Ha appena ricevuto l’Amilcar della Ville de Villerupt in onore della sua carriera straordinaria nella serata di chiusura del Festival du Film italien de Villerupt (Francia) lo scorso 7 novembre. Il suo film “Berlinguer – La grande ambizione” si attesta tra i film più amati dello scorso anno, le cui reazioni hanno generato “Noi e la grande ambizione”, un altro film corale sui sogni delle nuove generazioni. Incontro con il regista e documentarista della provincia di Venezia che negli anni ha intrecciato poesia e politica, intimità e geopolitica, in una narrazione cinematografica capace di scavare nell’anima collettiva del nostro tempo

Quando Andrea è diventato Andrea Segre regista?
C’è un momento preciso perché io non ho studiato cinema, non nasco come regista. Mi piaceva molto. Trovavo divertente usare le telecamere ma stavo studiando come ricercatore di sociologia e facevo varie esperienze di militanza nella cooperazione internazionale e ho fatto un piccolo cortometraggio in Albania, nel 1999, mi hanno invitato ad un Festival, nel 2001, con quel documentario al Maremma doc festival a Pisticci, in mezzo alla Maremma e sul loro piccolissimo catalogo c’era scritto “Andrea Segre, regista”. E ho detto: vediamo che succede. Sono diventato padre molto giovane e dovevo mantenere mia figlia e mi sono detto che potevo provare! Mia figlia ha vent’anni.
Il tuo lavoro è spesso definito “cinema civile”. Ti riconosci in questa etichetta? E pensi che oggi, in un tempo di forte polarizzazione, il cinema possa ancora avere un impatto politico concreto?
Mi piace fare cinema civile, politico, credo che ci sia una tradizione molto importante di questo cinema in Italia e in Europa anche se, ribadisco sempre, non c’è mai nessuna causa civile o politica sufficiente per fare un buon film. Poi bisogna sempre fare anche un buon film. Serve anche l’arte, non è sufficiente che ci sia un tema importante.
Penso che il cinema sia uno degli strumenti che può collaborare a generare dei cambiamenti soprattutto nel senso comune che è un pezzo importante della società e della politica.
La politica è una parte della vita umana molto poco materiale e le scelte politiche cambiano sulla base di emozioni collettive che durano un periodo e poi scompaiono e delle scelte che sembravano possibili diventano possibili. Per questo è molto affascinante come terreno e in questo terreno la costruzione del senso comune è importante. Oggi ci sono dei media molto più forti del cinema che però ha una cosa utile che è quella di essere condiviso da più persone in un luogo, quindi, questo crea sicuramente delle comunità che possono generare dei cambiamenti o delle resistenze laddove i cambiamenti sono imposti dall’alto.
Cosa ti spinge a mantenere uno sguardo così coerente e politico nel tempo?
Credo in quello che faccio. Credo che quello che mi interessi di più è come l’umanità sia segnata da delle scelte e delle azioni che sono legate a delle idee che hanno delle conseguenze. Capire come si generano quelle idee e come hanno a che fare con dimensioni intime ma anche sociali e collettive. L’unione tra che cosa succede dentro un essere umano e poi dentro l’umanità che poi determinano dei cambiamenti verso altri è molto importante. Mi piace entrare nella testa di persone e di vivere la delicatezza dell’intimo collegata con la rilevanza del comune.

Ti aspettavi che il film su Berlinguer andasse così bene ?
C’era tanta paura che questo film rimanesse chiuso in una dimensione nostalgica o che potesse essere consegnato a una frazione della società, ad una generazione. Mentre effettivamente è diventato intersezionale trovando attenzione in tante generazioni, in tanti sguardi, in tante appartenenze; credo che questo abbia a che fare con il fatto che non è solo il film su Berlinguer ma un film che, attraverso quella storia, ci aiuta a porci tante domande sull’oggi. I film funzionano quando esci dalla sala e ti chiedi cosa ti sta succedendo sia dentro che fuori; la gente usciva molto scossa e emozionata. Non solo gli “anziani” ma tutti.
Ora c’è Noi e la grande ambizione ce ne parli?

