da parte del Cile al fine di analizzare la crisi interna in Bolivia; ovvero un Gruppo di Rio che ritrova tutta la sua efficacia di concertazione politica, nonostante la sua larghissima composizione (tutti i paesi del Centro e Sud-America più il Messico), offrendo in tal modo anche alla sempre più impacciata Unione Europea, progressivamente regredita, malgrado il suo importante sotto-insieme rappresentato dai paesi dell’EURO, a una  cooperazione conflittuale fra 27 stati sovrani politicamente “auto-eludentisi”, un significativo esempio, quello, per dirla alla inglese, che “where there is the will, there is the way”.


Schizzo delle coste settentrionali dell’isola di Hispaniola eseguito da Cristoforo Colombo (1492) dagli “Autógrafos de Colón”, della Duchessa d’Alba

Da ultimo occorre osservare che pesa comunque sul sub-continente latino-americano un problema di fondo. Secondo un sondaggio dell’Istituto Latinobarometro meno della metà (48%) dei latino-americani crede oggi nella democrazia. Perché ancora oggi manca la fiducia nella democrazia? Anche in Cile non manca la nostalgia del “pinochismo”, l’idea che il colpo di stato del 1973 sia stato una liberazione dal rischio che il Cile si buttasse nelle braccia della Russia. Del resto il presidente di sinistra Gabriel Boric è stato di recente eletto ma il progetto di Costituzione da lui presentato è stato invece respinto lo scorso settembre 2023 come se la popolazione cilena avesse paura di provare un vero cambiamento.

E’ un fenomeno che dobbiamo cercare di spiegare. La sfiducia nella democrazia è innanzi tutto la conseguenza delle disuguaglianze. Più la distribuzione interna della ricchezza è diseguale, meno esiste un consenso per la democrazia. Più la diseguaglianza sociale crea una eterogeneità di condizioni di esistenza, più il sentimento comunitario di appartenenza si indebolisce. Ora nell’intero corso del XX secolo, ciascuna esperienza di democrazia progressista in America Latina si è urtata ad un duplice ostacolo. Il ricorso ai prestiti del FMI da parte di governi appena usciti dalle dittature ha ulteriormente aggravato le condizioni di disparità interna a causa dei contenuti ultraliberisti- riduzione della spesa pubblica e privatizzazioni – delle condizioni imposte dal FMI per la concessione dei prestiti. Questa circostanza non poteva che lavorare nel senso di un’erosione del consenso popolare delle élites democratiche appena giunte al potere.  Sono ben lontani i tempi in cui l’obbiettivo della Banca Mondiale era il sostegno dei programmi rurali integrati (PRI) voluti da Robert Mc Namara rivolti alla produttività e alle condizioni di vita nelle campagne. In questo modo la consolidazione della democrazia ha perpetuato delle politiche neoliberali che non hanno migliorato ma aggravato ulteriormente le ineguaglianze preesistenti. Il secondo ostacolo è costituito dalla opposizione sempre esercitata dalle oligarchie interne frutto diretto della situazione coloniale, sfruttanti da secoli per esempio l’assenza di un accatastamento rurale. Oligarchie che spesso agivano in alleanza con delle potenze straniere come gli Stati Uniti per soffocare ogni tentativo di cambiamento (industrializzazione, cambiamenti produttivi, sfruttamento di nuove risorse capaci di alterare lo status quo dominante). Caso di scuola il Guatemala, paradigma storico dello sfruttamento coloniale spagnolo. Il candidato progressista Bernardo Arevalo, eletto il 20 agosto 2023, sta subendo degli attacchi tanto violenti da rendere quasi improbabile il passaggio dei poteri in questo paese. La sua storia ricorda la vicenda vissuta negli anni ’50 del secolo scorso dal presidente eletto Jácobo Arbenz Guzmán nato a Quetzaltenango, eletto nel 1951. Aveva tentato una riforma agraria che toccava direttamente gli interessi della oligarchia terriera in un paese privo di catasto rurale e della multinazionale nordamericana United Fruit. Doveva essere nel 1954 defenestrato da una giunta militare capeggiata dal Col. Carlos Castillos Arma ed appoggiata dai bombardamenti organizzati dalla CIA nella operazione “Prefortune”, il primo intervento miliare diretto degli Stati Uniti nella regione centroamericana del dopoguerra.

