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È stata una tavola conviviale quella che ci ha accolto al CITIM (Centre d’Information Tiers Monde) giovedì 2 aprile  scorso, in occasione del lunch-dèbat presieduto da Sandrine Mansour-Mérien. La discussione fa parte di un più ampio programma di incontri artistici, culturali, musicali e cinematografici, parte del progetto “Palestine-Israël, regard de l’autre/regarde l’autre”. È la questione palestinese, quindi, la causa comune che unisce diversi autori, artisti e cineasti in Lussemburgo per i mesi di marzo ed aprile 2015.

 

Sandrine Mansour-Mérien è docente di Storia e Ricercatrice presso il CRHIA (Centre de recherches en histoire internationale et Atlantique) dell’Università di Nantes che, in occasione dell’incontro, ha presenta il suo libro edito da Privat nel 2013: L’Histoire occultée des Palestiniens 1947-1953.

palestina

 

Fare una sintesi dei principali argomenti trattati non è semplice dal momento che la polemica fra gli storici è tutt’altro che vicina ad un punto di svolta. Lo studio della professoressa Mansour-Mèrien prende le mosse dal al-Nakba: letteralmente in arabo significa disastro o catastrofe ed è il termine per mezzo del quale si identifica l’esodo palestinese del 1948. Le cause della diaspora del popolo palestinese è materia di scontro tra i ricercatori e i politici: questo in ragione del fatto che ad esse si fa riferimento per chiarire e risolvere i conflitti arabo-israeliani ad oggi ancora in armi. Bisogna fare un excursus storico per inquadrare la questione e tornare alla fine della Grande Guerra, quando l’Impero Ottomano (La Sublime Porta), sebbene avesse inflitto numerose sconfitte agli eserciti francesi, inglesi ed australiani, perse la guerra insieme ai suoi alleati (la coalizione con gli Imperi Centrali Germania, Austria-Ungheria, Regno di Bulgaria). L’esito della Prima Guerra Mondiale comportò la disgregazione della Sublime Porta per mano dei regni vincitori: proprio dalla disfatta ottomana molti studiosi rintracciano le radici storiche della questione palestinese. Nello specifico la professoressa ci parla dell’Accordo Sykes-Picot (ufficialmente conosciuto come Accordo sull’Asia Minore): un patto segreto tra i governi del Regno Unito e della Francia i cui negoziati furono condotti, con l’assenso della Russia, tra il Novembre del 1915 e il mese di Marzo del 1916. Questo documento riguarda la divisione delle rispettive sfere di influenza nel Medio Oriente: approssimativamente al Regno Unito spettava il controllo sulle zone comprendenti la Giordania, l’Iraq ed un’area piuttosto piccola intorno ad Haifa, mentre la Francia assumeva in controllo della zone sud-est della Turchia, la parte settentrionale dell’Iraq, il Libano e la Siria. La Palestina, secondo l’accordo Sykes-Picot, doveva essere affidata ad un’amministrazione internazionale che coinvolgeva l’Impero russo ed altre potenze. L’Impero Britannico sin dal 1914 aveva incitato e veicolato le rivolte contro l’Impero Ottomano promettendo l’indipendenza araba allo Sharif Hussein della Mecca. Fu la stessa Gran Bretagna nel Novembre del 1917 a siglare la Dichiarazione Balfour che rappresenta il primo passo di una contraddizione politica lunga 95 anni. Questa dichiarazione, infatti, rappresenta il primo successo del movimento sionista il quale inizierà un programmatica colonizzazione verso la Palestina. L’obiettivo dei britannici, secondo queste analisi, sembra essere proprio quello di avere una base stabile in Palestina per poter sfruttare le grandi risorse economiche dell’area (giacimenti petroliferi e la vicinanza al canale di Suez quale principale via di commercio con l’Asia).

Sandrine ci mostra la lettera scritta da Arthur James Balfour, l’allora ministro degli esteri, indirizzata a Lord Rothschild, erede di una dinastia di banchieri, rappresentante della comunità ebraica inglese e referente per il movimento sionista.