Visto quello che succedeva nelle sale ho pensato che fosse importante cogliere questa occasione per fermarsi ad ascoltare. Noi e la grande ambizione non è un film su me o Elio Germano ma è un film sulle nuove generazioni : su tutti quelli nati dopo Berlinguer e su qual è il loro rapporto con l’impegno, il sogno, la partecipazione; come si stanno ridefinendo queste nuove direzioni. Ovviamente non si può tornare al partito di massa o alla società dove c’era Berlinguer, quelle cose sono cambiate ma ci sono bisogni, idee, sogni che possono essere riadattati, ridiscussi nel mondo di oggi; poi ci sono delle ingiustizie ancora più evidenti di allora e, quindi, probabilmente è giusto tornare a impegnarsi con grande ambizione. E ho incontrato tante persone (50 protagonisti). E’ un film molto corale sui sogni delle nuove generazioni.
Cosa hai risposto a Nanni Moretti che, un po’ ironicamente e un po’ no, ha detto che se Segre avesse avuto vent’anni nel 1973 sarebbe stato contrario, ferocemente contrario, al compromesso storico.
Gli ha risposto Elio, in realtà, genialmente. Infatti, questo film nell’Italia di oggi è un film extraparlamentare. Era molto bella quella provocazione perché diceva: questo è un film fatto da persone che non c’erano e non hanno vissuto quel tempo e non è un film berlingueriano, perché fatto da persone che potrebbero anche non essere d’accordo. Le sale erano piene di persone che non hanno vissuto quegli anni e di tante persone di appartenenze politiche non solidamente berlingueriane, anche perché ci sono pochi berlingueriani in giro.
Hai risposto a Giuliana Castellina che su il Manifesto ha scritto che questo film non è che non le sia piaciuto ma l’ha addolorata?
Si, ci siamo incontrati e le ho detto che c’erano due cose che non accettavo di quella critica: la prima è che non è vero che chi non ha vissuto quelle esperienze non può fare un film; e l’altra che non ha raccontato – e mi è dispiaciuto – è che in realtà ci siamo incontrati due, tre volte, ha letto la sceneggiatura, l’abbiamo discussa insieme. Sembrava che questo film fosse arrivato da Marte… Lei avrebbe voluto che noi raccontassimo anche ciò che lei ha vissuto. Forse ci è rimasta un po’ male. Lei dice che abbiamo fatto diventare Berlinguer un liberale democratico mentre B. dice chiaramente nel mio film che lui vuole il socialismo e vuole superare il capitalismo. E poi le ho detto che ci sono decine di migliaia di ragazzi che vanno a vedere questo film, cerca di capire perché vanno, cosa stanno cercando.
Quanta memoria familiare c’è in Berlinguer?
Tutto ciò che c’è in Berlinguer sono documenti personali della famiglia con la quale abbiamo collaborato molto a lungo. Tutto quello che succede in casa è basato su ricordi che mi hanno raccontato. Però la dimensione privata è sempre legata a quella politica. Nel film non c’è una linea intima privata parallela. L’abbiamo fatto per due motivi. Volevamo raccontare il pensiero e l’azione di Berlinguer e del PCI il quegli anni e anche di rispettare una chiara scelta di Berlinguer che era quella di non raccontare in pubblico il suo privato. non abbiamo aggiunto nulla. Anche la lettera finale alla moglie è una lettera privata basata su delle lettere che abbiamo ascoltato e che ci hanno letto le figlie (ma non è una di quelle lettere) però è una lettera molto privata che dà un senso e un significato politico.

Eri già stato a Villerupt?
Già nel 2017 con “L’ordine delle cose” ero venuto al Festival; conoscevo questa realtà e quando mi hanno invitato, quest’anno, mi è sembrato bello tornarci. Credo che la storia delle comunità dei lavoratori migranti sia una storia molto importante e che è una storia tutta da raccontare. Effettivamente non c’è un grande film che racconta questa epopea di migliaia di italiani che sono andati a lavorare in luoghi molto duri come le miniere e la siderurgia. Ci sono molti film che raccontano gli italiani in America. Spesso legati alla mafia. Che è uno degli stereotipi che vendiamo di noi stessi. Spesso succede che i migranti sono soggetti e sottoposti a stereotipi che loro stessi replicano e, quindi, questo facciamo anche noi. E poi è una storia totalmente non finita.
Intervista di Paola Cairo – Foto di cover: Xavier Ferrari (per gentile concessione del Festival du film de Villerupt)
