Nei giorni scorsi ci sono state diverse manifestazioni in tutta Europa per chiedere di fermare la guerra in Ucraina. La partecipazione è stata massiccia, appassionata e unita
Tra le immagini più significative ricordiamo i 5000 partecipanti di Roma, Praga con piazza Venceslao stracolma di manifestanti, le sempre più numerose persone che partecipano ogni giorno alle manifestazioni nel Granducato di Lussemburgo. Nelle immagini che hanno fatto il giro del mondo compaiono insieme la bandiera ucraina e quella dell’Europa.
Sono immagini importanti perché la mobilitazione internazionale ci racconta l’Europa della mobilità, dei diritti civili e delle libertà. Le bandiere ucraine che sventolano insieme a quelle della pace e degli Stati membri europei dimostrano che la comunità delle persone è già forgiata dal carattere europeo. Per le persone scese in piazza l’Ucraina è già Europa. Per questo la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica è cosi empatica verso la resistenza ucraina e la sostiene. Anche per le istituzioni europee l’Ucraina è quasi Europa. Dall’11 luglio del 2017 il Consiglio europeo aveva già adottato l’Accordo di associazione con l’Ucraina. Ciò accadeva alla vigilia del vertice UE-Ucraina a Kiev, del 12 e 13 luglio dello stesso anno. L’accordo di associazione è stato il principale strumento per avvicinare maggiormente l’Ucraina e l’UE. Stabilendo l’approfondimento dei legami politici e il rafforzamento dei collegamenti economici il rispetto dei valori comuni. Tra l’altro, buona parte dell’accordo di associazione era già operativo dal 2014 e i primi contatti tra Ucraina e Commissione europea risalgono al 2007.
La guerra suscita in noi un senso di comune appartenenza. Un’appartenenza che traspare dai volti dei milioni di manifestanti scesi in piazza in tutta Europa.
Ancora più significative sono state le manifestazioni che si sono svolte a San Pietroburgo e a Mosca, perché le persone che scendono nelle strade gridando solidarietà e pace, rischiano tanto. Sono decine i video di pestaggi da parte delle forze dell’ordine russe ai danni dei manifestanti. Migliaia di persone sono state tratte in arresto dalla polizia solo per aver voluto dimostrare la loro contrarietà a questa guerra assurda che ci catapulta nel secolo breve.
Non sono nuove queste posizioni autoritarie del Cremlino verso il dissenso. Come quando, nelle città russe, si scendeva in piazza a causa di una legislazione discriminatoria nei confronti delle persone Lgbt. Nel 2019 veniva uccisa Yelena Grigorieva, che aveva partecipato ad una di queste manifestazioni. Era una nota attivista, sempre in prima fila contro la tortura, gli arresti per motivi politici, l’annessione della Crimea o la persecuzione delle comunità Lgbt. Più volte era stata aggredita, minacciata di morte. Più volte era andata a presentare denunce alla polizia. Ma ha trovato la morte. Come Anna Politkovskaja, la giornalista assassinata per aver denunciato gli orrori della guerra in Cecenia.
Tanti sono stati i rapporti pubblicati da organizzazioni internazionali che hanno esaminato e documentato la situazione sulla libertà di stampa in Russia. Un’ampia inchiesta commissionata dall’International Federation of Journalists su questo tema è stata pubblicata ha documentato recentemente la morte o scomparsa di più di 300 giornalisti negli ultimi 20 anni. I cittadini russi vogliono un cambiamento ma sono governati da un governo autocratico.
In tutti questi anni le organizzazioni umanitarie, parte dei media occidentali, il movimento pacifista hanno sempre denunciato, dissentito e rivendicato diritti e libertà in Russia nel silenzio delle istituzioni europee. L’Europa, ad oggi, paga ogni giorno un miliardo di euro di bolletta alla Russia. Molti governi europei sono stati incapaci di mettere in campo, negli ultimi 20 anni, politiche energetiche che avrebbero permesso una minor dipendenza economica dal regime di Putin. Adesso, al netto delle responsabilità la comunità europea tutta, quella delle persone e delle istituzioni, è davanti ad una domanda epocale per il nostro continente: cosa siamo disposti a fare per difendere e affermare la libertà democratica e la sovranità degli Stati confinanti con l’Europa? L’UE hanno deciso di applicare sanzioni e sostenere la resistenza ucraina inviando armi. I pacifisti, invece, sono contrari a questa decisione e chiedono all’Europa di porsi come mediatore e interlocutore per una risoluzione diplomatica. Per molti analisti l’invio delle armi serve per temporeggiare, in attesa che Putin venga destituito dagli oligarchi o che l’esercito russo non riesca a penetrare in tutto il Paese. Per i pacifisti armare gli ucraini significa il ripetersi di scenari come Siria, in Afghanistan e Libia. La situazione è complessa perché viene da lontano e sembra che i leader mondiali non siano ancora pronti a dialogare per trovare soluzioni pacifiche a questo conflitto assurdo.
Intanto, oltre un milione di persone in fuga hanno già lasciato l’Ucraina senza spere quale sarà il loro destino, senza immaginare quando potranno ritornare nel loro Paese distrutto, ci vorranno decenni prima di ricostruire le città e il tessuto sociale ed economico. In attesa di una risoluzione abbiamo il dovere morale di accogliere al meglio tutto i profughi, di tutte le guerre in atto nel mondo.
Paolo De Martino