Storia di una trasmissione “rivoluzionaria”, che nacque in seno alla riforma della Rai del 1975 e al desiderio della direzione di rete (Massimo Fichera e Marina Tartara, unica donna capostruttura Rai) di palinsesti nuovi che avessero come protagonisti coloro che solitamente restavano nell’ombra: donne, operai e giovani.
Correva l’anno 1977 e nel palinsesto del neo-nato secondo canale Rai (la programmazione cominciò ufficialmente nel dicembre 1976) il 1° settembre arriva una novità: per sei puntate ogni sabato alle 18,30 a parlare sono le donne. Di loro stesse, di cultura, dei loro sogni e dubbi; e lo fanno ai microfoni e alle telecamere di una trasmissione nuova: “Si dice donna”. Si alternano servizi sull’attualità e approfondimenti culturali, realizzati sul campo, in giro per l’Italia e per il mondo, da giovanissime redattrici (Elena Doni, Federica Passeri, Benedetta Bini, Daniela Colombo, Silvia Neonato, Anna Maria Guadagni, Fiamma Nirestein, Paola Piva, Maricla Tagliaferri e Mariella Gramaglia) dirette da Tilde Capomazza, per la regia di Rosalia Polizzi, Alessandra Bocchetti e Sofia Scandurra. Servizi d’ogni tipo: dal parto in acqua al talk show sul ruolo delle donne in Cina durante il processo alla vedova di Mao, Jiang Qing, con Rossana Rossanda.
Il tutto rigorosamente raccontato dalle donne in prima persona: “donne vere”, famose e comuni raccontavano problemi e quotidianità, lotte, lavoro e la loro visione della politica e della società. I temi trattati spaziavano dalla contraccezione all’aborto, dalla salute alla sessualità, dal matrimonio ai ruoli in casa, coprendo tematiche che difficilmente trovavano spazio nei media o, peggio, restavano limitate in narrazioni stereotipate e cliché. Dalle interviste rilasciate all’epoca e dalle sue testimonianze riportate nel libro Tivvù passione mia Tilde Capomazza racconta: «Ci divertivamo davvero e la trasmissione aveva un impianto tipo magazine. C’era ad esempio un servizio di attualità sull’applicazione della nuova legge di parità con l’intervista alle “ferraiole”, ragazze che lavoravano nell’edilizia. A seguire, nella stessa puntata, ci poteva essere la ricostruzione di un personaggio storico, come Olympia de Gouges, interpretata da Laura Betti, con Alessandra Bocchetti alla regia. I nostri mezzi erano elementari, ma riuscimmo lo stesso a creare formule nuove come le “storie di vita”; e poi i talk show, le inchieste approfondite».
Il successo di pubblico fu immediato e dirompente tanto da portare la rete a spostare, dalla seconda stagione, la programmazione dalla fascia pomeridiana alla prima serata. «Eravamo ambiziose, coraggiose, quasi spavalde. Un gruppo di donne scelte da Tilde Capomazza e Marina Tartara senza che nessuno ci chiedesse mai se eravamo iscritte a qualche partito o protette da chissà chi» racconta Silvia Neonato, una delle redattrici. «Nel 1980 mi mandarono tre giorni ad Atene a filmare e raccontare un matrimonio ortodosso. Eravamo già incuriosite dalla multiculturalità, dalle differenze. Una serata la dedicammo alla prostituzione, senza nascondere nulla, neppure i clienti; e arrivammo a 8 milioni di ascolti, un record. L’idea era sempre la stessa: occhi di donna su ogni evento di cronaca o documento del passato. Prima di noi non l’aveva fatto nessuno e nessuno ci censurò. Almeno fino all’arrivo, nell’81, della nuova direzione». Al successo del pubblico, infatti, non corrisponde quello politico. A metà del quarto anno finisce l’avventura di Si dice donna. Come mai? Ricorda Tilde Capomazza: «Cambio di direzione e i nuovi arrivati, il craxiano Pio De Berti Gambini e Gianni Minoli, a poco a poco distrussero il programma, mettendolo in seconda serata, poi rendendolo quindicinale. Alla fine, nell’aprile 1981, lo chiusero con la scusa che la puntata sull’aborto non era stata equidistante e incombeva il referendum».
Valentina Ersilia Matrascia
Chi era Tilde Capomazza
Si dice donna nasce dal lavoro di tante donne, ma soprattutto dalla caparbietà di una: Tilde Capomazza. Giornalista, tra le fondatrici della rivista di studi DWF – donnawomanfemme, regista e autrice televisiva. Inseguì sempre il sogno di una TV che arrivasse a tutti e che, divertendo, trasmettesse cultura. “La donna che ha inventato la TV al femminile” viveva il suo lavoro come un «lavoro politico: processo di liberazione, affermazione del valore della donna, della sua diversità, dello sforzo che faceva nel tirar fuori pensieri mai detti, provocando le altre che erano in ascolto a ripensare se stesse». Con la chiusura del programma restò in RAI, ma subì un forte ostracismo: «Sono cresciuta umanamente e professionalmente lavorando a “Si dice donna”. Ho affrontato problemi mai trattati, difficili e delicati come la sessualità e l’aborto, ma anche l’arte, la scrittura, il pensiero sessuato delle pensatrici e delle scrittrici. E, anche se non andavo in video, è stato come mettere sempre in gioco la mia identità di genere, la mia testa e il mio corpo. È stata un’esperienza bellissima e indimenticabile nella quale ho investito tutte le mie risorse dando molto alla RAI. In seguito per otto anni ho avuto solo qualche raro incarico di lavoro fino alla pensione. Ma non importa. Quello che conta è vivere intensamente». Andò in pensione giovanissima, ma continuò, come era solita dire, a “farsi sentire” come femminista: con il libro intitolato 8 marzo. Una storia lunga un secolo, scritto nel 2009 con Marisa Ombra e producendo documentari per Aidos, Associazione italiana donne per lo sviluppo. È morta a Genova il 1° febbraio 2018. (VEM)
Bibliografia
Tilde Capomazza, “Tivvù passione mia” (Harpo editore, 2016)
Loredana Cornero, “La tigre e il violino” (Edizione Rai Eri, 2012)
Loredana Cornero, “1977. Quando il femminismo entrò in tv” (Harpo editore, 2017)