Venerdì 12 dicembre, presso la sede della Dante Alighieri, la Libreria Italiana e l’Istituto Italiano di Cultura, hanno organizzato un incontro tra passato e presente, dati storici e sapere culinario, egregiamente interpretato dagli autori dei due libri presentati, i coniugi Elma Schena e Adriano Ravera, giornalisti e scrittori, studiosi di storia e costume, esperti di gastronomia, ma soprattutto, esploratori appassionati e insaziabili di ricerca.
Un fiume in piena di aneddoti, tradizione gastronomica, personaggi che hanno fatto la storia e che si svelano inaspettatamente golosi, in un dialogo disinvolto che ha arricchito e divertito un pubblico particolarmente coinvolto, e che si è spinto fino alle attuali problematiche di una cucina italiana proiettata verso l’Expo Milano 2015.
Il libro Le Alpi a tavola (Priuli & Verlucca, 2009) ha portato alla scoperta dell’alimentazione della classe popolare dell’arco alpino, con i suoi prodotti locali, le ricette tipiche, le consuetudini del focolare domestico. Un territorio dalla forte identità culinaria ricostruita attraverso l’esperienza diretta degli autori, il dialogo con la gente di montagna e la ricerca d’archivio.
Il secondo libro A tavola nel Risorgimento (Priuli & Verlucca, 2011) vincitore del prestigioso Premio Bancarella Cucina, è stato un viaggio dal Congresso di Vienna all’età Giolittiana.
Uno spaccato storico privo di celebrazione patriottica, investigato nel Laboratorio Ravera, che ad archivi e documentazione, rigore storico e dati puntuali, ha aggiunto ricette, cultura gastronomica e una straordinaria forza comunicativa del cibo.
Il libro testimonia come la cucina, la sfera organolettica e il piacere di mangiare si mescolino, condizionino e decretino convenienze sociali, interessi politici e alleanze strategiche. Così si passa da I Trattati firmati in punta di forchetta ai Banchetti e matrimoni per tessere alleanze.
A chiusura serata è stata rilasciata un’intervista a PassaParola, che ha visto la partecipazione attiva anche del pubblico.
Tradizione e innovazione. Un’innovazione della tradizione da alcuni voluta e da altri contestata. Qual è il confine tra evoluzione in chiave moderna per rispondere a bisogni reali, e abuso del mito della tradizione con l’inevitabile sua spettacolarizzazione?
Certamente occorre evitare il gioco del “Mulino Bianco”, che vede l’industria appropriarsi della cucina tradizionale, utilizzarla impropriamente, e mettere in scena falsi miti. Questo non significa che si debba imbalsamare la tradizione; l’evoluzione va bene nella misura in cui implichi anche rispetto. Dove esiste la tradizione conserviamola e rispettiamola: partendo da questi presupposti il cuoco si senta libero anche di fare innovazione, di rispondere ad esigenze e gusti diversi da quelli del passato, di deliziare con ottimi prodotti, ma l’innovazione va comunicata come tale e non spacciata per tradizione.
Quando decidere di cambiare il nome di un piatto della tradizione, se ormai tecniche, ingredienti, quantità sono variate rispetto alla ricetta originale?
Se si tratta solo di alleggerimento di alcuni ingredienti, come nel caso dei condimenti per rispondere ad esigenze salutari mutate, allora il nome può rimanere invariato. Non ci si aspetta di certo che si faccia ancora il pesto nel mortaio, ma se ci si spinge a cambiarne un ingrediente, o ad eliminarne un’altro, come ad esempio togliendo dal pesto l’aglio, allora bisognerebbe cambiare anche il nome. Occorre aggiungere però che partire dalla tradizione per reinterpretarla in chiave contemporanea è un fatto intrinseco della gastronomia, è anche così che si è evoluta nel tempo, talvolta partendo da ricette estremamente povere.
Non c’è quindi una regola, se non quella del buon senso…
Expo Milano 2015. Come affiancare la valorizzazione della tradizione culinaria, ad argomenti urgenti e complessi quali i paradossi tra fame e obesità, spreco e sfruttamento eccessivo delle risorse naturali?
Se si riesce a valorizzare alimentazione e prodotti di un territorio, il passo è breve..La cucina di un territorio, qualunque esso sia, nasce dalla cucina del popolo, che non conosceva sprechi, che doveva apportare il giusto fabbisogno nutritivo, soprattutto in termini calorici, per affrontare giornate di intenso lavoro, ed in alcune aree anche di clima rigido, come per l’arco alpino. Era un’alimentazione semplice ma sana, che utilizzava materia prima stagionale e a km 0.
Solo analizzando quanto accaduto nel passato si può pensare al futuro. La cucina d’oggi è priva d’anima perché non ha radici. Il cuoco deve prima essere un cuoco di tradizione e solo dopo un cuoco creativo. La cucina deve essere legata all’uomo e la territorio.
Se si riesce a dare il giusto valore, e quindi il giusto prezzo ai prodotti di un territorio, ragionando in una chiave universale come dall’esempio di Slow Food con Terra Madre, si può riuscire ad innescare un processo di crescita e incentivazione di economie in Paesi poveri. Expo Milano 2015 sarà una grossa sfida!
Daniela Fusillo