L’intricato evolversi della situazione all’interno della Libia, dopo la destabilizzazione occidentale risalente al 2011 del regime del colonnello Muammar al-Gheddafi per iniziativa franco-anglo-americana, ha messo in luce di recente la forte presenza nel Paese della Turchia di Recep Tayyip Erdoğan. Un paese che figura fra i protagonisti del nuovo scramble for Africa condotto verso un continente dove sono presenti fra il 40 e l’80% delle riserve minerarie mondiali, metalliche e non
Questo nuovo protagonismo turco in Africa, che si estende anche dal 2002 oltre la regione di tradizionale influenza ottomana, la zona costiera mediterranea sino alla regione sub-sahariana – nelle carte ottomane l’Africa equatoriale era indicato con il simbolo della “morte cicca” – va chiaramente interpretato. Innanzi tutto con riferimento al quadro mondiale, nel quale l’ordine globale promosso dopo la seconda guerra mondiale dalla amministrazione americana, basato su di un sistema di sicurezza integrato e garantito da un insieme di alleanze e di aperture commerciali, ha subito negli ultimi 70 anni dei profondi adattamenti. I nuovi assetti hanno permesso a dei Paesi occidentali e non di beneficiare del sistema emergendo come outsider: la Turchia, la Cina, l’India, la Russia, il Giappone, il Brasile, il Sud-Africa. In particolare la Turchia. Paese a cavallo di Europa e Asia, sovrano degli stretti di accesso al Mar Nero, membro della NATO, associato alla UE dal 1963 e in eterna attesa, dal 1987, secondo una procedura di ammissione come Stato membro a pieno titolo, sempre ipocritamente rinviata dagli organi comunitari, la Turchia si è affermata negli ultimi decenni come attore dalle dimensioni non solo regionali.
Secondo un nuovo concetto di profondità strategica, innovatore per una potenza tradizionalmente continentale come l’Impero ottomano, la Turchia ha progressivamente concepito un concetto multi-vettoriale per la difesa dell’Anatolia che passa anche per i mari, dal Mediterraneo al Mar Rosso, secondo la teoria della Patria blu (la Mavi Vatan dell’ammiraglio Cem Gürdeniz) e si spinge sino al Corno d’Africa, all’Oceano indiano, e, nell’ambito continentale, ai paesi del Caucaso e dell’Asia centrale, con l’importante appendice dei buoni rapporti acquisiti con il Pakistan, abituale controllore della politica interna dell’Afghanistan, dall’agosto 2021 in mano ai talebani, dopo l’ignobile ritirata dal paese degli alleati occidentali. Per quanto riguarda l’Africa, in successione la politica turca ha visto l’apertura verso i paesi dell’area sub-sahariana (2003-2011), l’intervento come mediatore nella crisi somala (2011), la progressiva penetrazione ed il suo positivo interventi nei conflitti della regione del Corno d’Africa secondo i principi dell’Afrika Consensus, nonché una presenza attiva nel Mediterraneo a difesa degli interessi turchi sino al decisivo intervento effettuato in Libia fra il 2019 e il 2020 a sostegno del governo di Tripoli presieduto da Hafez el-Serraj, riconosciuto dalle Nazioni Unite.
La Turchia in realtà nella sua penetrazione in Africa può contare su degli atout molteplici. Possiamo citarne solo alcuni. Innanzi tutto è un paese musulmano sunnita come lo sono molti paesi della regione. Ancora, l’impero ottomano non è assimilato storicamente dalle popolazioni africane con i colonialisti europei avvezzi a sfruttare le ricchezze naturali del continente. Inoltre, la penetrazione riguarda anche il quadro umanitario, data la forte presenza tradizionale nel settore educativo africano delle iniziative del movimento religioso e sociale del predicatore turco islamista Fethullah Gülen, oggi divenuto peraltro il principale oppositore del presidente Erdogan. Ancora, si aggiungono le diverse forme di cooperazione decentralizzata proposte dalla Turchia nei confronti delle élites africane in campo economico e non, la capillare presenza dei voli della compagnia di stato turca Turkish Airlines, l’estrema efficacia della collaborazione turca in campo militare, esemplificata dal successo commerciale del drone interamente turco Bayraktar TB2 che ha espresso tutta la sua efficacia in molti quadranti, da ultimo in Libia, in Azerbaigian ma anche in Ucraina. In questo modo, aggiungendo la Turchia di Erdoğan un nuovo asse ai tre tradizionali assi della politica estera ottomana, Balcani e Mar Nero, confronto verso est con i Safavidi persiani, presenza in un Mediterraneo tradizionalmente conteso con francesi e britannici, la Turchia è definitivamente entrata nello scramble for Africa in competizione con i paesi occidentali e non, Europa e Stati Uniti, Cina, Russia. Un quarto outsider che ha peraltro più carte da giocare di tutti i suoi competitori, se si esclude l’irraggiungibile livello finanziario dell’investimento cinese.
