In occasione del Salon du Livre 2015, all’interno del Festival des Migration, Cultures et citoyenneté che si è svolto tra il 13 e il 15 marzo scorso, abbiamo incontrato Andrea Scagnetti, autore di «Spremuta d’arancia», pubblicato nel 2012 per le edizioni Atramenta e tradotto in francese e pubblicato con il titolo «Oranges pressées» per le Edizioni Convivium (Luxembourg, 2015). Ecco cosa ci ha raccontato.
Quando hai cominciato a sentire il bisogno di scrivere?
Ho cominciato quando mi sono reso conto che nelle altre discipline che ho esplorato non potevo riuscire. All’inizio mi ero iscritto ad una scuola di pittura, che continuo tutt’oggi: si tratta di un talento per cui però non mi sento particolarmente dotato. Quando avevo 23 anni ho avvertito una grande necessità di fare teatro. Ho provato con un’accademia di teatro, che ho frequentato per tre anni e si è rivelata davvero massacrante: oltre ad essere psico-fisicamente indistruttibili, per farsi largo bisogna pestare i piedi della gente, non poteva essere la mia via. Ho anche studiato musica e composto una cinquantina di canzoni, alcune delle quali hanno avuto fortuna e sono state degne di menzione. In seguito mi sono cimentato nel canto; anche in quel campo, se vuoi realizzare un disco ci vogliono musicisti, uno studio, devi essere disposto a pagare: come mezzo espressivo risulta meno immediato. Alla fine mi sono deciso a scrivere. Ho cominciato relativamente tardi, a 31 anni – sono 10 anni quest’anno – , con le poesie e i racconti; ma i racconti non facevano per me, che sono più sintetico.
La commedia (il testo teatrale “Gita ad Alberobello”, pubblicato nel 2015 per i tipi di Atramenta, ndr) è stata un’eccezione, l’ho scritta a 28 anni. Scrivo essenzialmente poesie o testi di teatro. A un certo punto ho capito che dovevo scegliere, il teatro posso farlo anche in maniera amatoriale. Bisogna scegliere, quando si fanno troppe cose non se ne fa bene nessuna; alla fine ho optato per la scrittura.
Dove puoi far risalire le tue radici letterarie?
Radici letterarie vere e proprie ne posso elencare poche, ti dico la verità. Non ho osato dirlo durante la conferenza perché potevo risultare un falso modesto, ma non ho studiato molto, un po’ per problemi di salute, un po’ perché forse non avrei neanche voluto, per cui non ho una conoscenza sufficiente della Divina Commedia o di Carducci…
Quali sono i poeti che ti piacciono e che ti hanno ispirato?
Forse Ungaretti, ma non necessariamente tutto; qualcosa di Sandro Penna, dell’ultimo Saba, qualcosa di Alda Merini…
Quando scrivi pensi mai all’Italia?
No, mi dispiace dirlo ma non ho in mente nessun luogo quando scrivo. Io mi sento italiano, cioè, se dovessi sentirmi qualcosa mi sentirei italiano. Ma non vedo tutta questa necessità di essere orgoglioso di essere italiano, questo patriottismo per cui daresti qualsiasi cosa. Comunque non mi sento francese, ancor meno lussemburghese, per cui alla fine mi sento italiano, ma non ha mai avuto rilevanza se non per questa Gita ad Alberobello – la commedia che ho scritto – che alla fine si svolge in Italia. Sono stato ad Alberobello due volte e mi è piaciuto, ma il luogo è un pretesto, poteva essere la Costa Amalfitana, qualsiasi cosa, mi era simpatico.
Da dove nascono le tue poesie? Da dove nasce l’ispirazione che ti fa sentire il bisogno di scrivere?
Dalle cose semplici, quotidiane, cose da poco, però nello stesso tempo anche cose più corpose come la sofferenza e il dolore.
Si tratta di un bisogno oppure vuoi solo catturare un attimo, è casuale, slegato da considerazioni di questo tipo?
È una necessità, ma non è detto che dopo mi senta meglio. Mi sento soddisfatto di averla scritta. Quello che per me è importante è la “poesia” (durante la conferenza hanno parlato di “poeta”, io storcevo il naso). Se Poeta o no, non è che mi interessi, e la Poesia una volta buttata fuori non è più mia; è lo stesso processo della donna che partorisce un bambino: essa è responsabile del bambino, deve accudirlo, ma ad un certo punto il bambino va da solo. Oggi molti si focalizzano sul Poeta, ma per me è più importante la Poesia; l’importante è che dopo resti: probabilmente le mie poesie sopravvivranno molto più di me.
Qual è stata la scintilla che ti ha portato a pubblicare?
Claudio Cicotti (professore della Facoltà di Lettere dell’Università di Lussemburgo, ndr), è lui che ha creduto in me, che mi ha spinto a pubblicare la mia prima raccolta di poesie.
Come mai hai sentito la necessità di tradurre i tuoi poemetti in francese?
Perché molti dei miei amici francesi non riuscivano a leggere in italiano quello che scrivevo e mi hanno chiesto esplicitamente di farne una traduzione.
Tu scrivi perché rispondi ad un’esigenza, ma pensi anche al pubblico?
Sì. Forse è un limite, però è vero che cerco sempre di immaginarmi nella testa di colui che leggerà questa poesia, a volte domandandomi: “Capirà, in qualche modo? Potrà raccapezzarsi?”. Per il testo teatrale è più semplice. Per le poesie questa cosa a volte mi frena. Oggi per esempio, Maurizio Cieri nella presentazione ha tirato fuori cose che lui vedeva e di cui io non mi ero mai reso conto, che non avevo mai neanche pensato, mi ha sorpreso!
Puoi dirci qualcosa di più sulla tua commedia “Gita ad Alberobello” di cui abbiamo precedentemente parlato?
In tre atti viene presentata una famiglia di quelle nevrotiche, psico-farmaco dipendenti, che bisticciano in continuazione, con due figli di cui uno a 28 anni ancora a casa, tipico di adesso. Nella prima scena i nostri eroi decidono di partire per Alberobello, ma già al momento delle valigie iniziano a litigare. Annibale, che è il capofamiglia, ha il vizio di fare i ricatti. Dice: “Continuate a fare così, ché domani non si parte”. Ad ogni scena del primo atto viene paventata la minaccia di restare a casa. Al secondo atto si trovano però già in un motel, i genitori in una stanza e i figli in un’altra, con una porta comunicante. La prima scena è fra i due fratelli, la seconda fra marito e moglie, con alcuni scambi. Tra i due coniugi nasce la promessa di trascorrere due settimane come una famiglia normale. In effetti all’inizio del terzo atto si è già quasi alla fine delle due settimane, tutti sembrano aver trovato un equilibrio. Finché non succede qualcosa che scatena l’ultima lite furibonda: Annibale parte senza di loro. Una fine triste insomma, non si capisce se effettivamente li lascia lì.
Per questo testo da dove ti è venuto lo spunto?
Siccome avevo terminato l’accademia, mi sono detto “Perché non provare a scrivere qualcosa?” Ho preso spunto da diverse vicende di vita vissuta. Due amici di famiglia, quando la lessero, già all’epoca mi suggerirono di pubblicarla. Ho aspettato quasi 13 anni. Ma questo sempre grazie a Cicotti che mi ha dato il via, perché uno può aspettare, ma se ci pensa troppo….
Alessia D’Ippoliti