Il “dopo”. 11 anni dalla data che cambiò il mondo. Intervista a Silvia Tessitore, giornalista ed editrice, autrice di “Eleven in September”.
“Eleven in September” è il tuo secondo libro che tratta del “dopo” di una tragedia. Una scelta consapevole o un caso?
Forse sì, forse no. Mi rendo conto di essere più coinvolta dalle storie di terrorismo, perché considero la furia del terrorismo ancor più cieca e crudele della logica della guerra. C’è in effetti una curiosa coincidenza tra il mio lavoro precedente – “Diario della paura”, sulle stragi di mafia del 1992-93 – e questo “Eleven in September”, sull’attacco al World Trade Center di New York. Entrambi trattano di torri crollate, quella dei Georgofili a Firenze, abbattuta dal terrorismo mafioso, e le Twin Towers, ed entrambi sono usciti per il decennale. Mi auguro di cuore, e fuor di retorica, che non ne vengano giù altre.
Tu che ricordi hai di quel giorno?
Un ricordo tremendo, come tutti – credo.
Come mai hai deciso di parlare proprio di questo tema?
Perché l’11 settembre ha avuto su di me un impatto violentissimo. Per tante ragioni, che in parte ho provato a spiegare nel testo.
Cosa significa parlare del “dopo”?
Significa indagare sulla persistenza del dolore, sulla traccia incancellabile che l’11 settembre ha lasciato nella vita di coloro che quel giorno sono scampati alla morte, quasi miracolosamente – direi, e di coloro che hanno assistito all’attacco, al crollo delle Torri, alla mutilazione dello skyline di New York. Significa provare a capire come sono cambiate le vite di sopravvissuti e testimoni, di un’intera città, in seguito a quell’esperienza: avvicinarsi a loro, in qualche modo partecipare del loro dolore.
Traspare, da quello che hai scritto, un grande coinvolgimento personale. Come può, evento del genere, colpire il singolo e influenzare la sua vita?
Viviamo tempi di grande incertezza, dappertutto. Chi ha raggiunto come me la soglia della maturità proprio all’inizio del nuovo Millennio, e magari ha sognato e provato nel suo piccolo a costruire un mondo migliore, quel giorno si è trovato davanti a un orizzonte del tutto mutato, sono crollate – insieme alle Torri – troppe prospettive e speranze, compresa quella di poter vivere almeno serenamente la seconda parte della propria esistenza. I più vecchi hanno rivissuto orrori che speravano di non dover mai più rivivere, i più giovani si sono trovati davanti alle macerie del futuro. Penso che, al di là della maggiore o minore consapevolezza di ciascuno, l’11 settembre ci ha trasformati tutti, chi più, chi meno. Non casualmente s’inizia a studiare il potere anche simbolico che quella storia ha assunto sui nostri comportamenti, sul nostro modo di pensare, di intendere la vita. Il concetto di sicurezza personale – al di là di quanto e come questo concetto sia stato cavalcato, utilizzato, manipolato – è stato messo duramente in discussione, l’11 settembre. E questo fa la differenza.
C’è qualcosa che avresti voluto scrivere e non hai fatto? Perché?
No, relativamente a questa vicenda credo d’aver scritto tutto quello che dovevo.
A chi è chi ti rivolgi?
Potrei dire a tutti: nel senso che la mia esperienza potrebbe averla fatta chiunque, al posto mio, oggi tutti hanno la possibilità di avvicinarsi ed entrare in relazione con i più grandi eventi della storia con le proprie gambe, la propria testa, il proprio cuore, basta volerlo. In questo, la mia esperienza è tutt’altro che speciale, e vorrei che questo messaggio arrivasse forte e chiaro. In realtà, chi scrive sa che sta scrivendo per chi lo leggerà, non per tutti. Io vorrei che a leggermi fossero soprattutto i ragazzi, quelli più giovani. E’ il mio chiodo fisso.
Sono stati scritti diversi libri sul 9/11; anche la produzione cinematografica ha offerto diversi punti di vista. Il tema è attuale o ormai solo un tema di repertorio?
Sicuramente, il decennale dell’11 settembre ha stimolato una certa produzione, saggistica e narrativa, attorno a quell’evento. Nel 2005, quattro anni dopo, ai tempi del mio primo viaggio a New York, scrivere dell’11 settembre negli Stati Uniti era ancora considerato “despicable or quaint”, spregevole o eccentrico. Con l’andare del tempo, l’elaborazione del trauma e il bisogno di storicizzare quell’evento hanno alimentato sicuramente la necessità di scrivere, raccontare, scavare dentro i fatti. Il grande rischio è che l’inflazione delle immagini della tragedia possa farne “repertorio”, ci possa in qualche modo assuefare, riducendo l’impatto emotivo che quelle immagini – e tutte le storie che stanno dietro a quelle immagini – hanno avuto su di noi dieci anni fa. Parlo di rischio perché considero il tema di grandissima attualità: mi riferisco al rischio globale al quale ormai siamo tutti soggetti, in ogni area del pianeta. Il dato certo è che l’11 settembre resterà alla storia come “il giorno che ha cambiato il mondo”, sicuramente uno spartiacque che ha sbaragliato e rovesciato quasi ogni certezza.
Per la pubblicazione hai scelto il selfpublishing e non la tua casa editrice. Come mai questa scelta?
Per vari motivi. Innanzitutto, per mantenere un profilo realmente autonomo dal mondo nel quale lavoro e del quale mi occupo da quasi vent’anni. In secondo luogo, perché ho già pubblicato due libri per la mia piccola casa editrice, e la cosa ancora mi duole: considero il conflitto d’interessi una roba serissima, anche su piccola – piccolissima – scala. Poi, perché sono ormai da tempo, e sempre più, insofferente verso le logiche che governano il mercato dell’editoria in Italia: un mercato che negli ultimi dieci anni o poco più ha visto crescere in maniera esponenziale il potere dei grandi gruppi che rappresentano oltre l’80 per cento del fatturato nazionale, sia in termini di produzione che di distribuzione. Un mercato fatto dai grandi per i grandi, in cui ciò che conta è la capacità economica e “l’affiliazione” (uso provocatoriamente un termine del lessico mafioso) alle consorterie dominanti, di destra e di sinistra. Infine, perché ho molta fiducia nella rete, e il mio libro è in vendita solo online su ilmiolibro.it.
Elisa Cutullè