Fanno meno figli, vivono soprattutto a nord della Penisola e sempre più spesso vivono in condizione di povertà assoluta. È il Rapporto Immigrazione della Caritas e della Fondazione Migrantes, giunto alla sua trentaduesima edizione, a scattare la fotografia della situazione migratoria in Italia con un focus particolare: la libertà di scelta. Scegliere se migrare o restare nel proprio Paese d’origine. Per sempre più persone nel mondo, quella di migrare – a causa di conflitti, persecuzioni, disastri ambientali, povertà, ecc. – è ormai una scelta obbligata che li costringe a mettersi in mano a pericolosi trafficanti e rischiare la vita in viaggi potenzialmente mortali per cercare un futuro migliore altrove

Il 2023 si apre con 5.050.257 cittadini stranieri residenti in Italia su una popolazione totale di circa 59 milioni, un dato in lieve aumento rispetto a quello dell’anno precedente (5.030.716). Circa il 59,1% dei residenti totali vive nel nord del Paese, seguono poi le regioni occidentali (34,3%), quelle orientali (24.8%), il centro (24,5%), sud (11,7%) e le isole (4,6%). La Lombardia si conferma la regione più attrattiva ospitando il 23,1% della popolazione straniera residente in Italia. In seconda posizione si trova, invece, il Lazio con 12,2%.

Tra i dati che emergono c’è quello sulla denatalità che oramai in Italia non risparmia nemmeno la popolazione migrante. I nuovi nati stranieri, infatti, dal 2012 al 2021 sono diminuiti del 28,7%, passando da quasi 80 mila a meno di 57 mila. Se il primo decennio del 2000 aveva registrato dei picchi di crescita (+45,2% fra il 2003 e il 2004, +22,3% fra il 1999 e il 2000), da un decennio che il numero di nuovi nati stranieri diminuisce costantemente e sempre più (-5% negli ultimi due anni). Tra i nuovi italiani uno su cinque è albanese, seguono marocchini, bengalesi, indiani e pachistani. Poco più di 870 mila alunni provenienti da altri Paesi siedono tra i banchi delle scuole italiane, un quarto in quelle della Lombardia.

La crisi economica non risparmia nemmeno i migranti. Le famiglie immigrate in povertà, infatti, costituiscono circa un terzo (614 mila) dei nuclei familiari che vivono in uno stato di povertà assoluta, pur rappresentando solo il 9% di quelle residenti. La percentuale di chi non ha accesso a un livello di vita dignitoso risulta essere tra gli stranieri cinque volte superiore di quella registrata tra i nuclei di italiani. Uno svantaggio che, rafforzatosi a partire dalla crisi economica-finanziaria del 2008, con la pandemia ha raggiunto livelli più preoccupanti e strutturali. Non solo tra i disoccupati, le ultime stime Istat evidenziano come il 7% degli occupati in Italia vive in una condizione di povertà assoluta (in-work poverty). Una percentuale che tra i lavoratori meno qualificati sale al 13,3% e se a svolgere tali occupazioni sono persone di cittadinanza straniera il dato schizza al 31,1% (tra gli italiani è al 7,9%).  A pagarne le conseguenze sono i bambini. Si contano 1 milione 400 mila bambini poveri e un indigente su quattro è un minore. Tra le famiglie di stranieri con minorenni l’incidenza della povertà raggiunge il 36,2%, più di 4 volte la media di quelle italiane (8,3%).

Dietro ai numeri, però, ci sono le persone. «La questione non è solo garantire l’incolumità fisica di chi arriva comunque da noi e una prima dignitosa accoglienza, ma favorire un proficuo percorso di integrazione. Troppo spesso i cittadini stranieri che vivono nel nostro paese sono ancora costretti a un vero e proprio “percorso ad ostacoli” o a subire fenomeni di discriminazione. Questo avviene nell’accesso alle professioni, alla casa, allo studio, alle misure di assistenza sociale, nonché nell’informazione e nella comunicazione», ha ricordato il Presidente di Caritas italiana, monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli. «La povertà delle famiglie, il ritardo o l’abbandono scolastico, la scarsa formazione, lavori poco remunerati e in nero (che talvolta diventano sfruttamento lavorativo, abuso, ricatto) e l’ormai sempre più ridotta natalità – ha aggiunto – parlano di una storia, non solo nostra, ma dell’umanità, che rischia di non avere futuro». 

A tal fine, il  segretario generale della Cei, monsignor Giuseppe Baturi, auspica  «un progetto politico lungimirante, capace di pensare ad un futuro insieme, che sia una opportunità di crescita per tutti». Un progetto di crescita che non può, però, prescindere da un cambiamento della narrazione della migrazione nel nostro Paese e da una “cura ecologica linguistica”: «Il confronto tra lo stile dell’informazione sulle vicende di Lampedusa e di Cutro – si legge nel rapporto –  mostra come il clima sociale e politico in Italia sia cambiato e quanto l’attenzione dei media al tema dell’immigrazione sia sempre più orientata all’allarmismo». Scelta che – come confermano i dati – appare ingiustificata poiché nel 2022 la componente straniera in ambito carcerario è rimasta in linea con il dato dell’anno precedente (17.683 detenuti stranieri su 56.196, pari al 31,4% della popolazione carceraria complessiva). In consistente aumento, invece, la presenza dei minori in carcere, sia tra italiani che non. Nel discorso pubblico risulta del tutto assente, invece, la dimensione della vittima di chi alle condizioni di fragilità e di precarietà, proprie del migrante, aggiunge quella di persona vittima di reato.

Sulla spiaggia di Steccato di Cutro, alla sabbia e ai relitti si mescolano una minore e empatia e una maggiore indifferenza come dimostra la diversa rilevanza data dall’informazione italiana ai due eventi: un a trattazione che si protrae per tre mesi con 61 notizie per i tragici eventi del 3 ottobre 2013, 37 notizie e una copertura di poco più di 2 mesi per quelli del 27 febbraio 2023. Se, anche in conseguenza della guerra in Ucraina, aumentano le voci delle persone migranti nell’informazione italiana, non a tutte è offerta pari opportunità di esprimersi. Anche sul fronte cinematografico, il cinema di migrazione ha ispirato un interesse sena precedenti nell’immaginario di cineasti provenienti da contesti internazionali coinvolti in attività di impegno sociale e politico ma, ancora una volta, manca all’appello la voce femminile: dove sono le donne registe? «Il cinema italiano – si legge nel rapporto – dovrebbe includere la voce autoriale delle donne migranti ed inserirla in un discorso corale in modo paritario». 

Valentina Ersilia Matrascìa

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