Ogni settimana una poetessa, un poeta, un profilo, una citazione sul suo intendere il modo di costruire le parole, la sua poesia.

Eugenio Montale

Si è tanto scritto su Montale che per una volta Loris ha deciso di non aggiungere il suo ai tanti commenti, lasciandolo direttamente parlare e dando del poeta solo alcuni cenni biografici. Osserva solo che Montale è una graziosa frazione sopra Levanto ai margini delle Cinque Terre e che proprio a Monterosso la sua famiglia passava le vacanze estive. Il ragazzo nato a Genova nel 1896, cagionevole di salute, dopo le medie al Vittorino da Feltre tenuto dai Barnabiti aveva evitato per volontà della famiglia i più impegnativi studi classici e fatto invece studi di Ragioneria al Vittorio Emanuele, peraltro con ottimi voti. Era stata la sorella Marianna iscritta a Filosofia ad aprirlo su delle letture classiche e filosofiche. Si fosse sentito ragioniere di lui non si sarebbe probabilmente mai parlato: si sarebbe probabilmente inabissato vita natural durante in uno dei tanti scagni marittimi genovesi riemergendone solo alla pensione.

La sua formazione da autodidatta gli permette invece di scoprire interessi e vocazioni attraverso un percorso libero. Si appassiona alla letteratura, in particolare a DantePetrarcaBoccaccio e D’Annunzio, autori che lo stesso Montale affermerà di avere attraversato, e coltiva l’interesse per le lingue straniere. Gli anni della giovinezza delimitano in Montale una visione del mondo in cui prevalgono i sentimenti privati e l’osservazione profonda e minuziosa delle poche cose che lo circondano: la natura mediterranea, gli scorci della Liguria  e le donne della famiglia.

In questo periodo di formazione Montale coltiva inoltre la passione per il canto, studiando dal 1915 al 1923 con l’ex baritono Ernesto Sivori, omonimo del grande violinista genovese Ernesto Camillo Sivori, esperienza che lascia in lui un vivo interesse per la musica, anche se non si esibirà mai in pubblico.

Montale che in guerra ha servito come ufficiale, giunge a Firenze nel 1927 per lavorare come redattore  presso l’editore Bemporad. Nel capoluogo toscano gli anni precedenti erano stati decisivi per la nascita della poesia italiana moderna, soprattutto grazie alle aperture della cultura fiorentina nei confronti di tutto ciò che accadeva in Europa: le Edizioni de La Voce; i Canti Orfici di Dino Campana (1914); le prime liriche di Ungaretti per la rivista Lacerba e l’accoglienza di poeti come Vincenzo Cardarelli e Umberto Saba.

Montale, dopo l’edizione degli straordinari Ossi di seppia del 1925, nel 1929 è chiamato a dirigere il Gabinetto scientifico letterario G. P. Vieusseux. Curiosamente, come ricordava lo stesso Montale, fu inserito in una lista di possibili candidati da Paolo Emilio Pavolini e venne scelto dall’allora podestà fiorentino Giuseppe Della Gherardesca, essendo l’unico non iscritto al Partito Fascista. Dieci anni più tardi, per l’identico motivo, Montale venne esonerato dall’incarico, dopo che per 18 mesi gli era stato sospeso lo stipendio, nel tentativo di “incoraggiarlo” a iscriversi al PNF.
In quegli anni collabora alla rivista Solaria, frequenta i ritrovi letterari del caffè Le Giubbe Rosse conoscendovi Carlo Emilio GaddaTommaso Landolfi ed Elio Vittorini e scrive per quasi tutte le nuove riviste letterarie che nascono e muoiono in quegli anni di ricerca poetica. In questo contesto prova anche l’arte pittorica imparando dal Maestro Elio Romano l’impasto dei colori e l’uso dei pennelli. Nel 1929 è ospite nella casa di Drusilla Tanzi (che aveva conosciuto nel 1927) e del marito, lo storico d’arte Matteo Marangoni, casa dove due anni prima gli avevano presentato anche la giovane austriaca Gerti Frankl. Alla morte di Marangoni Drusilla più anziana di undici anni diviene la moglie amatissima che lo lascerà prematuramente per una caduta domestica nel 1963, pochi mesi dopo il matrimonio.

