Nel passato si è affrontato più volte il rapporto del pensiero di Dante con la cultura islamica. Possiamo ricordare su tutti Miguel Asín Palacios e la sua “Escatología musulmana en la Divina Comedia” che l’editrice Luni ha tradotto come “Dante e l’Islam” qualche anno fa

Al tempo di Dante in tutto l’Occidente prevaleva la rimozione dell’Islam, cioè la negazione sistemica dei legami dell’Occidente con la religione musulmana, il cosiddetto “oblio dell’Islam”, conseguenza dell’etnocentrismo cristiano che introdurrà lo spirito delle diverse Crociate in Terra Santa. Questo confinamento dell’Islam nell’”alterità” da combattere avviene in particolare proprio dal XIV secolo, cioè nel periodo dantesco. Prima, si era affermato il paradosso geoculturale dell’Occidente dove la cristianità latino-occidentale degli europei latinofoni si contrapponeva alla cristianità orientale dei Greci di Bisanzio fondata sulla filosofia ellenica. Ma anche la cristianità latino-occidentale si nutriva dei Grandi Filosofi – in particolare Aristotele e i suoi commentari- tradotti dall’arabo soprattutto fra la seconda metà del XII secolo e la prima metà del XIII secolo.

Sino ad allora, l’Alto Medio Evo era vissuto invece immerso in una cultura plurale che, pur dimenticando scientemente i fondamenti teologici della religione musulmana, si alimentava peraltro di curiosità per la superiorità tecnologica che la primavera delle traduzioni dall’arabo, promossa dall’abate di Cluny, Pietro il Venerabile, a partire dalla riconquista cristiana di Toledo (1085), aveva rivelato. Ci si interessava alla Perspectiva di Alhazen, fondatore dell’ottica moderna, all’algebra di al-Kwarizmi, alla medicina di Avicenna, agli scritti dei suoi predecessori al-Farabi e Avempace, alla astronomia di al-Zarqali o Albumasar, alla alchimia di Jabir. Questo grazie al lavoro straordinario compiuto da traduttori come Gherardo da Cremona, Robert di Ketton, Daniele di Morley, Ermanno di Carinzia, Domenico Gundisalvi.

Era questo l’humus culturale in cui l’ecumenismo mediterraneo legava la Baghdad califfale della “casa della saggezza” (Bayt al-Hikma) a Oxford, a Parigi, alla Spagna o alla Sicilia, impregnando i dotti del tempo e i suoi clerici vagantes.

Quindi, se l’opera di Dante esprimeva la più aspra e totale condanna contro l’Islam, dipingendo nell’Inferno Maometto e Ali come rappresentanti di un credo eretico e scismatico e rappresentando le moschee “vermiglie come se di foco uscite” (Canto VIII, 70-72), il pensiero arabo-islamico era invece diffuso come default culturale nel patrimonio del tempo.

E’ in questo senso che va letta la similitudine di certi passaggi riguardanti il viaggio ultraterreno di Dante nella Divina Commedia con il “Viaggio Notturno del Profeta”, la cui versione di Ibn ‘Abbas tradotta dall’arabo da Domingo Gundisalvo, Domenico Gundisalvi, (Liber schalae Machometi), su incarico del re di Spagna Alfonso VI “Il Saggio”, viene conosciuta in Occidente dal 1264. Partendo da due versetti coranici (Q.17:1 e Q. 53:1-18), la tradizione islamica tramanda che in una notte Muhammad abbia compiuto un viaggio miracoloso, prima orizzontale a cavallo di Buraq, da Mecca a Gerusalemme (isra’) e poi verticale sino all’empireo, il cielo in prossimità del Trono di Dio (mi’raj), in compagnia dell’arcangelo Gabriele, attraversando sette cieli come sette erano i cieli dell’astronomia antica che contenevano i pianeti. Non avendo bisogno di emendarsi del peccato originale, concetto estraneo all’Islam, Muhammad non attraversa fisicamente il baratro infernale, semplicemente lo sorvola, ma la descrizione della Gehenna offre degli aspetti molto simili a quelli della Commedia. Chiusa la terrificante visione dell’Inferno, nel settimo e ultimo cielo avviene l’incontro con il Creatore e Gabriele scompare, sostituito dall’arcangelo Michele (come nello stesso punto della Commedia Beatrice è sostituita da San Bernardo). Poi Muhammad comincia la discesa durante la quale incontra Mosè e solo nell’ultimo stadio della discesa entra nell’Eden, il giardino (Janna) paradisiaco, infine, risalito su Buraq, torna alla Mecca.

Un parallelismo stupefacente con la Commedia emerge dal viaggio notturno. Una somiglianza nella descrizione dei luoghi, delle pene e dei premi ultramondani.

Ma anche, Muhammad come Dante ha una visione beatifica, sia Dante che Muhammad effettuano il viaggio col proprio corpo, ma Muhammad è un vero Profeta mentre Dante si vuole Profeta. Una differenza c’è. Dante, nel suo viaggio ultraterreno, che diventa l’allegoria della sua esistenza di esule, in cerca di una pacificazione spirituale, acquista sempre più consapevolezza del suo destino di vate che immagina in prospettiva una riforma politica. Muhammad invece compie un viaggio che è una catarsi miracolosa esclusivamente spirituale.

Ma un altro mistero aleggia sulla Divina Commedia: la figura di Beatrice. Percepita come Donna angelicata dal Poeta fu vissuta così in realtà o venne invece trasfigurata nel quadro di una finzione letteraria retrospettiva, come indicato fra gli altri dall’indimenticato Massimo Campanini? Non fu al contrario in origine carnale l’amore giovanile per Beatrice, sentimento che solo dopo la morte di Beatrice (1290) il poeta trasfigura, facendo di lei una “madonna” in senso religioso, ricostruendone retrospettivamente una figura ieratica rientrante nella sua conversione dalla dottrina dell’amore stilnovistico ad una filosofia platonizzante che mirava a trascendere le apparenze materiali per conquistare teosoficamente l’essenza, il noumeno, la vicinanza a Dio? Ancora prima della crisi che lo sconvolge fra il 1304 e il 1307, dopo la sconfitta definitiva dei Guelfi Bianchi esiliati nella battaglia della Lastra, il distacco dagli altri poeti stilnovisti come Guido Cavalcanti è evidente. Addirittura Dante, come priore di Firenze (giugno-luglio 1300) per decreto manderà “il primo amico” a morire in esilio di malaria nella mefitica piana di Sarzana. In seguito dovrà affrontare le due fasi ultime di esistenza, prima filosofica-politica e poi profetica, nelle condizioni sempre più difficili imposte dall’esilio, come Guelfo Bianco, dopo che la città era passata, con la regia del Papa Bonifacio VIII e la penetrazione nel novembre del 1301 delle truppe di Carlo di Valois, figlio del re Filippo III di Francia, alla parte Nera.

Rimane su tutto comunque evidente, al di là delle vicende terrene e delle contraddizioni della sofferta condizione umana del Poeta, la grandezza immortale della sua opera.

Carlo degli Abbati

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