Contrariamente a tutte le ragionevoli previsioni il volo TK 1354 è pieno di viaggiatori. Non solo lavoratori turchi che rientrano in patria per le ferie, ma anche numerosi turisti, soprattutto giovani, soprattutto fiamminghi e olandesi, notoriamente oculati turisti. Benché le ambasciate e i consolati abbiano messo in guardia dinanzi ai pericoli, l’attrattiva economica è irresistibile. Negli ultimi mesi il turismo in Turchia è crollato del 40% e nella sola Antalya, mecca di russi ed europei, in 220.000 si sono ritrovati senza lavoro. Alberghi a 5 stelle da 400 euro a notte svendono ora le camere a 80 euro e i giovani più intrepidi colgono l’occasione al volo.
La Turchia che ci accoglie è un Paese di giovani grazie alla politica demografica promossa dal presidente Tayyep Recep Erdogan. La formula kemalista del 2+2 è stata sostituita dal 2+3 dal partito islamista AKP che chiede almeno tre figli per coppia islamica turca per avvicinarsi a quel 2+n dei curdi dell’Anatolia orientale. Il risultato è che oggi la popolazione si appresta a superare gli 80 milioni e il tasso di disoccupazione tra i giovani è altissimo. Un’esenzione dall’obbligo di visto da parte dell’UE sarebbe una buona valvola di sfogo per permettere a questi giovani di trovare un lavoro in Europa. Le conseguenze, ove questa promessa estorta all’Unione europea col ricatto di farla invadere da milioni di profughi fosse mantenuta, sarebbero incalcolabili. L’Europa non sembra ancora aver preso coscienza del progetto di concedere la cittadinanza turca a milioni di siriani. D’un colpo solo i siriani divenuti cittadini turchi perderebbero il diritto all’assistenza in quanto rifugiati, alleggerendo così la spesa pubblica e verrebbero a godere degli stessi diritti dei turchi. Inutile aggiungere che al referendum indetto dal presidente Erdogan per trasformare la Turchia in una repubblica di tipo azero voteranno in massa a suo favore, per migrare subito dopo in Europa ormai esenti di visto.
Nel frattempo migliaia di giovani scalmanati, ma sorprende tra loro il numero di donne velate, scorrazzano a bordo di ogni tipo di veicolo per le strade di Istanbul divenute rosse per le tante bandiere portate in processioni chiassose e a tratti insopportabili. A tutte le ore del giorno e soprattutto della notte, quando il traffico della metropoli si affievolisce un tantino e al brivido della velocità si unisce il piacere sottile di disturbare il sonno degli abitanti dei quartieri aleviti o curdi. La Turchia, uno stato in cui convivono 36 etnie, dopo il fallito colpo di stato del 15 luglio è più che mai lo stato dei turchi. Ad ogni 100 metri enormi cartelloni affissi dopo il 15 luglio gridano la parola d’ordine “La sovranità è della nazione”, il Millet, parola cara ai nazionalisti xenofobi, contrapposta a quella di origine araba Halk, popolo, preferita dalle sinistre. In molti crocicchi sono stati allestiti i “presidi della democrazia”.
In realtà sono semplici gazebo standardizzati, ne devono essere stati prodotti a migliaia, in cui si vende una moltitudine di gadget di tipo calcistico: bandiere e sciarpe con l’immagine sovrimpressa del presidente Erdogan, bandiere turche di tutte le taglie, fez e bamboline, portachiavi, mouse pad, ecc. Risaltano le finte targhe automobilistiche col numero 1923, anno di fondazione della Repubblica da parte di Ataturk, altrimenti assente da tutto l’ambaradam. Questa è oggi la democrazia in Turchia.
Ma sono giorni di festa e di sballo. Tutti i trasporti pubblici sono gratuiti fino al 1° agosto. Le compagnie telefoniche su ordine del Presidente della repubblica raddoppiano gratuitamente ogni ricarica prepagata, i dipendenti pubblici possono chiedere giorni di ferie per andare alla Mecca, il comune distribuisce kebab gratuito alle masse diseredate che ogni giorno convergono dalle lontane periferie verso piazza Taksim per osannare il presidente vittorioso e commemorare i martiri della democrazia. Il più commovente di tutti è il giovane sergente che sotto la minaccia di essere ucciso se non avesse sparato alla folla preferì tirarsi un colpo alla tempia.
I caduti tra i golpisti, invece, sono già stati sepolti in un apposito cimitero denominato “dei traditori”, sotto enormi mucchi di sfabbricidi e senza neanche una preghiera. Le linee telefoniche degli uffici pubblici fanno risuonare nelle attese marce patriottiche mentre sui monitor dei vagoni della metropolitana e degli autobus scorrono i volti dei giovani eroi. Nei condomini i vicini fanno a gara ad esporre la Al Bayrak, la gloriosa bandiera vermiglio con la mezzaluna di Bisanzio e la stella. Un tale che aveva protestato contro la bandiera troppo grande del vicino che gli copriva la finestra è stato prontamente tradotto in galera per vilipendio alla bandiera e offesa al capo dello stato. La televisione trasmette ininterrottamente su tutti i canali tavole rotonde e comizi. Ogni giorno uno stillicidio di misure e contromisure sempre più draconiane.
