A settembre la Grecia tornerà al voto, visto che l’attuale governo, guidato da Alexis Tsipras ha dato le dimissioni.
Naturalmente, dopo che la drammatica trattativa sul debito greco aveva occupato le prime pagine di tutti i giornali per lungo tempo, la notizia ha fatto clamore. Cominciano dall’inizio: perché Tsipras si è dimesso?
Se ci si limita ad ascoltare e leggere tv, radio e i giornali principali (ancora peggio se si tratta solo di quelli italiani) la ragione è solo una: il “furbetto” e “inaffidabile” Tsipras vuole andare alle elezioni subito, prima che gli effetti del nuovo accordo siano chiari e limpidi per gli elettori greci, al fine di guadagnare una maggioranza “personale” con la quale continuare le sue trattative con i “creditori” alle spalle del popolo greco.
La ragione più semplice, e legata ai principi della democrazia rappresentativa, è invece troppo complessa per venir in mente a gran parte dei commentatori: Tsipras e Syriza avevano vinto le elezioni di gennaio 2015, senza avere la maggioranza assoluta (il premio previsto dalla legge elettorale greca è un premio fisso per il primo partito, 50 deputati), non un mostro come il premio previsto dall’Italicum che trasforma automaticamente una minoranza in una maggioranza assoluta.
Syriza aveva raggiunto l’accordo con un partito conservatore, ma contrario all’austerità, Anel. Ora, dopo il doloroso accordo raggiunto – meglio sarebbe dire imposto – Syriza si è spaccata e, quindi, il governo non ha più la maggioranza necessaria per continuare la sua azione. Conseguenza: il premier si dimette e si svolgono nuove elezioni.
Ora questo modo di agire per gran parte dei commentatori italiani è quantomeno bizzarro. Il Italia se un governo cade oppure non riesce a formarsi perché l’esito elettorale è stato sostanzialmente un pareggio non si va alle elezioni: si fanno governi tecnici, oppure sorretti da strane alleanze per portare avanti un programma che non ha niente a che fare con quello proposto in sede elettorale.
Se poi si ha anche la fortuna di avere un Presidente della Repubblica come era Napolitano che al grido “ce lo chiede l’Europa” è totalmente sensibile alla limitazione dell’esercizio di democrazia principale e all’appello al voto elettorale, ecco qui che si sfornano governi tecnici o coalizioni centriste, prive di qualsiasi legittimità elettorale.
Fatta questa premessa e ricordato quindi che il rimettersi alla volontà degli elettori non dovrebbe mai essere definita come una strategia “populista” o peggio, vediamo in breve di comprendere perché il quadro politico greco si è deteriorato e che cosa c’è in ballo in queste nuove elezioni.
Anche in questo caso una piccola premessa è necessaria: la Grecia è un piccolo Paese, con un’economia sostanzialmente irrilevante rispetto ai grandi problemi economici europei. Questo piccolo Paese, però, grazie alla vittoria elettorale di Syriza nel gennaio 2015 ha assunto un’importanza che travalica di gran lunga il suo peso economico e politico.
Per la prima volta in Europa un partito di sinistra (radicale secondo alcuni, in ogni caso di sinistra e senza centro, secondo tutti) ha vinto le elezioni e ha deciso di sfidare concretamente il modello economico basato sull’austerità e su tutti gli altri vincoli propri del sistema neoliberale che ha dominato il mondo (e l’Europa) negli ultimi 30 anni, portandoci alla drammatica crisi dalla quale ancora non si riesce a uscire. E a proposito della crisi occorre sempre ricordare che in questi anni non è che la parte più ricca della popolazione abbia smesso di arricchirsi. Lo ha fatto non accettando i provvedimenti che i precedenti governi greci avevano accettato senza fiatare e mettendo in discussione le legittimità stessa del debito (a questo proposito ricordiamo che un audit internazionale e indipendente sul debito greco ne ha accertato la parziale illegittimità).
