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Gabriele D’Annunzio lo conosciamo tutti.  Nel corso della nostra vita, per un motivo o per un altro, ogni cittadino italiano ha avuto modo di incontrarlo.Chi in un percorso scolastico, chi in uno umanistico all’università. Chi per puro Piacere.  Gabriele D’Annunzio non è mai stato, in vita – e successivamente in morte – un uomo che passava, o amava passare, inosservato.

Poeta, scrittore, giornalista, drammaturgo, politico, poi Principe.

Eppure, nonostante sia stato uno degli intellettuali più importanti della cultura italiana del XIX e del XX secolo, la figura di D’Annunzio è (tra i più) circondata da un alone di controversia, spesso trattata con superficialità e distacco, dal punto di vista accademico.  Una damnatio memoriae, poiché associata ad un periodo storico che, probabilmente, si cerca in qualche modo di dimenticare. Distaccarsi però da un uomo che, volente o nolente, la storia l’ha fatta, è davvero un’ardua impresa.

Un uomo che è riuscito, da un paesino di poco più di tremila abitanti, ad essere famoso in tutto il mondo, facendo della sua vita un vero e proprio capolavoro.

Bisogna fare della propria vita come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui

Con queste parole, Giordano Bruno Guerri (15o Presidente della Fondazione Vittoriale agli italiani, scrittore, giornalista e storico italiano del XX secolo) comincia la narrazione della vita di un uomo che è riuscito a fare di un sogno, l’essenza della propria vita.

Dinanzi a lui un’aula gremita di persone – per un convegno sul poeta tenuto all’Université du Luxembourg da Guerri e dal professor Claudio Ciccotti, lo scorso 23 novembre nel quadro della Formazione continua in “Lingua, Cultura e Società Italiane” (LCSI) – affascinate dalle storie della vita di un piccolo provincialotto di “un metro e sessantaquattro, calvo e con i denti rovinati dal tempo (e non solo) per la paura matta del dentista”.

Questo è il quadro con cui Guerri descrive di getto il “Vate” (pseudonimo adottato da lui stesso dopo la porte del Carducci).

Un provincialotto nato a Pescara nel 1863 da una famiglia medio-borghese, il quale, però, già da giovanissimo dimostra una sorprendente inclinazione alla poesia, alla letteratura e alla politica. Un “ometto” che in brevissimo tempo riesce a conquistare, con la sua oratoria e la sua forte personalità, prima la capitale, poi il mondo intero. Difatti era davvero giovanissimo quando scrive la sua prima opera, destando le attenzioni di diversi intellettuali dell’epoca. Aveva soli sedici anni. E ne aveva diciassette quando, per suscitare maggiori attenzioni sull’uscita della sua seconda opera, si finse morto per un incidente a cavallo.  Passo dopo passo, con la sua astuzia ed il potere che pian piano acquisiva, da una piccola città di provincia, arriva sul tetto del mondo, godendo dei benefici da esso derivanti. Con “Il Piacere”, infatti, pubblicato all’età di venticinque anni, raggiunge un successo a dir poco planetario.

Dalla campagna, al tetto del mondo”. Guerri lo ribadisce più volte, raccontando aneddoti esilaranti sulle sue abitudini, sulle donne che tanto amava corteggiare; sulle sue manie, i suoi progetti, i suoi modi di fare. “Basta con questa storia che D’Annunzio era fascista. D’Annunzio era semmai libertario, forse anarchico, e con Mussolini non era proprio in buoni rapporti. Una volta il Duce fece visita al Vate. Una visita durata tre giorni, come da Capo di Stato a Capo di Stato, al Vittoriale.  La governante di D’Annunzio lo fece accomodare in una stanza spoglia, con un letto, una piccola scrivania ed uno specchio alla parete. Lo fece aspettare per ore, prima di farsi vivo! 

Mussolini, che era un uomo sveglio, si preparò una frase ad effetto per coglierlo di sprovvista. Quando finalmente D’Annunzio si rivelò, il Duce disse “Salute a te, o Alato Fante” (riferendosi al volo su Vienna del poeta), e il Vate, in tutta risposta, disse “Salute anche a te, o Lesto Fante”, (riferendosi al servizio militare prestato dal Duce come bersagliere). 

Insomma, il loro rapporto non era uno dei più idilliaci.

Lo dimostra anche il fatto che ogni qual volta D’Annunzio prendeva una multa, subito la indirizzava a Mussolini, come per dirgli “pagala tu!”. E se quel 12 agosto, tre giorni prima di un importante incontro tra i due, D’Annunzio non fosse finito in ospedale per un trauma riscontrato dopo aver battuto la testa in terra, magari il Duce non avrebbe poi marciato su Roma.  Chi lo sa come sarebbe cambiata la storia”.

Certo, che D’Annunzio si avvicinò in seguito al nazionalismo è indubbio. Come indubbio è che fu eletto deputato al Parlamento per la destra.

Non si presentò mai. Ci andò solo una volta e solo perché, l’allora governo militare Pellü (dopo i Fatti di Milano), minava la libertà degli italiani con una proposta di legge. Quella fu davvero l’unica volta. Era seduto in prima fila. Qualche momento prima della votazione, il poeta si alzò, e senza parlare, in un’aula dove non volava una mosca, si diresse verso i seggi di sinistra esclamando “Vado verso la via!”. Ovviamente la legge non passò, poiché i deputati di destra ebbero paura di perderlo davvero. Questo è per dimostrare la potenza di quel personaggio che riuscì ad occupare e conquistare Fiume, diventando il primo poeta-sovrano di uno Stato. Primo ed ultimo”.

E tale era la sua importanza, dal punto di vista politico e letterario, che faceva paura a molti. Mussolini diceva “D’Annunzio è come un dente guasto: o lo si estirpa, o lo si ricopre d’oro”. Di certo, nonostante tutto, una cosa è chiara. Gabriele D’Annunzio è una delle figure più controverse ed ambigue della letteratura italiana, che tanto ha donato al nostro patrimonio culturale. Da apprezzare per certi aspetti, da condannare per altri. Ma da studiare e da analizzare sotto una nuova luce. Più approfondita e critica, per non finire, alla fine dei giochi, nel dimenticatoio.

Per cercare di cancellare, una volta per tutta, questa damnatio memoriae, e quei pregiudizi, che tanto lo hanno etichettato nel corso degli anni.

 

Luigi Di Razza

 

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