Giudice, docente, giornalista, scrittore. Alessandro Bellardita, nativo di Modica (Sicilia) e trasferitosi da bambino in Germania, sarà ospite della Società Dante Alighieri -Comitato Lussemburgo venerdì 14 febbraio per presentare il suo libro “La fine delle mafie” (Altrementi editore, 2022). Nel frattempo ha risposto alle nostra domande

Nel suo libro “La fine delle mafie” si parla di lezioni apprese da Giovanni Falcone. Qual è l’insegnamento più significativo che ha influenzato il suo lavoro come giudice?

C’è un passaggio straordinario in “Cose di Cosa Nostra” scritto da Giovanni Falcone e la giornalista francese Marcelle Padovani. Lo cito: “Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia“. Ecco, secondo me, questo è il più grande insegnamento. Se riconosciamo che il male fa parte di noi (come anche il bene) e se ogni giorno lavoriamo per combattere i nostri pregiudizi, riusciremo a combattere il crimine in maniera più efficace. Non sempre l’atteggiamento repressivo dello Stato è cosa giusta: a volte bisogna dare anche a chi commette un reato la possibilità di uscire da un certo contesto per poter ricominciare. E questo vale anche per la mafia. Ne è un esempio lampante il progetto “Liberi di scegliere” del giudice minorile Di Bella, che intende proporre una via d’uscita a chi nasce nel contesto mafioso. E cosa sarebbe stato, in fondo, il maxi-processo di Palermo senza i testimoni pentiti Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, ai quali Falcone ha stretto la mano?

Quali strumenti ritiene più efficaci oggi per contrastare le mafie, soprattutto considerando l’evoluzione delle loro attività nel contesto digitale e internazionale?

A differenza degli anni in cui operava Falcone oggi abbiamo molti più strumenti tecnici per rendere la vita difficile ai mafiosi. Il problema è che, specialmente fuori dall’Italia, ne facciamo soltanto raramente uso, specie contro le mafie. Parlo di intercettazioni, di pedinamenti a distanza, di misure tecniche che permetterebbero di seguire ogni singolo passo dei mafiosi. In Germania queste misure vengono adottate in maniera efficace solo contro il terrorismo e soltanto di rado nei confronti della criminalità organizzata. Purtroppo manca ancora lo spazio normativo necessario, ad esempio una seria legge di riforma penale volta a trattare il fenomeno mafioso come quello terroristico, una riforma che l’Italia adottò già a partire dal lontano 1982 con la legge Rognoni/La Torre.

Cosa si potrebbe fare per coinvolgere maggiormente i giovani nella lotta contro le mafie, sensibilizzandoli e rendendoli protagonisti del cambiamento sociale?

Il mio intento è proprio quello di parlare ai giovani. L’eredità di Falcone, Paolo Borsellino, Rosario Livatino e tanti altri va trasmessa raccontando le loro storie, rendendoli vivi e concreti, affinché venga trasmessa ai giovani la cultura della legalità. Bisogna, tuttavia, prendere per mano i giovani, dobbiamo andarli a prendere dove sono. Vale a dire: raccontare ad esempio Falcone in maniera prettamente “storica” sarebbe noioso e controproducente. Bisogna partire da alcuni aneddoti, piccoli episodi della sua vita, per poi delineare in astratto la sua grande passione per la Giustizia e il suo spirito di sacrificio. Non è facile, ma ne vale la pena.

La Germania è spesso considerata un luogo dove le mafie italiane riciclano denaro e si infiltrano nell’economia legale. Quali sono, secondo lei, le criticità principali del sistema tedesco nel contrastare queste attività?

Il tema più impellente è sicuramente quello relativo alla riforma del codice penale. Serve una norma simile al 416bis del codice penale italiano (il reato di associazione di stampo mafioso). E soprattutto bisogna inasprire le pene. Non può essere che se faccio parte di una cosca, secondo l’ordinamento tedesco, rischio la stessa pena che mi spetta se rubo una birra al supermercato (da una sanzione pecuniaria al massimo di 5 anni di reclusione). Inoltre occorre centralizzare le procure. Serve, insomma, una Superprocura Antimafia a livello federale, un’istituzione che permetterebbe di coordinare le indagini in maniera molto più efficace.