Il capo dello stato ha proclamato lo stato d’eccezione ed ha assunto il comando dei servizi segreti e dello stato maggiore generale. Altri posti chiave sono stati destinati ai membri della sua famiglia e del suo cerchio magico. La sua figura ineffabile ormai trascorre nel mito: comandante supremo delle forze armate vittoriose, guida illuminata dei credenti, nuovo califfo, caudillo, conducator e generalissimo in tutti i canali e telegiornali, a tutte le ore del giorno e della notte e in tutte le pose e in tutte le salse. I suoi moniti e le sue parole d’ordine risuonano su tutti i media e su tutti i social. L’ultimo, il più perentorio e al tempo stesso gravido di conseguenze e di sottintesi è: “Occidente bada ai fatti tuoi!”.
Mentre le alte gerarchie delle forze armate sono rimaste saldamente al proprio posto, università e tribunali e scuole e uffici pubblici e ministeri, bassi e alti ranghi della polizia hanno subito epurazioni che ricordano molto le famose purghe staliniane. Sono stati colpiti migliaia di elementi sospettati di simpatie col movimento del predicatore Fetullah Gulen, vera e propria bestia nera del presidente. Interessante personaggio questo predicatore venuto dalla provincia profonda, con titolo di studi equivalente alla quinta elementare, ma che ha scritto decine di libri, fondato centinaia di scuole in tutto il mondo, tra cui una anche a Roma, per promuovere un Islam moderato e dialogante con la società moderna. Tanto dialogante da assomigliare ad una fotocopia delle nostre Opus dei o Comunione & Liberazione. Cioè ad uno stato parallelo, come dice il governo turco, che si accorge ora che il buon vecchietto auto esiliatosi da anni in Pennsylvania per curarsi da una brutta malattia, ma secondo altri per meglio gestire il suo impero miliardario e tramare con la CIA, aveva infiltrato tutti i gangli dell’apparato statale. Lo stesso governo non dice però che lo ha potuto fare perché per anni il partito AKP del presidente Erdogan e il movimento di Fetullah Gulen sono stati alleati strettissimi nell’assalto allo stato laico kemalista. E così la lacerante lotta di potere che ora si svolge sotto i nostri occhi assume i contorni di una tragedia greca. C’è qualcosa di profondo e di insondabile in questo odio viscerale del “discepolo” Erdogan verso l’ex maestro Gulen. La stampa d’opposizione spiegava tutto con un banale regolamento di conti tra bande rivali iniziato nel dicembre dell’anno scorso, quando i giudici fedeli a Gulen resero noti i furti commessi dai ministri e dai familiari del presidente.
Ma ora che 16 reti televisive, 23 stazioni radiofoniche, 45 quotidiani e 29 case editrici sono state chiuse e i loro giornalisti incarcerati è ancora più difficile farsi un’idea. La stampa europea parlava di navi e aerei turchi scomparsi nel nulla. Il governo accusa apertamente la CIA e gli europei di essere i veri ispiratori del golpe fallito. Se ciò fosse vero, la CIA che ha al suo attivo magnifici colpi di stato riusciti in mezzo mondo, primo tra tutti quello in cui trucidò il presidente cileno Allende, sarebbe ridotta davvero male. In realtà difficilmente sapremo chi ha architettato questo strano colpo di stato. Soprattutto perché i mass media occidentali hanno dimostrato ultimamente una totale incapacità a capire questo complesso e sventurato Paese. Peccato venale a fronte dell’impreparazione e del dilettantismo delle istituzioni comunitarie e nazionali che da anni non ne azzeccano una. Il loro silenzio è stato talmente imbarazzante da far pensare ai turchi che dietro al colpo di stato c’erano proprio loro. Di certo non conosceremo mai i nomi di chi ha architettato questo strano colpo di stato, in cambio conosciamo sin da ora chi ne ha beneficiato grandemente. E chi pagherà il conto di queste settimane di allegra baldoria e spensierate bisbocce.
PS: Nell’assordante fragore di queste giornate si è spento nel centesimo anno della sua vita il più grande storico dell’impero ottomano. Il professore Halil Inalcik aveva speso la sua lunga e brillante carriera accademica a spiegare agli occidentali che i turchi ottomani non erano così sanguinari come loro li dipingevano e ai turchi che l’impero ottomano non doveva essere rimpianto. Per somma ironia della sorte l’orazione funebre è toccata all’ex primo ministro prof. Ahmet Davutoglu, l’inventore della sciagurata politica neo ottomana di cui Erdogan cerca ora di sbarazzarsi alla svelta.
Jean Ruggi d’Aksaray