Ogni settimana una poetessa, un poeta, un profilo, una citazione sul suo intendere il modo di costruire le parole, la sua poesia.

Piero Chiara

Pierino Angelo Carmelo Chiara detto Piero nasce il 23 marzo 1913 a Luino  verso la parte più  settentrionale del Lago Maggiore vicina al confine svizzero, località

che sta più o meno alla base del collo di quello  strano canide che puntando le zampe su Arona  spinge su il muso verso Locarno, come sembra il Verbano  guardato dall’alto. Il padre Eugenio, arrivato da Resettano, nelle Madonie siciliane, a Luino come finanziere dopo Napoli vorrebbe chiamarlo Liborio, come suo padre sposato con Angela Cammarata, ma prevale la madre, Angela Maffei, una verbanese arrivata a Luino da un paesello della sponda piemontese, Comnago, vicino a Lesa, e Liborio diventa Pierino e in seguito Piero. Mentre il compaesano e coevo Vittorio Sereni, anche lui figlio di un finanziere, compie un percorso impeccabile di studi e si laurea presto a Milano con una tesi su Guido Gozzano, Pierino da bambino si rivela un autentico Giamburrasca. Indisciplinato all’asilo, bocciato in terza elementare, è un alunno assente, distratto, perso in pensieri lontani, dalla concentrazione difficile che attribuisce alla scelta materna di non averlo operato di adenoidi. Affetto da una forte miopia, usa quello che chiama il suo “microscopio naturale” per perdersi negli infiniti reticoli degli occhi delle mosche cha ha bloccate sul suo banco mentre la maestra recita una per lui lontanissima lezione. Oppure marina la scuola “dimenticando” la cartella nei cespugli e razziando vigne e frutteti, esplorando ruderi e ville disabitate o sfasciando lampioni a sassate. Ma addirittura anche lanciandosi appeso ad un grosso ombrello dai tetti vicini sulle bancherelle cariche di merci del mercato di Luino…

I genitori, esasperati, lo confinano a dieci anni nel collegio dei Salesiani Don Luigi di Intra, e due anni dopo nel 1925 al piu’ distante Collegio De Filippi di Arona. Nel 1927 è nuovamente bocciato alla fine della seconda complementare. Per risollevare il morale del genitore affranto dai ripetuti insuccessi scolastici del figlio, si iscrive all’istituto Omar di Novara dove consegue un diploma di perito meccanico e si propone come apprendista presso un fotografo luinese che pero’ fallisce poco dopo. A Piero Chiara non resta che la via del privatista. Riesce effettivamente nel 1929 grazie alla pazienza di una insegnante svizzera a superare la licenza complementare. Intanto da autentico autodidatta ha divorato i classici della Biblioteca Parrocchiale, da Dante, a Carducci, a Melville, a Pirandello, a Salgari a Leopardi a Dostoevskij. Passa parte dello stesso anno a Milano come aiutante fotografo ma nel 1930 emigra in Francia col permesso del padre. Lavora da scrivano a Nizza presso l’agenzia Stefani, ha una vincita occasionale al Casino’ di Montecarlo, poi passa a Lione dove fa lo sguattero per poi arrivare a Parigi  dove ha la sventura di finire alla Santé per un errore giudiziario provocato da una sua visita ad alcuni carcerati italiani. Rientra in Italia con foglio di via. Ma avrà trovato materia per scrivere il romanzo autobiografico “Il cappotto di astrakan”.

