People walk past election posters  in Istanbul

Il commento più eloquente del risultato delle elezioni politiche turche del 7 giugno scorso è il contatore dei minuti di assenza dalle frequenze pubbliche del presidente della Repubblica Tayyep Recep Erdogan. Il 9 giugno alle 12.30 assommava già a un giorno, 21 ore, 57 minuti e 02 secondi. Un vero e proprio record per l’uomo che dalla sua elezione non ha mai smesso di intervenire sui temi più disparati della vita pubblica, ad esempio impartendo consigli di tutti i tipi come quello alle donne incinte di restare a casa per non eccitare la libidine degli uomini, oppure sul numero di figli da procreare, o la separazione dei sessi sin dalle scuole elementari e via discorrendo.

Così Zaman, il principale quotidiano dell’opposizione con il direttore in galera e vari giornalisti già condannati, commentava il dato più originale di una campagna elettorale senza precedenti. Una campagna in cui i comizi e i gazebo dei partiti di opposizione – per la cronaca il vecchio CHP degli eredi di Ataturk, il MHP dei Lupi grigi panturanici e ultanazionalisti, e infine l’HDP dei curdi – venivano sistematicamente attaccati da facinorosi sotto lo sguardo distratto quando non compiacente della polizia, in cui erano vietati gli spot che esprimevano critiche al governo mentre il presidente della Repubblica, anche in Turchia carica super partes rappresentativa dell’unità nazionale, appariva almeno tre volte al giorno in televisione per vilipendere i partiti dell’opposizione, e incitare così gli elettori a votare per il suo partito di origine.

Quell’AKP – cioè partito della giustizia e dello sviluppo – al potere da solo da 13 anni accreditato e acclamato dai media e dai politici nostrani come islamista moderato, quasi l’equivalente di una democrazia cristiana di vecchio stampo per intenderci, con le moschee invece delle chiese e gli imam invece dei parroci, ma anche con le sue consorterie affaristiche ultimamente incappate nei rigori della legge, ma sveltamente cavate d’impaccio da una magistratura più che ligia. Un partito, l’AKP, che ha innegabilmente traghettato il paese nel XXI secolo e nella democrazia dopo decenni di guerra civile strisciante e conseguente repressione militare. Ma questo stesso partito sembrava negli ultimi anni aver perso la sua missione iniziale, finendo per allontanarsi dai valori occidentali che aveva brandito per conquistare il favore e i fondi dell’Unione europea e instaurando un regime sempre più allineato ai peggiori regimi di stampo islamista con le donne velate e gli uomini barbuti.

Sono soprattutto i giovani istruiti, la borghesia europeizzata e le popolazioni del mar Egeo oltre che i curdi delle province orientali, che hanno dato un forte segnale di arresto al 41% a un treno che dopo avere represso nel sangue la rivolta dei giovani di piazza Taksim e superato indenne i più gravi scandali di corruzione della repubblica grazie al robusto intervento di Erdogan stesso, all’epoca primo ministro, sembrava correre impazzito verso la Shariah e la dittatura personale. Questo, infatti, il senso dello sfrenato attivismo elettorale di un presidente che la costituzione vorrebbe al di sopra delle parti. Erdogan non si è stancato di ripetere per tre comizi al giorno che gli servivano 400 seggi su 500 del Parlamento unicamerale per cambiare la Costituzione e trasformare il paese in una repubblica presidenziale, non di tipo americano o francese, quanto piuttosto bielorusso o nordcoreano, con un presidente, lui stesso, dotato di tutti i poteri, e gli altri a guardare.

Ora il suo sogno si è infranto, come titolavano i giornali turchi. Ma non le sue ambizioni.

Il governo uscente del visionario prof. Davutoglu, l’ex ministro degli esteri autore di un libro di 600 pagine su come la Turchia debba rifondare l’Impero ottomano, ha già rassegnato le dimissioni dopo essersi inimicato tutti gli stati confinanti. Resta in carica per gli affari correnti fino alla formazione del nuovo governo. A quattro giorni dallo spoglio delle schede elettorali però nessuno osa avanzare previsioni. Ma se il presidente tace il paese tiene il fiato sospeso. Nelle province orientali a maggioranza curda una serie di oscuri attentati al primo partito filocurdo della storia uscito vittorioso dalle urne sembra indicare una strategia della tensione alla turca.

Una vignetta per così dire umoristica faceva dire a un agente segreto sul punto di sparare e seminare bombe “così capiranno che senza di noi c’è solo il caos”. Ecco la principale preoccupazione dei turchi: ritornerà il terrorismo degli Anni ’80 che sfociò nel colpo di stato dei generali? Probabilmente no.

Grazie alle purghe e ai processi agli alti gradi opportunamente inscenati negli ultimi mesi l’esercito come pure la giustizia sono ormai saldamente nelle mani dell’esecutivo. Né la NATO né gli Stati Uniti hanno questa volta interesse a mettere in atto strategie eversive. Si parla molto di nuove elezioni ove i partiti dell’opposizione non riuscissero a formare una Koalisyon sul modello tedesco. Finalmente il Pascià, come i turchi chiamano il loro presidente, ha rotto il silenzio ed è apparso in televisione con toni più concilianti. Ora appella all’unità nazionale dopo anni di prediche in senso esattamente contrario.

L’uomo della strada però non si fida. Ha seguito la sua mirabolante parabola e ha imparato a conoscerlo. A dieci anni vendeva fiori per le strade, oggi è uno degli uomini più ricchi della Turchia e si è fatto costruire un palazzo in stile Ceaucescu di oltre 1200 stanze in barba a tutte le leggi e a tutti i regolamenti. All’ordine degli ingegneri che lo ha denunciato ha risposto: “che vangano ad abbatterlo se ne sono capaci”. A lui, alla sua famiglia e ai suoi amici la democrazia ha detto bene, ma al 40% dei turchi che vive sotto la soglia di povertà certamente no.

E così è anche svanito il sogno di “entrare in Europa”. Da tempo i turchi non ci credono più, da quando i parlamentari europei innalzarono quegli strani cartelli con la scritta Evet/Yes, che prima di allora non avevano mai alzato per nessun altro stato candidato all’adesione, e il giorno dopo le agenzie immobiliari inglesi si precipitarono a Istanbul a razziare appartamenti decrepiti con vista sul Bosforo da rivendere a prezzi astronomici. Oggi un operaio della Renault guadagna in Turchia meno di 400 euro al mese per 10 ore di lavoro al giorno. La lira turca si svaluta ogni giorno che passa, non per ultimo a causa dell’instabilità politica, e l’unica cosa che avvicina la Turchia agli standard europei è il costo della vita, che nelle città è ormai proibitivo.

Se questa è l’Unione europea i turchi oggi hanno detto Yok/Thank you! E il Parlamento europeo, dopo anni di silenzi ha osato finalmente dire, ma solo 4 giorni dopo  il verdetto elettorale, che la Turchia deve fare di più per la democrazia.

(dal nostro corrispondente ennebi)

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