C’è l’Aldo Moro politico che guarda con lucidità agli equilibri e agli errori del partito e del governo del Paese e l’Aldo Moro marito, padre e nonno affettuoso ma anche l’uomo spaventato dal futuro incerto che l’attende. È una figura a tutto tondo quella che Fabrizio Gifuni ha portato in scena dall’11 al 13 aprile scorsi al Teatro Vascello di Roma con lo spettacolo “Con il vostro irridente silenzio”

Lo studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale del presidente della Democrazia Cristiana, rapito e ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978, nasce dall’ideazione e la drammaturgia di Gifuni nell’ambito del suo progetto artistico “I fantasmi della nostra storia”. Aldo Moro e Pier Paolo Pasolini – protagonista de “Il male dei ricci ovvero ‘Ragazzi di vita’ e altre visioni” che il noto teatro romano ha ospitato il 9 e 10 aprile registrando per entrambe le serate un immediato sold out, replicato anche nelle date dedicate a Moro – rappresentano due corpi insepolti diventati spettri perché ai loro corpi e alle loro vite è stata negata una degna sepoltura per cui tornano a “disturbare” per far ascoltare la propria voce. E quale luogo può mai essere più adatto del teatro ad ospitare i fantasmi? Le assi del palcoscenico rappresentano il luogo degli spettri per eccellenza, sia di quelli creati dalla penna e dalla fantasia degli autori sia di quelli dei personaggi in carne e ossa che non trovano pace e addosso a cui cultura e politica inciampano continuamente, anche a distanza di decenni, perché restano lì come scomodi fantasmi per quanti in vita non ne riconobbero e non compresero l’opera e ora sono pronti a tirarli – a proprio uso e consumo – “per la giacchetta”.
Per entrambi i titoli delle pièce a loro dedicati sono tratti da scritti dei protagonisti (una poesia di Pasolini – “Posso soltanto dire che dal male dei ricci, che io non ho mai avuto, al mondo non si può guarire” – e una lettera di Moro – “[…] con il vostro irridente silenzio avete offeso la mia persona, e la mia famiglia, con l’assoluta mancanza di decisioni legali degli organi di Partito avete menomato la democrazia ch’è la nostra legge”- indirizzata al segretario della DC, Benigno Zaccagnini, ma mai recapitata) e in entrambe i casi va in scena un mistero irrisolto della storia italiana recente. Due persone profondamente diverse eppure per alcuni aspetti indissolubilmente legati da una profonda domanda e urgenza di verità. Un esperimento narrativo e teatrale, quello che l’attore e drammaturgo originario di Lucera (prov. Foggia) propone al pubblico, per sollevare i corpi di questi fantasmi e «verificare se sono ancora in grado di produrre calore e di toccare i nostri corpi oggi nell’Italia del 2025 o se usciti dalla sala dovremo concludere che si tratta di corpi del tutto freddi e dimenticato nel tempo».

Dopo una introduzione che aiuta il pubblico – soprattutto quello più giovane – a mettere a fuoco il periodo storico e sociale in cui si muove il protagonista e la sua vicenda, Gifuni veste totalmente i panni di Aldo Moro ed entra a tutti gli effetti nello spazio scenico: un quadrato luminoso all’interno del quale sono ospitati un microfono e un tavolino mentre a terra giacciono fogli sparsi e un cumulo di terra. Di pagina in pagina, il ritmo cresce. Cambia la voce e l’intensità, più decisa e ferma nelle lettere ai compagni di partito e più melanconica e dolce in quelle all’amata consorte Eleonora Chiavarelli (Noretta), ai figli e al nipotino. Sempre più provata e spaventata con il passare del tempo e di fronte al sempre più intransigente rifiuto di cedere alle richieste delle Brigate Rosse da parte del Governo. La trasformazione di Fabrizio Gifuni è totale seppur senza orpelli o artifici scenici, e in ciò sta la maestria dell’attore. Il tono, la mimica, le pause, i gesti e le emozioni: tutto appartiene all’uomo Moro e non più al personaggio Moro. Ma senza farne una macchietta o una banale parodia.
Piombano sul palcoscenico, “come una specie di meteorite”, le cosiddette “carte di Moro”, ossia tutto ciò che Aldo Moro scrive durante i 55 giorni della sua prigionia (dal 16 marzo 1978 – giorno in cui venne rapito in Via Fani, nel quartiere della Camilluccia e la sua scorta viene barbaramente uccisa – al 9 maggio 1978, giorno in cui il suo corpo venne fatto ritrovare all’interno del portabagagli di una Renault 4 rossa, in Via Caetani al centro di Roma). Quasi cinquanta giorni – come ricorda nell’introduzione lo stesso Gifuni, infatti, «Moro scrive a partire dal decimo giorno e fino al 5 maggio, pochi giorni prima del ritrovamento. Perché non scriva nei primi dieci giorni possiamo oggi ipotizzarlo con una ragionevole certezza: a causa della rottura di due costole durante il sequestro. Molto probabilmente quei dieci giorni gli occorsero per riprendersi da questo trauma. Sul perché non scriva negli ultimi decisivi cinque giorni di vita è uno dei pochissimi tasselli che mancano su questa storia di cui, in realtà, si sa molto più di quanto si creda iscrivendola tra i tanti misteri italiani di cui non sapremo mai nulla» – in cui l’esponente della DC scrive pressoché ininterrottamente, a qualsiasi ora del giorno e della notte. È probabilmente l’unica attività che gli viene concessa e vi si dedicò con una ostinazione, una pazienza e una disperazione crescente col passare dei giorni tanto da arrivare a produrre 419 fogli di cui 245 pagine di memoriale – le risposte date alle domande durante il processo rivoluzionario cui fu sottoposto dalle BR e considerazioni sulla storia d’Italia dal dopoguerra al 1978 oltre ad alcune disposizioni testamentarie – e circa 90 lettere di cui solo 8 furono divulgate e 10 le pagine di memoriale diffuse.