Nel 1931 la sua vita conosce una svolta. Prudentemente il padre lo aveva consigliato di presentarsi ad un concorso per funzionario dell’Amministrazione di Grazia e Giustizia nel ruolo di “aiutante volontario di cancelleria”. Ad ottobre 1932 il ministro lo chiama risultando al centodiciottesimo posto su centodiciannove vincitori di concorso. Viene comandato come soprannumerario alla pretura di Pontebba nell’Alta Carnia e poi alla pretura di Aidussina sul confine sloveno. Dal suo primo incarico trarrà l’indimenticabile romanzo “Vedro’ Singapore?”.  Non sempre sottolineato dalla critica, il suo passaggio nella Amministrazione, che non sarà lungo dato che se ne pensionerà già nel 1963, a soli cinquant’anni, per dedicarsi esclusivamente alla scrittura, eserciterà comunque una chiara influenza sulla sua ispirazione. Passerà in seguito alla Pretura di Varese dopo un procedimento disciplinare conclusosi nel 1934. A Varese conclude nel 1936 un infelice matrimonio da cui nel 1937 ha comunque un figlio, Marco, con  Jula Scherb, figlia di un noto chirurgo zurighese. Nel 1940 vorrebbe dare una svolta radicale alla sua vita stabilendosi in Bolivia ma lo scoppio della guerra lo trattiene in Italia sino alla sua fuga in Svizzera nel gennaio del 1944, inseguito da un mandato di cattura del Tribunale Speciale Fascista  per avere il 25 luglio 1943 messo il busto di Mussolini nella gabbia degli imputati del tribunale in cui lavorava. Ritornerà in Italia solo nel 1945, il 23 luglio, dal valico di Chiasso,  dopo aver nel frattempo insegnato italiano in un liceo cantonale sulla cattedra già tenuta da Giancarlo Vigorelli . La sua naturale sensibilità descrittiva, la sua acuta percezione di uomini e situazioni che esprime con la libertà di chi non appartiene storicamente ai luoghi e alle comunità descritte come il mondo piccolo delle comunità del Lago Maggiore si arricchisce dell’esame dei casi umani che il suo lavoro di cancelliere porta in continuazione a sua conoscenza. Il suo mondo poetico che spesso rasenta il fantastico prende piede in fatti, avvenimenti, delitti che arrivano sotto i suoi occhi dal mondo reale e spesso tragicamente teatrale dei tribunali. La sua vena fatta di introspezione, di sensibilità narrativa non disgiunta da uno sguardo spesso ironico sulle verità, sui valori o sui disvalori spesso narrabili, ma qualche volta indicibili della vita, si arricchisce, si completa. Dai suoi cinquant’anni per ventitré lunghi anni Chiara esprimerà tutta la sua ricchezza espressiva nei romanzi, alcuni celeberrimi, nei racconti, nella saggistica, nel suo apporto importante sulla vita e le opere di Giacomo Casanova. Come non ricordare i suoi racconti da “Le corna del Diavolo” a “Con la faccia per terra” a *Ti sento Giuditta” a “Viva Miglivacca!” a “l capostazione di Casalino”.

E i suoi dieci romanzi pubblicati in quindici anni fra il 1962 e il 1987: da “il Piatto piange” che lo rivela al pubblico italiano sino ai “Saluti notturni dal passo della Cisa” pubblicato postumo nel 1987 con in mezzo quella “Stanza del Vescovo “premiata con il Premio Napoli di Narrativa.

Il tutto avendo come strumento di espressione la padronanza di un perfetto italiano dalla sintassi magistrale che è all’origine non ultima della decisione presa dal comune di Varese di onorare la sua memoria tre anni dopo la sua morte avvenuta nel 1986 con un concorso letterario annuale rivolto a raccolte pubblicate in Italia e nella Svizzera italiana. Tempo prima sarà stato proprio Vittorio Sereni ad avere avuto il merito di aver rivalutato la qualità letteraria dell’opera di Piero Chiara abbastanza tardivamente riconosciuta dalla critica ufficiale quasi circospetta sul suo straordinario successo editoriale.

Se in “Vedro’ Singapore?” Chiara immagina di rispondere sull’attenti all’Alto Commissario Mordace – che ha sorpresi i funzionari intenti nel gioco delle carte in ore d’ufficio nella pretura di Aidussina- di essere l’involontario aiutante di cancelleria, richiesto di dire “Da dove diavolo siete! Donde provenite!”  a Chiara esce una frase apparentemente senza senso “Dalle onde del Lago Maggiore”. Ma la frase qui aveva invece tutto il suo senso. Proprio le onde del Lago Maggiore avevano prodotto il miracolo dello scrittore, del poeta nella magnifica simbiosi fra lui e   l’intimo mondo del lago.

LORIS JACIN

“Quando ero in collegio dai preti al De Filippi di Arona e frequentavo la seconda ginnasiale, il professore d’italiano, Don Franceschi, che era nasuto come San Carlo, dava un tema per settimana…..Ma un giorno dettò questo tema :”Parlate del vostro paese”. Aveva capito che i suoi allievi avrebbero finalmente riversato sulla carta la piena dei loro cuori, spesso attanagliati dalla nostalgia del paese nativo e dell’ambiente famigliare al quale erano stati tolti poco più che infanti.

Per il mio paese, che era distante da Arona quattro o cinque ore di battello e nascosto dal promontorio che segnano le contorsioni del Lago Maggiore tra le Alpi e la pianura, spasimavo in segreto fin dal primo giorno di collegio. Mi pareva il più bel paese del mondo, il luogo di tutte le delizie, dove ogni casa, ogni pianta, ogni ciottolo delle rive aveva parole per me. Aspettavo di tornarci nelle brevi vacanze di Natale e di Pasqua  e in quelle più lunghe dell’estate, contando come un carcerato i giorni che mi separavano dal rientro.

