I freddi dati del Fondo Monetario internazionale nel suo ultimo aggiornamento semestrale confermano che nonostante il bellicismo dei suoi leader l’Unione europea non può permettersi una guerra contro la Russia
Invitato qualche mese fa dalla Associazione parmense il Borgo una persona autorevole e abitualmente moderata come il presidente Romano Prodi ha espresso dai locali della Università di Parma tutta la sua preoccupazione di vedere l’Unione europea “convertita in junior partner della NATO”. Un frase carica di significato se si ricorda l’obiettivo storico della NATO sin dal 1949 riassumibile in: “Americans in, Russians out, Germans down”. Ma fondamentale, se si misura la situazione economica dell’Unione Europea oggi e le sue prospettive.
Per il momento lasciamo da parte l’Italia, la sua tradizionale dipendenza al 49% dai consumi del gas dalla Russia e l’importanza che le esportazioni verso la Russia avevano prima del 2022 in settori come la moda, l’alimentazione, le industrie meccaniche. Settori che dopo le sanzioni e la nomina di “paese ostile alla Russia” l’Italia non potrà che molto difficilmente un giorno mai riavere.
Limitiamoci ai dati che forniscono sulla situazione europea e le sue prospettive fonti considerati primarie ed intoccabili come il Fondo Monetario Internazionale, FMI, l’organismo multilaterale di prestito creato a Bretton Woods nel 1944 e considerato uno dei guardiani della realizzazione mondiale dei cardini dell’economia liberale attraverso le condizioni con cui concede prestiti ai paesi bisognosi di finanziamenti. Il FMI che mette a giorno i dati dei vari Paesi due volte l’anno ha riassunto lo scorso gennaio i dati comparativi della crescita mondiale che possiamo riassumere nella seguente tabella.
Facendo una premessa: dal 2022 ad oggi l’UE ha emesso contro la Russia 17.500 sanzioni diverse rinunziando al contempo ad acquistare tutte le materie prime che “La stazione di benzina dotata dell’arma nucleare” come è spesso chiamata la Russia era disponibile ad offrire a costi relativamente moderati ad una economia di trasformazione priva di materie prime come è l’economia europea.
Questi dati sono di drammatica evidenza perché già in sé provano che se l’Europa è stata per decenni al centro della crescita negli ultimi anni è in corso un processo di sua periferizzazione che la allontana sempre di più dalla crescita e quindi la rende sempre meno interessante per futuri investimenti con un 7,5% di crescita complessiva 2022-25 prevista contro l’11,5 % della media degli altri paesi sino al 20% dei paesi asiatici.
Ma altri dati disaggregati proprio provenienti ancora dall’FMI provano come siano proprio le sanzioni contro la Russia il fattore aggravante del trend negativo in corso.
Nell’aggiornamento semestrale che l’FMI fa dei dati previsionali di crescita ha provveduto per il triennio 2022-24 a mettere a giorno i dati sulla crescita che erano stati previsti nel dicembre 2021 confrontandoli con quelli che risultano al febbraio 2024.
La tabella seguente riassume i dati per Russia, UE, Francia e Germania che poi commenteremo riportando la perdita di crescita per le diverse economie per effetto delle sanzioni citate.
I dati dimostrano quindi che la decrescita della economia russa per i tre anni esaminati dopo sanzioni risulta inferiore alla decrescita della Unione europea contrariamente a quanto universalmente conclamato dai politici europei ( -2,40/2,90 per la Russia contro – 3,1/3,4% per la UE). Ma divengono ancora più allarmanti se vengono disaggregati riportando separatamente la situazione dei due paesi cardini dell’Europa (non dispiaccia questa definizione ai lettori italiani) che sono la FRANCIA e la GERMANIA.
I dati provano quindi che è proprio la Germania la vittima principale delle sanzioni comminate alla Russia. La Francia le soffre un po’ meno per almeno due motivi: la sua politica energetica la fa dipendere meno della Germania dalle energie fossili per i programmi di energia nucleare approvati negli Anni ’70 e poi la Francia è un paese in cui da tempo si è avviato un processo di deindustrializzazione. In Francia gli attivi nel settore industriale sono a malapena il 18% della popolazione, in Germania sono il 28%. In Italia che è inserita industrialmente nella catena di valore tedesca sono ancora il 27%. Ecco allora avverarsi come side-effect della guerra alla Russia il complessivo indebolimento dell’unico vero motore di crescita dell’Unione europea, la Germania. Una circostanza che non può certo dispiacere di là dell’Atlantico con un sistema pronto con i miliardi dell’IRA (Inflation Reduction Act) ad accogliere a braccia aperte le delocalizzazioni delle industrie tedesche che scoppiano per i costi divenuti insostenibili dell’energia. Ed ecco tutta la verità della affermazione di Romano Prodi, il riferimento alla NATO e alla sua bandiera ”Americans in, Russians out, Germans down”. Come volevasi dimostrare.
Carlo degli Abbati
Professore associato di Politica Economica e Finanziaria insegna Diritto della Unione Europea al Dipartimento di Lingue e Culture Moderne dell’Università degli Studi di Genova