Anche nei confronti dei paesi africani del Mediterraneo, come la Tunisia e la Libia, paese in cui la presenza turca in Tripolitania si è fatta evidente come prima citato. Conseguendone l’immediato vantaggio di un accordo di estensione dei confini marittimi con l’accordo turco-libico del 27 novembre 2019 diretto ad impedire la fattibilità del progetto EASTMED che avrebbe convogliato dalla zona di prospezione contesa israelo-greco-cipriota-egiziana, un quadrante di 150 km2 posto a sud-ovest dell’isola di Cipro, il gas naturale del Mediterraneo verso l’Europa, secondo un’intesa escludente la Turchia. Un intervento turco in Libia che ha anche giocato sulla rinunzia dell’Italia ad intervenire militarmente nel 2019 per impedire l’offensiva strategica a partire dalla Cirenaica, contro il governo di Tripoli riconosciuto dall’ONU, del gen. Khalifa Haftar, appoggiato dall’Egitto e dagli EAU. Rinunzia che ha riguardato più ampiamente anche il ruolo prioritario nel Mediterraneo, cui l’Italia era stata destinata dopo il ritiro americano dall’area. Vuoto di iniziativa geopolitica a cui l’ancora indefinito ”Piano Mattei”, immaginato dall’attuale governo Meloni, dovrebbe porre in futuro rimedio, non essendo sperabilmente orientato al solo obbiettivo della contrazione dei flussi di emigrati. Unico tema a sollevare sinora l’attenzione della asfittica politica mediterranea dell’Italia.
L’intervento turco è stato condotto secondo la strategia quasi speculare di un paese che, detto in soldoni, non ha paura di agire a tutela dei propri interessi malgrado l’appartenenza ad un preciso sistema di alleanze ed esprime una visione nazionale di lungo respiro che può insegnare molto ad altri paesi europei che hanno smarrito da tempo il senso di una politica estera fondata su di un minimo di autonomia strategica. Per dipendere esclusivamente dalle scelte di un Occidente i cui limiti di influenza si stanno però riducendo in maniera sempre più evidente a “pelle di zigrino”, come citato nel famoso romanzo di Honoré De Balzac. Per rischiare, gli stati europei, domani di restare coinvolti nella “trappola di Tucidide” di cui ci ricorda il Belfer Center di Harvard. Magari scattata per la seconda volta …nel Golfo del Tonchino. Ovvero, nello stretto di Taiwan. Rischio che evidentemente concerne molto meno la politica turca, pur se paese membro della NATO. Ma paese alleato, non allineato alle scelte del paese preminente di questa Alleanza.
Carlo degli Abbati
Bibliografia consigliata
- Federico DONELLI Turkey in Africa. Turkish Strategic Involvement in Sub-saharan Africa, IB Tauris, Londra, 2021
- Federico DONELLI, Sovranismo Islamico. Erdogan e il ritorno della Grande Turchia, Luiss Un. Press, Roma, 2019
- Carlo degli ABBATI, Libya Past and present. Tribes and Militias in the Libyan Fate, Stefano Termanini, Genova, 2022
*Carlo degli Abbati insegna Diritto dell’Unione Europea al Dip. di Lingue e Culture Moderne dell’Università degli Studi di Genova. Già docente di Economia dello Sviluppo presso lo stesso Ateneo e di Storia dei Paesi musulmani al Dip. di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento è stato funzionario responsabile del controllo della cooperazione europea allo sviluppo presso la Corte dei Conti Europea a Lussemburgo.