Di recente un decreto del Ministro italiano degli Interni Matteo Piantedosi ha imposto un codice di condotta per le navi delle ONG con l’obiettivo di limitare lo sbarco dei migranti sulle coste italiane. Inserendosi con ciò, a piedi giunti, nel complesso quadro giuridico che regge la navigazione internazionale dei natanti sui mari
Se si può fare una prima considerazione preliminare sul delicato problema delle migrazioni nel Mediterraneo centrale verso la sponda sud dell’Europa, si deve parlare del contrasto evidente fra la complessità del fenomeno e il semplicismo delle rappresentazioni semantiche ricevute dal teatrino della politica, nella dicotomia fra “viaggi della speranza” e “invasioni dal mare” mentre nei fatti il Mediterraneo si converte progressivamente in un cimitero di migranti.
Una prima considerazione corretta è che l’Italia e l’Europa sono obbligate ad affrontare il problema delle migrazioni con una legislazione di altri tempi, oggi completamente obsoleta. La famosa Convenzione di Dublino che risale al 1990 ed è operativa nella terza versione – Dublino III- dal 1997.
Dal 1997 nel mondo è successo di tutto ma Dublino non è mai stata modificata, richiedendo l’unanime volontà, mai esistita, dei 28 Stati membri UE: il bombardamento NATO della Serbia nel 1999, gli attacchi di al-Qaida alle Torri di New-York nel 2001, la replica americana con l’invasione dell’Afghanistan ( 2001) e dell’Iraq (2003). Poi l’esplosione delle c.d. primavere arabe nel 2010 a partire dalla Tunisia con l’indebolimento dei regimi arabi in Egitto, Tunisia, Libia. Lo scoppio della triplice guerra in Siria dal 2013, divenuta in successione civile, regionale, mondiale.
Da ciò un drammatico imprevedibile incremento dei flussi migratori che la convenzione di Dublino non aveva previsto. Concepita su una concezione individuale della richiesta di asilo, incapace di affrontare il nuovo fenomeno dei flussi di massa. In seguito poi alla crisi economico-finanziaria del 2008 la UE ha progressivamente ristretto le disposizioni regolanti la pur prevista concessione dei permessi lavorativi di soggiorno e del diritto di asilo. Questa situazione ha finito per incoraggiare come via prevalente di accesso le migrazioni clandestine, rinforzando il ruolo di attori extra-legali, gruppi criminali presenti in Libia e nel Sahel agenti con l’ausilio di settori corrotti delle amministrazioni locali. Sulle vie di transito principale dai paesi sahelici attraverso la Libia vari gruppi criminali attivi sono stati originati in Algeria durante la guerra civile e operano essendo divenuti il nuovo motore nella tratta di esseri umani. Basti citare fra tanti AQMI (Al Qaida nel Maghreb islamico) fondata fra Algeria e Mali da Mokhtar ben Mokhtar, dissidente del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (GSPC), ala scissionista del GIA (Gruppo islamico armato) della guerra civile algerina. Passata dal contrabbando di sigarette dall’Algeria, al traffico di droga (cocaina) dopo che la legge americana del 2001 Patriot Act aveva avuto l’effetto di riorientare verso l’Europa attraverso l’Africa i flussi di droga soprattutto di origine colombiana. Sino al rapimento di turisti e cooperanti ed infine al più redditizio traffico di migranti. Gruppi che si muovono agevolmente in vaste aree desertiche mal controllate da deboli governi centrali possedendo un vasto mercato di richiedenti stimolati alla fuga da condizioni di povertà, di insicurezza dovuta alla presenza di gruppi jihadisti, di aggravamento delle condizioni climatiche, di scarsità in appoggio e sostegno dei governi centrali verso le aree desertiche settentrionali. Un mercato di uomini disperati, provenienti dal Mali, dal Burkina-Faso, dal Gambia, dal Ciad, dal Niger ma anche da zone più lontane, Sudan, Eritrea, Afghanistan, Bangladesh che vale oro per i gruppi criminali.
È possibile far fronte a questi flussi attraverso accordi bilaterali con i Paesi di origine?
Da Berlusconi a Prodi a Minniti l’Italia con la Libia ci ha sempre provato sin dal 2004 versando somme importanti che comportavano, da parte di Gheddafi, il blocco e il confinamento soprattutto nell’oasi remota di Kufra dei migranti sahelici. Ma quando certi Paesi destabilizzati da una certa idea della globalizzazione si convertono in stati non-Stati, come è il caso della Libia post-gheddafiana, l’efficacia di questi accordi si affievolisce e i gruppi criminali hanno ancora più spazio per organizzare economicamente i traffici di uomini con vaste ricadute sui territori interessati.
Di recente, come accennato, il governo Meloni cerca di limitare l’operatività delle navi delle ONG che recuperano in mare i migranti, agendo così sull’ultima tratta di trasporto condizionando il comportamento in mare delle navi battenti bandiera straniera. Ma in questo modo contravvenendo alle norme internazionali liberamente sottoscritte anche dell’Italia in sede di Convenzione ONU sul diritto del mare (UNCLOS del 1982), aprendo la via ad annosi contenziosi.
Una sola reale valvola di sfogo a questa situazione compromessa sembra consistere esclusivamente nel ripristino di canali legali capaci di governare i flussi migratori fra l’Europa e il sud globale superando al riguardo, per quanto concerne l’Italia, il quadro giuridico restrittivo rappresentato dall’ultima legge organica in materia di immigrazione, la n.189 del 2002, la c.d. Bossi-Fini che di fatto impedisce le immigrazioni legali.
Contrariamente alla tendenza di molti schieramenti politici, non solo di destra, di continuare ad intrattenere la paura dell’immigrato impedendo ogni soluzione concreta di un fenomeno che potrebbe invece esser di ausilio per il mantenimento dei livelli economici di un paese invecchiato e in continua decrescita demografica, il caso passato dell’Albania ha già provato come invece la progressiva legalizzazione dei flussi e il ripristino dei collegamenti ufficiali abbia consentito l’avvio di un felice processo di normalizzazione delle migrazioni fra i due paesi.
Certo, il caso Albania è molto più ristretto del vasto bacino mediterraneo, ma, come osserva Michele Colucci su Politica, la storia contemporanea pullula di esempi che rivelano che le politiche repressive in materia di immigrazione, oltre a produrre diseguaglianza non sortiscono neanche gli effetti sperati di chiusura dei flussi ma alimentano solo irregolarità e sfruttamento. Provocando dei morti in mare come vittime inutili della guerra stupidamente bandita contro le migrazioni legali. Più che una nefandezza un suicidio della ragione. Non servono le costose missioni militari Serval, Barkane, Takuba, G 5 Sahel, di contenimento dei gruppi jihadisti e criminali con pochi legionari dispersi nella immensità dei deserti senza che l’intervento militare si accompagni a dei fattivi interventi sulle società civili. Perché non prevalgano a partire dal Sahel i gruppi criminali e le tragiche esazioni commesse contro degli esseri umani alla ricerca di un avvenire occorre innanzi tutto contrapporre al caos della tratta di esseri umani un quadro ordinato di flussi di migrazioni legali. È così che può anche morire il pesce del terrorismo. Perchè si è svuotato l’acquario. E non semplicemente inseguendo la via minimalista e di corto respiro del boicottaggio ai soccorsi in mare delle ONG.
Carlo degli Abbati
*insegna Diritto dell’Unione Europea presso il Dip. Di lingue e Culture Moderne dell’Università di Genova
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