Come può la collaborazione tra Italia e Germania essere migliorata per combattere le organizzazioni mafiose, soprattutto a livello di coordinamento giudiziario e investigativo?

Ampliando le competenze della Procura Europea. È assurdo che la Procura Europea fino a oggi non si occupi di mafia. Solo se le cosche commettono delle truffe ai danni dei fondi europei, la Procura può attivarsi. Questo non va bene.

Lei è nato a Modica (RG) e si è trasferito in Germania, con la tua famiglia, da piccolo. Come descriverebbe il suo percorso di “integrazione” nella società tedesca?

Il mio percorso in Germania è una storia di incontri, incontri che hanno lasciato il segno. I miei genitori non hanno studiato, sono operai, persone umili. L’unico libro che avevamo in casa era la Bibbia. La tv imperversava. Poi, in prima elementare, frequentavo la Scuola europea di Karlsruhe, incontrai uno dei miei più grandi maestri, Franco Spadini. Un uomo che con un sorriso in bocca ti faceva innamorare di ogni lettera dell’alfabeto, che non ci faceva scrivere, ma ci faceva disegnare. Un uomo che adorava la calligrafia e che ci ha trasmesso il suo amore per la pittura. E poi tanti altri, grandi insegnanti. Ho avuto fortuna a incontrare insegnanti che sono riusciti, in maniera assai diversa tra loro, a far sbocciare in me una voglia sfrenata di leggere e una curiosità tale da riempire il mio tempo libero con mille domande. Perché succede questo? Perché accade l’altro? E così via, fino a scoprire che la cultura tedesca è ricchissima e che integrarsi vuol dire soprattutto interessarsi degli altri, di ciò che accade attorno a noi. Non c’è integrazione senza interazione.

Lei rappresenta una storia di successo accademico e professionale di italiano all’estero. Cosa consiglia alle persone che dall’Italia vorrebbero espatriare e trasferirsi in Germania?

Di portare con sé un bagaglio di curiosità, di domande e di voglia di apprendere una nuova lingua e una mentalità profondamente diversa da quella italiana. In Germania, fondamentalmente, si vive bene se si ha il coraggio di trasformare l’italianità in una caratteristica o qualità. Faccio un esempio: i tedeschi, parlo in linea generale, non amano arrangiarsi e ripudiano la spontaneità. Nell’ambito lavorativo, però, a volte la spontaneità e la capacità di arrangiarsi di noi italiani può diventare una qualità che i colleghi e le colleghe non solo apprezzano ma trasformano in una peculiarità preziosa, che può renderti insostituibile. Parlo per esperienza.

Stella Emolo (ha collaborato Paola Cairo)

CHI È ALESSANDRO BELLARDITA

Foto: tredition.com

Dopo essersi diplomato alla Scuola europea di Karlsruhe (1999), ha studiato giurisprudenza a Mannheim e Heidelberg. Dal 2017 è giudice a Karlsruhe. Fino al luglio 2023 è stato docente a tempo pieno presso l’ Università di Giustizia di Schwetzingen. Dal settembre 2023 al settembre 2024 ha lavorato come giudice penale presso il tribunale regionale di Karlsruhe (tribunale della giuria e grande camera penale minorile). Ora è presidente della giuria giovanile del tribunale distrettuale di Karlsruhe. È giornalista freelance. Fra le sue collaborazioni vanta dal 2007 una rubrica giuridica (“Rubrica legale”) per il Corriere d’Italia. Fra i suoi libri: Fabrizio De André e l’essenza della libertà (2020), La fine delle mafie – a lezione da Giovanni Falcone e I vostri diritti in Germania (2021). Nel dicembre 2022 ha ricevuto il Premio Mannozzi dei Berlin Encounters. Dal luglio 2024 è membro del consiglio di amministrazione del Museo della DDR di Pforzheim, un luogo di apprendimento per la democrazia. (MGG)

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