Come richiesto mi sono presentata, puntuale alle 6.30.
Nemmeno il tempo di prendere possesso della stanza e già mi ritrovo nuda con quei terribili camicioni aperti sul didietro. Non sono dignitosi. In questo contesto, il “vedo non vedo” appare sotto una luce di impietosa ridicolaggine. Sono funzionali pero’, è questo che conta.
Sistemo tazza, posate e cambi per simulare una specie di ambiente familiare, ma non c’è tempo: prelievi, pressione, elettrocardiogramma. In cinque minuti due aghi: che organizzazione!
Certo, il tutto avviene in assoluto silenzio, nessuno si preoccupa di spiegarmi come si svolgeranno gli eventi; ma cosa pretendo? Mica possono perdere tempo! Ci sono tanti pazienti e altrettante check list da seguire! Ma ho paura e vorrei chiedere cento cose. Ma la voce non viene. A me, cui la parola non manca mai! Sarà l’odore del disinfettante che mi serra la gola?
Finalmente il chirurgo! Ora lui mi spiegherà, tranquillizzandomi.
Macché, mi porge al volo un foglio che a malapena riesco ad intravedere, ma su cui comprendo che la mia firma è indispensabile, ed è già sparito, insieme al mio coraggio di chiedere.
Un rapido saluto ai familiari, da tempo debitamente parcheggiati in corridoio, e vengo spedita veloce come la luce in sala operatoria ! Non si puo’ perdere tempo… l’efficienza prima di tutto.
E’ vero, ma io non sono un numero, io non sono come gli altri, io sono un medico.
Di sale operatorie ne ho viste in vita mia, ma da sdraiata e nuda, chissà come, mi fanno un effetto diverso. Fredde innanzitutto. Sembrano una cella frigo. E poi queste luci sparate negli occhi. E tanta, tanta gente che mi gira intorno, ognuna indaffarata ma efficiente nel proprio compito, ma nessuno che mi guardi, al punto che mi domando se siano accorti che sono stata depositata lì già da qualche minuto. Li sento parlare del più e del meno e mandare SMS (cerco di ricordare se in sala operatoria sia ammesso il cellulare e se io l’abbia mai utilizzato, ma non ricordo, non sono sicura – certo è che non è bello e mi fa salire l’ansia).
Poi sento una carezza sul viso. E un viso sorridente appare sopra il mio: ”Buongiorno, sono il dottor Vittorio, l’anestesista. Stai tranquilla, stai serena, adesso facciamo questo e poi quest’altro…” sempre accarezzandomi il viso.
E io mi calmo. La paura è passata. Il freddo è passato. I racconti sul week end non li sento più. Sono certa di essermi addormentata sorridendo.
Per ogni medico stare “dall’altra parte”, da quella del paziente, è terribile.
Conosci patologie e procedure, ma quando sei malato diventi inerme, impaurito come tutti. Tutto quello che sai non serve più a niente. E capisci.
Capisci che efficacia e professionalità sono fondamentali, ma non sufficienti.
Che accanto ci devono sempre essere empatia e comunicazione.
Forse a qualcuno nemmeno servono esaustive spiegazioni, ma quella carezza e quel sorriso, quelli, servono a tutti. Anche ad un medico. A me sono serviti.
E, quindi, ti ringrazio collega. Perché hai buttato fuori a calci dalla sala operatoria la mia paura e mi hai ricordato di non dimenticare mai nel mio lavoro, la dolcezza, il sorriso, le carezze.
LG