Come è nata la passione per il francese e la sua letteratura?
Per spiegare com’è nata la mia passione per la letteratura francese, devo compiere un passo indietro perché tutto insiste e parte dalla mia passione per la lettura, come strumento eversivo e insieme politico. Per me, infatti, leggere non è mai stato un passatempo o “soltanto” una passione, leggere per me è sempre stata una scelta, compiuta ovviamente con passione.
Per tornare, invece, alla domanda, la passione per la letteratura francese è nata dall’incontro con “L’educazione sentimentale” di Gustave Flaubert, nella traduzione di Giuseppe Pallavicini Caffarelli per gli Oscar Mondadori, a mio avviso la migliore tra quelle in circolazione. Terminata la lettura, mi sono chiesto come fosse quel libro in lingua originale. Lì, se devo rintracciare un momento preciso, ha cominciato a prendere forma l’alveo di una certa curiosità per il mestiere del traduttore letterario. Parafrasando Carducci, posso dire che la questione della lingua fu il prodromo della questione della carriera da traduttore.
Che differenza c’è tra la produzione letteraria italiana e quella francese?
Gli scrittori francesi hanno abbandonato prima di noi italiani il mito del plot, di quella che in editorialese si chiama “fiction”, separandosi con essa dell’idea un po’ datata che la letteratura è tale solo quando crea una corresponsione semidiretta con il bisogno umano dell’evasione dal sé. Sono stati più coraggiosi e hanno cominciato a scrivere e a creare, insieme al mondo anglosassone, quel genere di letteratura che solo anni dopo la critica ha potuto definire non-narrative fiction, biopic, o ancora docu-fiction o auto-fictive. Pensiamo ad Annie Ernaux che già nel 1976 scriveva nel suo La place “da poco so che il romanzo è impossibile” o a Patrick Modiano che rivive in ogni romanzo le vicende della sua infanzia e gli anni dell’occupazione di Parigi. Questi scrittori, però, hanno raccolto l’eredità degli scrittori francesi di inizio ’900 che hanno saputo rompere in modo più netto con il romanzo di stampo ottocentesco. Per fare un solo nome: la grande Colette, il cui tratto autobiografico nella propria produzione è stato così ben definito da Julia Kristeva. In Italia siamo rimasti più legati a quest’idea borghese di romanzo rassicurante – ciò che succede nel libro è lontano da noi – e opere ibride come Danubio di Claudio Magris (1986) o Amori, romanzi e altre scoperte di Mario Fortunato (1991) sono rimaste a lungo una piccola parte del paesaggio. Oggi, invece, anche la letteratura italiana ha sentito il richiamo del “non-narrative fiction” e ha offerto ai lettori dei veri e propri capolavori.
Come è stato per te tradurre Mauvignier?
Conosco molto bene l’autore e ho letto tutti i suoi libri in francese e alcune traduzioni apparse in italiano. E ho avuto anche la fortuna di assistere ad alcune sue pièce a teatro. Tradurre Laurent Mauvignier è stato soprattutto un onore poiché è, tra gli autori contemporanei, quello il cui progetto letterario mi sembra il più coraggioso e originale. Laurent Mauvignier, che pure a fatica si potrebbe ascrivere in una corrente letteraria, possiede una sorta di patrimonio letterario invisibile, eppure così presente tra le sue righe, da cercare tanto nell’ipotassi così cara a Balzac o Proust, quanto in quella linea sotterranea che si situa tra Faulkner e Claude Simon, quanto ancora nella spinta in avanti, a ruota libera, che possiamo ritrovare in Thomas Bernhard; per non parlare dell’eredità da Koltès, Duras, Sarraute, e naturalmente Céline et Joyce. A partire da tutto questo, Mauvignier crea una lingua che è insieme decentrata, frammezzata e circolare, in un eterno ritorno che è tanto linguistico quanto epico, dato che è la parola il suo fulcro. La parola di Mauvignier, sgranata con consapevole pazienza, ruota attorno a un nodo oscuro ed è della sua impossibilità a rappresentare questo nodo che si carica il suo corpus testuale.
Questo romanzo ha rappresentato una vera sfida per te?
I passanti è un romanzo a due voci. Racconta la violenza subita da Claire, attraverso due monologhi: l’uomo che le ha usato violenza e l’amica di sempre che abita dirimpetto la casa dove si è consumata la violenza e che non ha sentito nulla quella sera. I due personaggi sono accomunati da una stessa malaise di vivere: sono persone sole, dentro e fuori, prosciugate dalla vita, disseccate di speranza. Le difficoltà più grandi da superare le ho avute nella traduzione della voce del personaggio maschile. Mauvignier non è interessato all’aspetto morale o cronachistico dell’accaduto, lui non utilizza mai la parola stupro (viole) poiché ne parla per contrasto, per sottrazione, in trasparenza, attraverso il ritratto di due vite abbandonate dalla speranza: le vite accanto. Ma con l’allarme tipico della grande letteratura, Mauvignier fa un ritratto tanto umano, tanto vero dello stupratore da portare il lettore a non riuscire a condannarlo e odiarlo. Ecco la vera sfida è stata cercare di rendere anche in italiano l’odore di un personaggio così al di là delle aspettative, tenermi in quel bilico così sottile di cui si nutre la letteratura, in un linguaggio che presenta più livelli di lettura e che scarta la verità poco a poco, che seduce il lettore e che gli propone e fa accettare la verità della letteratura a scapito della realtà.
Elisa Cutullè