Le influenze della cultura islamica del tempo sulla Divina Commedia e “l’affaire Beatrice”
Nel passato si è affrontato più volte il rapporto del pensiero di Dante con la cultura islamica. Al tempo di Dante in tutto l’Occidente prevaleva la rimozione dell’Islam, cioè la negazione sistemica dei legami dell’Occidente con la religione musulmana: il cosiddetto “oblio” dell’Islam, conseguenza dell’etnocentrismo cristiano che introdurrà lo spirito delle diverse Crociate in Terra Santa. Questo confinamento dell’Islam nell’alterità da combattere avviene in particolare proprio dal XIV secolo, cioè dall’epoca dantesca. Prima valeva il paradosso geoculturale dell’Occidente dove la cristianità latino-occidentale degli europei latinofoni (nutrita dai filosofi arabi tradotti, soprattutto Aristotele e i suoi commentatori, fra la seconda metà del XII secolo e la prima metà del XIII secolo) si contrappone alla cristianità orientale di Bisanzio fondata sulla filosofia ellenica e quindi pagana. Sino ad allora l’Alto Medio Evo vive invece immerso in una cultura plurale che, ignorando scientemente i fondamenti teologici della religione musulmana, si alimenta peraltro di curiosità per la superiorità tecnologica che la primavera delle traduzioni dall’arabo aveva rivelato a partire dalla riconquista di Toledo (1085).
Ci si interessava alla Perspectiva di Alhazen, fondatore dell’ottica moderna, all’algebra di al-Kwarizmi, alla medicina di Avicenna, agli scritti dei suoi predecessori al-Farabi e Avempace, alla astronomia di al-Zarqali o Albumasar, alla alchimia di Jabir. Era questo l’humus culturale in cui l’ecumenismo mediterraneo legava la Baghdad della “casa della saggezza” (Bayt al-Hikma) a Oxford, a Parigi, alla Spagna o alla Sicilia, impregnando i dotti del tempo e i suoi vagantes (chierici girovaghi, ndr).
Quindi, se l’opera di Dante esprimeva la più aspra e totale condanna contro l’Islam, dipingendo nell’Inferno Maometto e Alì come rappresentanti di un credo eretico e scismatico e rappresentando le moschee “vermiglie come se di foco uscite” (Canto VIII, 70-72), il pensiero arabo-islamico era invece diffuso come conseguenza culturale nel patrimonio dotto del tempo. È in questo senso che va letta la similitudine di certi passaggi riguardanti il viaggio ultraterreno di Dante nella Divina Commedia con il Viaggio Notturno del Profeta, la cui versione di Ibn ‘Abbas nella traduzione di Domenico Guindisalvi (Liber schalae Machometi) su incarico del re di Spagna Alfonso X el Sabio viene conosciuta in Occidente dal 1264. Partendo da due versetti coranici (Q.17:1 e Q. 53:1-18), la tradizione islamica tramanda che in una notte Muhammad abbia compiuto un viaggio miracoloso, prima orizzontale a cavallo di Buraq, dalla Mecca a Gerusalemme (isrà) e poi verticale sino all’empireo, il cielo in prossimità del Trono di Dio (mi’raj) in compagnia dell’arcangelo Gabriele, traversando sette cieli come sette erano i cieli dell’astronomia antica che contenevano i pianeti. Non avendo bisogno di mondarsi del peccato originale sconosciuto nell’Islam, Muhammad non attraversa fisicamente il baratro infernale, semplicemente lo sorvola, ma la descrizione della Gehenna offre degli aspetti molto simili a quelli della Commedia. Chiusa la terrificante visione dell’Inferno, nel settimo e ultimo cielo avviene l’incontro con il Creatore e Gabriele scompare, sostituito dall’angelo Michele (come nello stesso punto della Commedia Beatrice è sostituita da San Bernardo). Poi Muhammad comincia la discesa durante la quale incontra Mosé e solo nell’ultimo stadio della discesa entra nell’Eden, il giardino (Janna) paradisiaco; infine, risalito su Buraq, torna alla Mecca. Un parallelismo stupefacente con la Commedia emerge dal Viaggio Notturno. Una somiglianza nella descrizione dei luoghi, delle pene e dei premi ultramondani. Ma anche, Muhammad come Dante, ha una visione beatifica: sia Dante che Muhammad effettuano il viaggio col proprio corpo, Muhammad è un vero Profeta e Dante si atteggia a Profeta.
Ma una differenza c’è: Dante nel suo viaggio ultraterreno, che diventa l’allegoria della sua esistenza di esule in cerca di una pacificazione spirituale, acquista sempre più consapevolezza di un destino di vate, che ha però in prospettiva una riforma politica. Muhammad invece compie un viaggio che è una catarsi miracolosa esclusivamente spirituale.
Ma un altro mistero aleggia sulla Divina Commedia: la figura di Beatrice. Percepita come Donna angelicata dal Poeta, fu vissuta così anche nella realtà o venne invece trasfigurata nel quadro di una finzione letteraria retrospettiva, come indicato fra gli altri da studiosi come Massimo Campanini? Non fu al contrario nella realtà l’amore giovanile per Beatrice, in origine carnale, sentimento che solo dopo la morte della donna (1290) il poeta trasfigurò facendo di lei una “madonna” in senso religioso per conquistare teosoficamente la vicinanza a Dio? Anche prima della crisi esistenziale che lo sconvolge fra il 1304 e il 1307, il distacco dagli altri poeti stilnovisti come Guido Cavalcanti è evidente. Addirittura, per decreto, Dante, come priore di Firenze (giugno-luglio 1300), manderà il “primo amico” a morire in esilio di malaria a Sarzana per poi affrontare ormai le due fasi ultime di esistenza, prima filosofica-politica e poi profetica, nelle condizioni sempre più difficili imposte dall’esilio come Guelfo Bianco, dopo che la città è passata con la regia del Papa Bonifacio VIII e la penetrazione nel novembre del 1301 delle truppe di Carlo di Valois, figlio del re Filippo III di Francia, alla parte Nera. Rimane comunque, al di là delle contraddizioni della condizione umana del poeta e delle dispute interpretative, la grandezza immortale della sua opera.
Carlo degli Abbati