Il lavoro dello storico deve, però, tener sempre in considerazione che la storia è fatta da uomini e la ricerca non può basarsi su un’unica causa che ha determinato un unico effetto. Per questa ragione Sandrine agli interessi economico-politici dell’Impero Britannico lega anche gli interessi del nascente movimento Sionista. Il progetto sionista fu teorizzato da Theodor Herzl un giornalista ungherese di religione ebraica che nel 1894 rimase turbato e indignato come Zola[1] della condanna per alto tradimento del Capitano Alfred Dreyfus per mezzo di false ed inconsistenti prove. Ciò che colpi Herzl fu il forte sentimento anti-ebraico che si sviluppo in Francia, tanto da indurlo alla conclusione che il popolo ebraico non avrebbe mai raggiunto un benessere ed un’integrazione permanente senza una vera e propria patria. Il Sionismo nasce, quindi, come ideologia nazionalista in risposta ad un antisemitismo in ascesa. Herzl viaggiò a lungo in cerca di un supporto economico alla sua causa. Nel 1896 pubblicò Der Judenstaat (Lo Stato ebraico) all’interno del quale sono esplicitate le modalità per la realizzazione di uno Stato per gli ebrei. Nello stesso anno a Basilea si tenne la prima grande conferenza sionista alla quale parteciparono delegati di tutto il mondo. Nei 4 punti fondamentali del programma di Basilea si teorizzava l’ambizioso progetto del ritorno nella Terra Promessa di Israele. Sandrine sottolinea, inoltre, che uno dei “miti” dell’ideologia sionista che giustificava la colonizzazione proprio in Palestina e tutt’ora sostenuto da alcuni storici, è la comune credenza che questa terra fosse economicamente trascurata e pressoché deserta. In realtà nella prima parte de L’Histoire occultée  des Palestiniens 1947-1953, Sandrine, attraverso scritti storici e testimonianze orali, ci dimostra che, ad esempio, il tasso di alfabetizzazione era nella media degli altri paesi dell’epoca e che vi era un forte dinamismo economico grazie allo sviluppo di industrie alimentari e tessili.[2] I Congressi Sionisti si riunirono ogni anno per proseguire l’opera di stabilizzazione di una “National Home” in Palestina. Nel 1901, quattro anni dopo il primo Congresso, un fondo speciale denominato Jewish National Fund (JNF) fu istituito per acquistare terre nella regione, sulle quali gli ebrei colonizzatori avrebbero potuto insediarsi e lavorare. I soldi del fondo provenivano da tutto il mondo ed erano donati dagli ebrei rimasti affascinati dagli ideali sionisti; fu così che a soli tre anni dall’istituzione del JNF, si raggiunse la somma per poter effettuare il primo acquisto di terre in Galilea. È in questa serie di concause che Sandrine inserisce il nascente antagonismo fra la comunità araba in Palestina e l’Yishuv.