Eppure oggi la grande sfida delle democrazie latino-americane risiede essenzialmente nella riduzione delle diseguaglianze. Attraverso le due grandi vie che del resto sta seguendo il Brasile della seconda presidenza Lula: la riforma fiscale che consenta una vera partecipazione basata sulle reali condizioni contributive dei cittadini e una effettiva redistribuzione delle terre. Del resto il Covid ha accentuato i divari di reddito pro capite e povertà multidimensionale a livello mondiale. I Paesi più diseguali – con indice di Corrado Gini superiore o prossimo a 50 – si trovano proprio nel centro-sud America oltre che nell’Africa sub-sahariana. Tutti i paesi latino americani hanno un indice di Gini superiore a 40 – alcuni come il Brasile e la Colombia o il Belize addirittura superiore a 50- , come anche Turchia (41,9), Stati Uniti (41,5), Iran (40,9) e, in Europa, Bulgaria con 40,3.

Complessivamente i dati mostrano che il 10% di popolazione più ricca del pianeta possiede il 76% della ricchezza e il 52% del reddito, mentre il 50% più povero possiede il 2% della ricchezza e l’8% del reddito, evidenziando disuguaglianze di ricchezza più pronunciate rispetto a quelle di reddito.

In contrasto a quanto previsto dal decimo obiettivo  dell’Agenda Onu, che, entro il 2030, si impegna a livello internazionale a far crescere il reddito del 40% più povero della popolazione di ciascun Paese, adottando politiche, fiscali, salariali e di protezione sociale più eque. Per fare un confronto l’Italia ha una distribuzione reddituale meno disuguale rispetto ai paesi latino-americani, ma a livello europeo occupa la 21esima posizione su 27, con un coefficiente di Gini pari a 0,29 nel 2022, in diminuzione rispetto all’anno precedente (30,4) anche grazie all’insieme delle politiche sulle famiglie. La disuguaglianza reddituale presenta un andamento crescente dal 2011 (indice di Gini 29,8) e raggiunge il massimo valore nel 2020 (30,5), anno in cui si inverte la dinamica.Il 66% della ricchezza nazionale e posseduta dal diecile piu’ ricco, mentre il 20% più povero ne detiene solo il 4%. Questo divario si traduce in differenze di accesso all’istruzione, alla salute, al lavoro e alla partecipazione politica.

Sebbene gli interventi pubblici diretti a sostenere il reddito delle famiglie ne abbiano attenuato la dinamica, la povertà assoluta e multidimensionale cioè dipendente da piu’ fattori negativi è progressivamente aumentata raggiungendo i valori massimi nel biennio 2020-21. La situazione è aggravata da una polarizzazione dei redditi, con un aumento contemporaneo degli individui più ricchi e di quelli più poveri.

Sono gli stessi problemi che in un quadro ulteriormente aggravato devono affrontare proprio i paesi di America Latina, partendo quasi sempre da condizioni di inesistenza di un catasto rurale assicurante la definitiva attribuzione della proprietà delle terre.

Carlo degli Abbati

Bibliografia consigliata

-Franco Volpi, Lezioni di Economia dello Sviluppo, Franco Angeli, 2016

-World Inequality Report, 2022

-World Gini Index, World Bank, 2022

Carlo degli Abbati insegna Diritto dell’Unione Europea al Dip. di Lingue e Culture Moderne dell’Università degli Studi di Genova. Già docente di Economia dello Sviluppo presso lo stesso Ateneo e di Storia dei Paesi musulmani presso il Dip. di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento, è stato funzionario responsabile del controllo della cooperazione europea allo sviluppo presso la Corte dei Conti Europea a Lussemburgo.

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