L’anno prima, liberato dal collegio in ritardo a causa di una reprimenda che un prefetto aveva pensato di farmi proprio l’ultimo giorno di scuola e un momento prima che partisse il battello per l’alto lago, arrivai di corsa con la mia valigia al pontile quando il Regina Madre lentamente se ne staccava. Il capitano mi vide dall’alto del suo ponte, ma ormai il battello stava muovendosi e non era pensabile che per un ragazzetto magari bocciato agli esami, quel padreterno gallonato ordinasse una retromarcia e un nuovo accostamento della fiancata al pontile, con relativo lancio della passarella, come accadeva qualche volta quando un ritardatario arrivava al momento i cui si ritirava il barcarizzo.

Il marinaio che stava arrotolando il cavo d’ormeggio, vedendomi arrivare apri’ la bocca in una risata additandomi ai viaggiatori che stavano in coperta. Guardavo con strazio sfilare l’ultimo battello della giornata, dove erano imbarcati due o tre miei compaesani e compagni di collegio arrivati per tempo. Proprio loro, comparsi ad un parapetto, mi fecero segno di gettarmi dal pontile dentro il battello, che sfilando lentamente accostava la parte di poppavia ai piloni di legno dell’imbarcadero. Lanciai la valigia fra i cordami e saltai dentro il battello andando a fermarmi, con un ruzzolone, contro un sedile. Fui subito afferrato per un  braccio dal marinaio, che mi portò davanti la capitano a render conto della mia azione. Per fortuna si trattava del capitano Caccia, amico di mio padre, che da anni mi vedeva andare su e giù col battello da Luino ad Arona….”

“Tornando al prof. Franceschi ormai di santa memoria certamente, e al tema che ci aveva  dato, ricordo che fui travolto, scrivendo il mio componimento di getto su due o tre fogli doppi, dalla nostalgia per il mio paese lontano e forse, per la prima volta, da un sottile e misterioso piacere: quello di scrivere, di far rivivere i fatti, i luoghi, le persone che mi andavano apparendo nella mente e che trattenevo con gioia il tempo necessario per fissarli sulla pagina, nella quale prendevano un nuovo aspetto, più gradevole di quello vero.

Quando arrivai in fondo al mio lavoro, mi accorsi di aver scritto dieci pagine, nelle quali avevo raccontato la storia del mio balzo sul Regina Madre l’anno prima, poi avevo parlato del mio paese descrivendolo compiutamente, col le colline alle spalle, il bel fiume Tresa a lato, nello sfondo la curva aerea del monte Lema e davanti il bel golfo azzurro sempre ravvivato dal vento fresco delle Alpi.

Mi profusi nel decantare la mia casa, nell’antica via dei Mercanti, col suo balcone barocco sopra la doppia scalea di granito rosa della facciata, dissi del piccolo porto dove ero cresciuto tra le barche con i figli dei barcaioli e dei pescatori, raccontai un’impresa aviatoria che avevo compiuto gettandomi dal tetto di casa con un paracadute improvvisato e tante altre mie vicende legate alle poche strade del vecchio borgo dove ero nato e dove avevo vissuto felicemente fin quando, per i tristi suggerimenti del coadiutore Don Alessandro, mia madre si era indotta a chiudermi in collegio…….Il Professore don Carlo Franceschi quando lesse il mio componimento trasecolo’…….Mi diede un voto mai toccato a nessuno: dieci. E gliele sono grato ancora oggi, come d’un regalo spropositato che doveva avviarmi molto più tardi ad un’arte che è l’unica, se ci penso, adatta ai miei pochi talenti, quella di raccontare…”

………

“In quel palazzo barocco, con le imposte sagomate, i ferma-porte, i balconi in ferro battuto, le “vele” ai soffitti e i camini enormi, di marmo veronese venato come una bondiola. Quei fregi, quelle porte dalla sommità ondulata e soprattutto quegli armadi dipinti di un color rosa antico, hanno certamente influito sulla mia  inclinazione per il Settecento”

(da Di Casa in Casa, la Vita, 30 racconti)

“Tutto arriva al mio balcone; ed io ho abbandonato i soldatini e le carte, mi tengo ai ferri del parapetto, vi appoggio il viso per essere tutto all’esterno, immerso in quegli odori e in quei rumori*

(da Dolore del Tempo)

Ricordando i versi di un amico vissuto al Lago d’Orta, Augusto Mazzetti, che  poetava “ Oh lago, lago, lago!/ sciogliermi infine con te/ per essere un giorno pescato/ come un antico luccio” osservava in una intervista a G.Benincasa “ Lo scrivere, il raccontare, è per me come il lago per il povero Mazzeni, vorrei sciogliermi nelle mie pagine, per essere pescato non un giorno, ma ogni giorno, come un antico luccio, cioè come uno dei miei personaggi ideali.”

(da Intervista a G. Benincasa)

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