Di fatti in Palestina vi erano alcune comunità ebraiche fin dal 1882: il noto “vecchio yishuv”, ovvero “vecchio insediamento” era formato da ebrei ortodossi che vivevano pacificamente con le comunità cristiane, mussulmane ecc., praticando l’agricoltura. Con l’affermazione del movimento sionista, le immigrazioni verso la Palestina si fecero più massicce e questo portò anche alla creazione di intere città come Tel Aviv (Collina della Primavera) nei pressi del sovraffollato porto di Giaffa nel 1909. I primi scontri violenti tra ebrei e palestinesi sono messi in relazione con la fondazione dell’HaShomer (Il Guardiano) ad opera del partito socialista sionista: si trattava di un’organizzazione di difesa della comunità ebraica in Palestina fondata nel 1909, la cui costituzione prevedeva una serie di atti (ad esempio boicottavano la forza lavoro locale) che risultarono ostili alla comunità palestinese[3]. Nel 1919 l’Emiro hascemita Faysal ibn al-Husayn (re della Siria dal 1918 e futuro re dell’Iraq dal 1920) firmò gli accordi Faysal-Weizmann alla Conferenza di pace di Parigi: questi accordi autorizzavano l’insediamento di un focolare nazionale ebraico in Palestina al quale i capi locali delle comunità arabe e palestinesi erano tutt’altro che favorevoli! In un crescendo di tensioni tra ebrei e palestinesi l’accordo fu respinto e a partire dal Marzo del 1920 numerosi furono gli attacchi in Galilea da parte di gruppi militari palestinesi. Il 4 Aprile 1920 dopo una processione, la folla istigata dai politici e personaggi di spicco della società, saccheggiò il quartiere ebraico di Gerusalemme. La reazione britannica fu incostante e solo dopo molti giorni e numerose vittime, soprattutto ebrei, si riuscì a ristabilire l’ordine. Ciò che stupisce di più di questo avvenimento è che dopo i disordini, su domanda della leadership araba palestinese, la Gran Bretagna ispezionò gli uffici e gli appartamenti della leadership sionista. Il ritrovamento delle armi nelle loro abitazioni portò ad una commissione d’inchiesta la quale addebitò la responsabilità dei disordini alla Commissione Sionista per aver provocato gli arabi. Certo è che uno dei risultati più importanti della comunità araba, dopo i moti del ’20-’21, fu la decisione del blocco dell’immigrazione programmata degli ebrei in Palestina da parte della Gran Bretagna. In risposta alle decisioni del governo britannico gli ebrei in Palestina costituirono la Haganah (la Difesa). Questa organizzazione finirà per trasformasi, grazie all’acquisto di armamenti stranieri, in esercito vero e proprio ed ebbe anche un ruolo fondamentale per l’immigrazione illegale degli ebrei in Palestina contro i provvedimenti britannici.

 

Sui volti dei partecipanti  sono spariti allegria e spensieratezza. L’atmosfera diventa pesante ed è come se un grande senso di colpa fosse sceso su ognuno degli ascoltatori attenti. Cosa c’è di occultato nella storia palestinese che Mansour-Mérien ci sta mostrando?

È sui rapporti contrastanti tra forze ebraiche legali ed illegali e Gran Bretagna, che la storica insiste, mettendo in evidenza come se da un lato queste due forze cooperarono per la disfatta nazista nella Seconda Guerra Mondiale, dall’altro lato, dopo la grande Rivolta del 1936-1939 condotta dal nazionalisti palestinesi, la stessa Gran Bretagna restringe severamente l’immigrazione ebraica in Palestina (il Libro Bianco del 1939).  Dal 1922 al 1939 i britannici favoriranno senza limitazioni l’immigrazione ebraica in Palestina, così come l’instaurazione dello Yishuv, ma, secondo le ricerche della professoressa, pur di non perdere l’appoggio delle comunità palestinesi, non esitarono a restringere il loro campo di azione con provvedimenti che verranno di volta in volta violati dalle stesse comunità ebraiche.