Montale trascorre l’ultima parte della sua vita (dal 1948 alla morte) a Milano. Diventa redattore del Corriere della Sera occupandosi, in particolare, del Teatro alla Scala  ed è critico musicale per il Corriere d’informazione. Scrive inoltre reportage culturali da vari Paesi (fra cui il Medio Oriente, visitato in occasione del pellegrinaggio di papa Paolo VI in Terra Santa). Scrive altresì di letteratura anglo-americana per la terza pagina, avvalendosi anche della collaborazione dell’amico statunitense Henry Furst, il quale gli invia molti articoli su autori e argomenti da lui stesso richiesti.

Il 23 luglio 1962 a Montereggi, presso Fiesole, sposa con rito religioso Drusilla Tanzi, di undici anni più anziana di lui, con cui conviveva dal 1939; il rito civile si celebra a Firenze il 30 aprile 1963 (Matteo Marangoni, primo marito di lei, era morto nel 1958). La donna tuttavia, la cui salute si era rapidamente deteriorata, per la frattura di un femore in seguito a una caduta accidentale nell’agosto di quell’anno, morirà a Milano il 20 ottobre, all’età di 77 anni. Nel 1969 è pubblicata un’antologia dei reportage di Montale, intitolata Fuori di casa, in richiamo al tema del viaggio. Il mondo di Montale, tuttavia, risiede in particolare nella “trasognata solitudine”, come la definisce Angelo Marchese, del suo appartamento milanese di via Bigli, dove è amorevolmente assistito, alla morte di Drusilla, da Gina Tiossi.

Le ultime raccolte di versi, Xenia (1966, dedicata alla moglie) Satura (1971) e Diario del ’71 e del ’72 (1973), testimoniano in modo definitivo il distacco del poeta – ironico e mai amaro – dalla Vita con la maiuscola: «Pensai presto, e ancora penso, che l’arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato» (Montale, Intenzioni. Intervista immaginaria, Milano 1976). Sempre nel 1966 Montale pubblicò i saggi Auto da fé, una lucida riflessione sulle trasformazioni culturali in corso.

In vita, non fu iscritto ad alcun partito politico se si eccettua la breve parentesi nel Partito d’azione. Nel 1967 è tra i vicepresidenti di Una Voce Italia, associazione internazionale per la salvaguardia della Messa Tridentina.

Nel pieno del dibattito civile sulla necessità dell’impegno politico degli intellettuali, Montale continuò a essere un poeta molto letto in Italia.
Nel 1975 riceve il premio Nobel per la letteratura «per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni». In tale occasione, pronuncia un discorso dal titolo “È ancora possibile la poesia?”, in cui sostiene che la vera poesia sgorga dall’interiorità dell’anima, essenza vitale dell’essere umano.

Nel 1976 scrive il commiato funebre a un suo celebre collega defunto, il salernitano Alfonso Gatto.

Muore a Milano la sera del 12 settembre 1981, un mese prima di compiere 85 anni. Viene sepolto nel cimitero accanto alla chiesa di San Felice a Ema, sobborgo nella periferia sud di Firenze, accanto alla moglie Drusilla. Nella seduta del successivo 8 ottobre, il Senato commemorò la figura di Montale, attraverso i discorsi del presidente Amintore Fanfani e del presidente del Consiglio Giovanni Spadolini. Il suo archivio (insieme a volumi, disegni, arredi e opere d’arte) come per molti altri poeti italiani è conservato presso il Centro per gli studi sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia..

LORIS JACIN

INTENZIONI

Falsetto

Esterina, i vent’anni ti minacciano,
grigiorosea nube
che a poco a poco in sé ti chiude.
Ciò intendi e non paventi.
Sommersa ti vedremo
nella fumea che il vento
lacera o addensa, violento.
Poi dal fiotto di cenere uscirai
adusta più che mai,
proteso a un’avventura più lontana
l’intento viso che assembra


l’arciera Diana.
Salgono i venti autunni,
t’avviluppano andate primavere;
ecco per te rintocca
un presagio nell’elisie sfere.
Un suono non ti renda
qual d’incrinata brocca
percossa!; io prego sia
per te concerto ineffabile
di sonagliere.

