Un periodaccio per la lingua italiana in ambito gastronomico. Ebbene sì, la cucina italiana, come la moda e il costume, subisce sempre più l’utilizzo di termini anglosassoni per indicare preparazioni, procedure, dolci e pietanze di ogni sorta. Una vera inversione di tendenza se si pensa che la cucina è sempre stata uno dei settori in cui la lingua francese ha avuto la meglio, dalla metà del 1600 fino ai giorni nostri. Pellegrino Artusi, autore agli inizi del Novecento del celebre libro/ricettario La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, aveva cercato di opporsi ai francesismi troppo diffusi nell’arte culinaria cercando di privilegiare termini italiani. Ma purtroppo è stato solo un tentativo. Il francese ha avuto la meglio nella pasticceria e nella “nouvelle cuisine”; fino a quando non è arrivato l’inglese, che negli ultimi anni è giunto senza troppi ostacoli al podio.
Secondo un recente studio condotto in Italia dalla ASLI (Associazione per la Storia della Lingua Italiana), che ha raccolto 423 testi pubblicati online tra il 2012 e il 2016 su testate generaliste o specializzate che si occupano di gastronomia, gli anglicismi risultano circa tre volte più numerosi dei francesismi (3.484 occorrenze contro 1.121) e distanziano di molto tutte le altre lingue legate alla cucina etnica: spagnolo (276), portoghese (142), turco (107) arabo (75) e giapponese (161). I ristoratori cinesi, invece, tendono a tradurre i loro menù e contribuiscono poco al lessico italiano. In generale, fra le parole inglesi che invece riguardano la gastronomia, non sono poi così frequenti gli ingredienti (curry, ketchup e kiwi), i piatti (hamburger, sandwich) e gli oggetti da cucina (freezer, mixer), almeno nel confronto con i francesismi, che invece continuano a dominare nella descrizione della preparazione delle pietanze (brisé, flambé, fumé, glacé, gratin e gratiné, julienne, sauté, sablé…) e negli ingredienti e piatti tipici: l’affettato di Aveyron, i vini di Bordeaux, la bourguignonne, il formaggio Brie, il vino Chablis; e ci fermiamo, naturalmente, con lo Champagne.
Emergono due eccezioni: le bevande alcoliche, soprattutto i cocktail (apricot brandy, barley wine, bloody mary, tequila sunrise) e la pasticceria (riscontriamo, ad esempio, molti composti con cake: mini cheesecake, cake design, rainbow cake, raindrop cake, upside down cake). Per il resto, a parte qualche riferimento ai più recenti sviluppi salutistici (gluten free) ed etici (cruelty free), l’inglese è utilizzato soprattutto per descrivere, più che i vari cibi, tutte le innovazioni socio-economiche che ruotano attorno al cibo in generale, come dimostrano gli svariati composti con la parola food: fast food, junk food, comfort food, street food, super food, food blogger, food delivery, food lovers, food porn, food truck.
La domanda nasce spontanea: come mai l’inglese predomina anche in settori non tradizionalmente dominati dalla cultura angloamericana?
La risposta è semplice: l’inglese sarà anche meno necessario del francese per descrivere gli aspetti propriamente tecnici dell’arte culinaria, ma oggi è indubbiamente la lingua più di tendenza, soprattutto per parlare di tutte le attività sociali, economiche e culturali legate alla produzione e al consumo di cibi e bevande. Insomma, andare a scuola o in ufficio con il lunch box è più elegante che portarsi dietro il cestino del pranzo o, se siamo a Milano, la “schiscetta”; assaporiamo il finger food con ospiti più distinti di quando facciamo un semplice spuntino in piedi; lo street food ci fa pensare a un evento internazionale, mentre le bancarelle di sagre e fiere sono adatte solo a un contesto paesano. Poi magari il cibo è pessimo, ma pazienza! Enjoy your meal!
Amelia Conte