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Henry Padovani, ex chitarrista dei Police e artista dall’intenta carriera, ha incontrato gli allievi della scuola di musica di Roeser Music Factory. A PassaParola Magazine ha concesso una bella intervista per mano di un suo grande fan ed esperto.

 

 Pensi che il tuo percorso atipico nello scenario musicale sia ancora possibile oggi?

Francamente non lo so, non bisogna chiederlo a me. Sono passato attraverso tante esperienze diverse nel mondo della musica e sono venute bene. Questo mi ha insegnato che un artista deve sempre combattere per far valere le proprie qualità, al di là dei meri interessi economici e commerciali. Credo che gli addetti ai lavori debbano sempre operare al servizio dell’artista e non solo per fare soldi.

Hai nostalgia di quegli anni un po’ folli, con tanti gruppi emergenti di qualità?

 No, perché non bisogna a mio avviso guardare al passato. Bisogna sempre guardare avanti per fare qualcosa in più e di nuovo. A me interessa “il qui e ora” e continuo ad andare avanti, con tanta energia per fare cose nuove, sempre.

Come è nato il progetto “Harry Padovani & i Police” allo Stade de France di Parigi nel 2008 e come hai vissuto quel momento?

 Sting e Stewart (Copeland, ndr) non si parlavano più ed io li ho fatti riappacificare. Sting voleva l’ex collega batterista per un nuovo pezzo ed ha chiesto a me di fare da tramite. Da lì è nata l’idea di ricostituire il gruppo. Hanno guadagnato tanto, ma Sting non era contento ed io ho vissuto una situazione complicata, di disagio. La vera emozione non è stata suonare di nuovo con i Police, piuttosto che mia figlia fosse presente al concerto e dietro le quinte.

Copeland ha dichiarato che i suoi figli da piccoli non erano coscienti della fama del padre e che l’hanno capito solo nel 2008 allo Stade de France di Parigi. Come è possibile?

 È possibile. Anche i miei figli mi vedono solo come padre e non come artista celebre. Diciamo che, piuttosto, approfittano di alcuni privilegi, come conoscere dei VIP o avere dei biglietti per spettacoli non accessibili a tutti.

 Sei stato premiato con la Medaglia d’oro della città di Nancy. Te lo aspettavi?

Proprio no. Si fanno le cose, si cerca di farle bene, senza aspettarsi nulla.

Nel tuo libro Secret Police Man il primo capitolo è dedicato alla morte di Pete Farndon (ex bassista dei Pretenders, mancato prematuramente, ndr). Perché questa scelta?

Perché è stato un momento molto difficile della mia vita. Ho perso un grande amico ed ho visto il “massacro” dello star system in conseguenza. Penso che in un libro, come in un film, si debba iniziare con una situazione scioccante, che colpisca ed attragga il lettore o lo spettatore. E così ho fatto.

Con la morte di Pete Farndon sono morti anche i Samurai (gruppo musicale che prometteva molto bene al tempo, ndr). Pensi che sarebbe diventata una band mitica?

Sicuramente. Era previsto così. C’era interesse per noi. Un gruppo ottimo, belle canzoni, bravi collaboratori. Sì, avrebbe senza dubbio funzionato.

La storia della musica ci regala purtroppo tante carriere splendide distrutte dalla droga. Qual è, col senno del poi, la tua opinione in merito?

La droga non piaceva nemmeno allora a molti, ma non si poteva evitare a chi la volesse di farne uso. I ritmi stessi comunque necessitavano di eccitanti e calmanti, a seconda delle situazioni. Il guaio è stato per molti quello di passare all’eroina, facile conseguenza di chi conduceva una vita spericolata e con tanti soldi a disposizione.

Qual è il tuo miglior ricordo musicale?

Quello che deve ancora venire.

 

Christian Letrillard (traduzione di Maria Grazia Galati)

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