I brigatisti, infatti, diffusero solo una minima parte di tutta la produzione della prigionia di Moro probabilmente temendo che i testi potessero contenere riferimenti cifrati in grado di far localizzare i luoghi di detenzione del rapito. Solo dal 1990, dopo un ritrovamento fortuito (il 10 aprile 1978 nel covo milanese delle BR in Via Monte Nevoso i Carabinieri del Comandante Dalla Chiesa trovarono 49 pagine di dattiloscritti e il 9 ottobre 1990 dietro ad una parete di cartongesso dello stesso covo vengono ritrovati armi e denaro ma anche le fotocopie dei manoscritti), le carte divennero pubbliche. «Perché non abbiamo più avuto voglia di leggerle? Perché anziché diventare un vero patrimonio collettivo e condiviso, studiato nelle scuole e nelle università, è come se avessimo deciso di dimenticarle?», si chiede Gifuni, estendendo poi la sua domanda al pubblico.
Il fantasma Aldo Moro trova corpo nel corpo epistolare e testuale che in scena prende voce attraverso Gifuni. Un corpo che non è solo il corpo di Moro ma è un corpo di testo che per lunghi anni è stato abbandonato. «In questi decenni, molti di noi, si sono consapevolmente o inconsapevolmente – aggiunge l’attore – piegati a un qualcosa che ci è stato ripetuto con una certa ossessività e al discorso per cui la memoria storica di questo Paese è una faccenda abbastanza inutile, una perdita di tempo e in alcuni casi anche dannosa perché ci confonde le idee mentre siamo uomini nuovi in un’Italia nuova che deve recidere i contatti con le proprie radici e il proprio passato».
Un corpo di parole che, mentre Moro urlava dalla sua prigione il proprio sdegno per quest’ulteriore crudele tortura, anche all’epoca venne ignorato e si cercò subito di arginare, silenziare, mistificare ed irridere. “Moro non è Moro. È drogato, impazzito o vittima della sindrome di Stoccolma”, veniva detto arrivando ad una destituzione dell’uomo e della sua persona già in vita. Sulla scena le lettere si alternano al memoriale. Con il passare dei giorni, Aldo Moro da un progressivo informare, consigliare, cercando di far comprendere la gravità assoluta della situazione passa gradualmente ad un’invettiva durissima soprattutto nei confronti di Zaccagnini, Cossiga e dei compagni di partito a cui arriva a rivolgere frasi come “Il mio sangue ricadrà su di loro”, “Vorrei restasse ben chiara la responsabilità della DC con il suo assurdo ed incredibile comportamento”, “Sono stato ucciso tre volte”. Il prigioniero Moro capisce che la sua ora è sempre più vicina e nessuno verrà a salvarlo. “Possibile che siete tutti d’accordo nel volere la mia morte?”, chiede agli esponenti delle varie correnti della Democrazia Cristiana che stanno firmando la sua condanna a morte.
C’è tutta la rassegnazione e il dolore per il tradimento ma anche il profondo amore per i propri familiari e la resa alla vulnerabilità dell’uomo nel momento in cui ogni piccolo brandello della maschera del potere dell’uomo politico è venuto a cadere. Agli affetti più cari le parole di addio, i saluti e le volontà testamentarie: “Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo”. Le parole con cui Aldo Moro si congeda dalla vita e con cui Gifuni si congeda dal personaggio prima di uscire dai panni dello statista e abbandonare il quadrato scenico e abbracciare il pubblico che gli tributa applausi scroscianti.

Valentina Ersilia Matrascìa

 

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