Con il concludersi della Seconda Guerra Mondiale, inoltre, le potenze internazionali sentirono di dover riparare alla Shoah: il problema dei profughi ebrei in Europa e il movimento sionista furono al centro di numerosi dibattiti, mentre in Palestina le forze delle potenze arabe e la Lega Araba avevano costituito ormai un vero e proprio movimento nazionale. La democrazia internazionale non riuscì, quindi, a conciliare questi due opposti schieramenti e, sia le comunità ebraiche che quelle palestinesi, erano intolleranti alla presenza britannica. Nel 1947 la Gran Bretagna, dopo aver subito una serie di azioni terroristiche, annunciò la rinuncia al mandato in Palestina. Nello stesso anno l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite votò un piano di partizione della Palestina sulla base della Commissione Peel britannica proposta già nel 1937 durante la Grande Rivolta Araba del ‘36-‘39. Sulla scia della sentenza internazionale, la situazione degenerò in Palestina provocando tra il Dicembre del 1947 e il mese di Marzo del 1948 il primo grande esodo: più di settantacinquemila persone, perlopiù della borghesia palestinese, emigrarono nei paesi arabi vicini. L’espressione Yawm al-Nakba (Giorno della catastrofe) identifica proprio la ricorrenza commemorata ogni 15 Maggio dai palestinesi e dai paesi arabi: una ricorrenza che la Knesset ha proibito nelle sue manifestazioni di lutto e dolore con una legge nel 2010. Lo studio dietro la stesura del libro di Sandrine Mansour-Mèrien si inserisce nel contesto di una rinnovata storiografia israeliano-palestinese che sta riesaminando l’esodo del 1948 ridefinendolo come atto di pulizia etnica. Questa rivisitazione affonda le sue radici nelle opere dello studioso Ilan Pappè che, insieme ad altri storici come Benny Morris, a seguito dell’apertura nel 1988 degli archivi militari israeliani, hanno dato avvio ad una nuova corrente di pensiero storiografico definito post-sionista. Ciò che preme a questi storici così come alla nostra autrice, è sottolineare le contraddizioni delle analisi storiche israeliane tradizionali che, ad esempio, identificavano come causa principale e preponderante dell’esodo palestinese, gli ordini di fuga impartiti dal Supremo Comitato Arabo e dai Dirigenti dei Paesi Arabi.

In realtà secondo l’autrice le due grandi ondate di esodo del 1948 e la pulizia programmata delle frontiere fino al 1950 fanno parte di un programma voluto, organizzato e realizzato dal governo israeliano. L’autrice come molti altri autori della sua corrente di pensiero, basa le sue tesi sull’analisi del Piano Dalet: un piano bellico di 75 pagine stabilito dall’Haganah nel 1948. Questo programma fu stilato durante la prima fase della Guerra Arabo-Israeliana e fu adottato all’indomani della fine del mandato britannico con l’intento, secondo la nostra autrice, di organizzare una direttiva politico-militare per l’espulsione degli arabi dalla Palestina. Secondo altri storici il Piano D era funzionale alla difesa dagli imminenti attacchi e al rafforzamento delle frontiere all’indomani della decisione ONU di partizione della Palestina decisamente iniqua e pro-sionista.

Sandrine vuole rendere omaggio alla memoria della Palestina chiarendo le dinamiche dell’esilio e parlandoci di una Palestina che c’era e che c’è, che ha una sua storia e un suo diritto di esistere.

Una Palestina che sta scomparendo e di cui non rimangono che pochi villaggi: isole all’interno di una grande prigione a cielo aperto.

L’autrice, inoltre, racconta la difficoltà che ha incontrato con ben tre Editori i quali, dopo aver analizzato l’argomento, hanno rescisso il contratto in quanto “il soggetto era troppo polemico” o il testo presentava “troppi nomi arabi”.

“La Storia è un lavoro pericoloso” commenta un insegnate seduto al nostro tavolo e ringrazia la professoressa di averci illustrato una storia volutamente taciuta anche nei più grandi manuali.

Fabrizia Crispi


[1] La lettera aperta “J’accuse” di Emile Zola al Presidente della Repubblica Francese Félix Faure in difesa di Alfred Dreyfus, pubblicata il 13 Gennaio 1898 sul giornale francese L’Aurore;

[2] A.Gresh, Israele, Palestina, Einaudi, 20404, p.19, documento dal titolo “Verità della terra di Israele”: “(…)Abbiamo l’abitudine di credere che la terra di Israele sia oggi del tutto deserta, arida e incolta: ma la verità è completamente diversa (…). Se verrà il giorno in cui la vita del nostro popolo nel paese si svilupperà al punto da spingere in là, anche solo di un poco, la popolazione locale, questa non abbandonerà mai il suo posto facilmente”;

[3] gli scontri di Jaffa del 1908 e il boicottaggio antiebraico di Hebron.

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