La dubbia dimane non t’impaura.
Leggiadra ti distendi
sullo scoglio lucente di sale
e al sole bruci le membra.
Ricordi la lucertola
ferma sul masso brullo;
te insidia giovinezza,
quella il lacciòlo d’erba del fanciullo.
L’acqua’ è la forza che ti tempra,
nell’acqua ti ritrovi e ti rinnovi:
noi ti pensiamo come un’alga, un ciottolo
come un’equorea creatura
che la salsedine non intacca
ma torna al lito più pura.

Hai ben ragione tu!
Non turbare
di ubbie il sorridente presente.
La tua gaiezza impegna già il futuro
ed un crollar di spalle
dirocca i fortilizî
del tuo domani oscuro.
T’alzi e t’avanzi sul ponticello
esiguo, sopra il gorgo che stride:
il tuo profilo s’incide
contro uno sfondo di perla.
Esiti a sommo del tremulo asse,
poi ridi, e come spiccata da un vento
t’abbatti fra le braccia
del tuo divino amico che t’afferra.

Ti guardiamo noi, della razza
di chi rimane a terra.

 (Da Ossi di seppia )

Tramontana

Ed ora sono spariti i circoli d’ansia
che discorrevano il lago del cuore
e quel friggere vasto della materia
che discolora e muore.
Oggi una volontà di ferro spazza l’aria,
divelle gli arbusti, strapazza i palmizi
e nel mare compresso scava
grandi solchi crestati di bava.
Ogni forma si squassa nel subbuglio
degli elementi; è un urlo solo, un muglio
di scerpate esistenze: tutto schianta
l’ora che passa: viaggiano la cupola del cielo
non sai se foglie o uccelli – e non son più.
E tu che tutta ti scrolli fra i tonfi
dei venti disfrenati
e stringi a te i bracci gonfi
di fiori non ancora nati;
come senti nemici
gli spiriti che la convulsa terra
sorvolano a sciami,
mia vita sottile, e come ami
oggi le tue radici.

(da Ossi di seppia)

Dora Markus

                                                    1

Fu dove il ponte di legno
mette a porto Corsini sul mare alto
e rari uomini, quasi immoti, calano
o salpano le reti. Con un segno
della mano additavi all’altra sponda
invisibile la tua patria vera.
Poi seguimmo il canale fino alla darsena
della città, lucida di fuliggine,
nella bassura dove s’affondava
una primavera inerte, senza memoria.


E qui dove un’antica vita
si screzia in una dolce
ansietà d’Oriente,
le tue parole iridavano come le scaglie
della triglia moribonda.

La tua irrequietudine mi fa pensare
agli uccelli di passo che urtano ai fari
nelle sere tempestose:
è una tempesta anche la tua dolcezza,
turbina e non appare,
e i suoi riposi sono anche più rari.
Non so come stremata tu resisti
in questo lago
d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse
ti salva un amuleto che tu tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima: un topo bianco,
d’avorio; e così esisti!

                   2

Ormai nella tua Carinzia
di mirti fioriti e di stagni,
china sul bordo sorvegli
la carpa che timida abbocca
o segui sui tigli, tra gl’irti
pinnacoli le accensioni
del vespro e nell’acque un avvampo
di tende da scali e pensioni.
La sera che si protende
sull’umida conca non porta
col palpito dei motori
che gemiti d’oche e un interno
di nivee maioliche dice
allo specchio annerito che ti vide
diversa una storia di errori
imperturbati e la incide
dove la spugna non giunge.
La tua leggenda, Dora!
Ma è scritta già in quegli sguardi
di uomini che hanno fedine
altere e deboli in grandi
ritratti d’oro e ritorna
ad ogni accordo che esprime
l’armonica guasta nell’ora
che abbuia, sempre più tardi.
È scritta là. Il sempreverde
alloro per la cucina
resiste, la voce non muta,
Ravenna è lontana, distilla
veleno una fede feroce.
Che vuole da te? Non si cede
voce, leggenda o destino…
Ma è tardi, sempre più tardi.

(Da Le Occasioni)

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