Questo rifiuto ad accettare le condizioni e i provvedimenti che proponeva la Troika (Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale, ndr) è stato al centro di una lunga trattativa che è durata sei mesi, occupando quasi totalmente il nuovo governo greco. C’era quindi chi parlava di “cambiare il verso all’Europa”, uscendo dalla politica di austerità e chi questo cambiamento di verso cercava di attuarlo concretamente, ricevendo appoggi e solidarietà vicini allo zero.
Alla fine della trattativa che ha raggiunto picchi drammatici, il governo greco ha perso. Schiacciato dalle limitazioni alla circolazione monetaria (imposte dalla BCE) che hanno costretto il governo alla chiusura delle banche, privo di qualsiasi appoggio in sede di Eurogruppo, sull’orlo della bancarotta, il primo ministro Tsipras e la maggior parte del suo partito hanno deciso che un accordo, anche se a condizioni terribili, era meglio (meno peggio) del fallimento del Paese e dell’uscita dall’euro. Su questa decisione il partito di Tsipras si è spaccato e alcuni dei ministri del governo si sono dimessi e, insieme a un numero ridotto, ma non irrilevante, di deputati hanno votato contro.
L’accordo raggiunto – che il governo Tsipras non ha mai cercato di rivendere come una vittoria – è stato approvato dal Parlamento greco solo con l’appoggio dei partiti all’opposizione, quegli stessi partiti che con i precedenti governi avevano portato la Grecia in questa drammatica situazione e che avevano accettato tutti i precedenti “memorandum”. Una volta ratificato l’accordo con la Troika anche dai parlamenti nazionali dei paesi “creditori” Tsipras ha ritenuto necessario rimettersi al giudizio del popolo sul suo governo e, di conseguenza, sull’accordo raggiunto.
Quali sono le posizioni politiche che si confronteranno in queste nuove elezioni?
Da un lato quella rappresentata da Tsipras e da Syriza che intende gestire l’accordo raggiunto con l’obiettivo di cercare di dirottare il più possibile i tagli previsti non verso i “soliti noti”; parallelamente rilanciare l’economia greca utilizzando quella piccola parte degli aiuti che non sono una semplice partita di giro (cioè prestiti concessi per pagare prestiti precedenti e quindi non dover contabilizzare delle perdite per prestiti divenuti inesigibili) e, infine, battersi perché la porta socchiusa presente nell’accordo, la necessità di ridiscutere la “sostenibilità del debito greco”, sia spalancata con una vera ristrutturazione dello stesso.
Contro questa posizione si schiererà quella parte di Syriza che ha rifiutato l’accordo e che sostiene la necessità di uscire dall’euro per liberarsi da quella forma di vero e proprio neocolonialismo imposta dai “creditori”, in primis la Germania.
Infine, ci saranno le altre forze politiche, quelle moderate e di destra che sosterranno il fallimento del programma del governo Tsipras e la loro affidabilità per fare uscire la Grecia da questa drammatica situazione nella quale la Grecia è finita per un destino cinico e baro e non per le politiche di questi stessi partiti.
Fuori dal coro resteranno gli orridi neonazisti di Alba dorata che pensano che cacciando tutti gli immigrati i problemi si risolvano rapidamente. Se per caso questa posizione vi ricorda slogan e affermazioni di qualche politico italiano purtroppo non ci possiamo fare niente, è la cruda realtà.
Personalmente spero ardentemente che Syriza, guidata da Tsipras, possa vincere ancora le elezioni e riuscire dapprima a “limitare i danni” imposti dall’accordo. Poi, specialmente se governi di sinistra e anti austerità dovessero risultare vittoriosi in altri Paesi (elezioni si svolgeranno nei prossimi mesi in Portogallo, Spagna e Irlanda, ndr) riuscire a forzare e cambiare quelle regole che rinchiudono l’euro nella camicia di forza del neoliberalismo e di politiche tese esclusivamente ad aumentare la forbice tra i più ricchi e i più poveri.
Oppure, chissà, spero che la Grecia riesca a trovare, insieme a questi altri Paesi, strategie economiche che possano portarci verso altre monete comuni.
Marco Grispigni