(dal nostro corrispondente a Roma, Gilda Luzzi)
#NONINMIONOME non è un ashtag ma è il grido di dolore e di protesta contro la sentenza di primo grado emessa dalla Corte d’Assise di Roma per l’omicidio di Marco Vannini, il giovane ucciso nella casa della sua fidanzata. Un grido che ieri (17 maggio, ndr), nella ricorrenza del terzo anniversario della morte, da Cerveteri, città natale del ragazzo e sede della manifestazione principale, ha riecheggiato in tante piazze d’Italia. Tutta la penisola, infatti, si è unita a mamma Marina e papà Valerio in segno di solidarietà e di conforto ma anche per urlare con fermezza il proprio disconoscimento di una sentenza tanto incomprensibile quanto offensiva.
Non serve tirare fuori le carte processuali. Basterebbe ascoltare le telefonate fatte al 118, le bugie raccontate, le urla strazianti di Marco, il non aver avvertito subito due genitori che adoravano il proprio figlio, aver cercato alibi e false ricostruzioni la sera dell’omicidio prima e in caserma poi per capire che hanno agito da branco: tutti contro uno. E allora basterebbe tutto questo sì, per affermare, senza paura di smentita, che una famiglia intera andava condannata, padre, madre, figlia, figlio e fidanzata del figlio. E invece no, il giudice Anna Argento, è riuscita a trovare delle attenuanti per il capofamiglia – che si è addossato la responsabilità dello sparo anche se la dinamica tuttavia lascia molto perplessi – condannato a 14 anni e derubricato a omicidio colposo la pena per il resto del branco (3 anni), riuscendo perfino ad assolvere la fidanzata del figlio dei Ciontoli.
E allora un giudice che legge una sentenza di questo genere non può usare come premessa “in nome del popolo italiano” perché un tale dispositivo è solo in nome suo, non in nome nostro. Probabilmente la verità non la sapremo mai, ma la giustizia la pretendiamo. Tutti!
“Marco è mio figlio
Marco è mio fratello
Marco è mio nipote
Marco è il fidanzato di mia figlia”
È stato il tributo di apertura da parte di Rita D’amore, organizzatrice del “gruppo romano”, la vera anima della manifestazione tenutasi davanti al “Palazzaccio”, che, senza lasciarsi scoraggiare, si è destreggiata, indomita, tra autorizzazioni da ricevere e limitazioni da rispettare.
Sulla piazza, sotto lo sguardo inquieto della statua di Camillo Benso Conte di Cavour, e davanti a quel Palazzo di Giustizia che dovrebbe essere garanzia di equità di giudizio, tante piccole fiammelle si sono accese per terra e nei cuori di ciascuno per alimentare una speranza che nessun giudice incapace potrà mai spegnere.
“Non esistono parole per dare conforto a una famiglia che ha vissuto una tragedia così – dice commosso un grande combattente per la verità come Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, la cui scomparsa è ancora piena di misteri che chiedono di essere svelati -. Però chi fa un mestiere come il magistrato, il giudice dovrebbe farlo come una missione ossia farlo per dare Giustizia. E quando questa Giustizia viene negata, non per incapacità ma per volontà, vuol dire che hanno fallito nello svolgimento della loro missione oppure che hanno sbagliato mestiere. Fortunatamente queste famiglie riescono ad avere la solidarietà di tante persone oneste, come quelle che sono qui questa sera e in tante altre piazze d’Italia, che hanno un forte senso della giustizia che non deve mancare mai. Perché solo così si può continuare a sperare”.
Simbolicamente vicini a mamma Marina e a papà Valerio, c’erano uomini, donne, bambini. C’erano i dolori e le gioie di ciascuno, come quelli di Rita Caldara, mamma di Natascia, uccisa dal proprio compagno a cui la “solita” giudice Argento ha comminato una condanna di soli cinque anni: il suo dolore quando racconta l’ingiustizia, la sua gioia quando parla del suo nipotino. C’erano i sorrisi e i pianti di ogni singola vita, le storie diverse e uguali di chi non può e non vuole lasciarsi sconfiggere. Al termine della manifestazione, tutti i cartelli con la scritta #noninmionome, con le firme e i pensieri dei partecipanti sono stati affissi tra due lampioni della piazza e, mentre tutti tornavano verso casa, le fiammelle delle candele con la scritta Marco continuavano a luccicare per alimentare una speranza inesauribile.