Ogni settimana una poetessa, un poeta, un profilo, una citazione sul suo intendere il modo di costruire le parole, la sua poesia.

VINCENZO CARDARELLI

Quando Nazareno Cardarelli nasce nel 1887 nell’etrusca Tarquinia (Viterbo) nulla farebbe presagire il ruolo straordinario che come Vincenzo Cardarelli occuperà nella cultura italiana sino alle soglie degli Anni’60 del secolo scorso, lungo i suoi  del resto brillanti ma  faticosi 72 anni di vita.

Nasce figlio illegittimo dal gestore di un buffet ferroviario, fisicamente menomato ad un braccio, senza conoscere l’affetto di una madre, Giovanna, che lo abbandona da piccolo. Ma questo bimbo così poco favorito dalla sorte ha un temperamento di ferro ed un’ansia irresistibile di vivere, di apprendere. Dopo studi irregolari a diciassette anni se ne va di casa e approda a Roma. In questa città che, unica, ha il merito ineguagliabile in un’Italia clanica di non chiedere mai alla gente da dove viene, come nasce, fa i piu’ svariati mestieri sino ad approdare al quotidiano socialista “L’Avanti” come correttore di bozze. Per la sua facilità di scrivere e il suo stakanovismo lavorativo (sia autodefinirà “uno dei piu’ fertili imbrattacarte che si siano scatenati in una redazione”) à ventidue anni è già redattore. Collabora anche con altri fogli “Il Marzocco”, “ La Voce” , “Lirica”, “Il Resto del Carlino”. Ma trova anche il tempo di frequentare la Biblioteca Nazionale e lì, da autentico autodidatta, si forma sui testi di Pascal, Nietzsche, Baudelaire, Leopardi. Il distante Montale lo considererà in seguito lo scopritore del vero Leopardi, quello dello Zibaldone e delle Operette morali, per l’intuizione che forse favoriva la stessa rara malattia presente nei due autori, il morbo di Pott, l’osteomielite, di cui oltre Cardarelli aveva probabilmente sofferto anche Leopardi. Riformato per la sua menomazione nel periodo della Prima guerra mondiale lo ritroviamo a Firenze nel 1915 e qui frequenta l’ambiente letterario fiorentino riunito intorno a La Voce che Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini avevano fondata nel 1908 e che da allora costituiva il cenacolo degli intellettuali fiorentini dedicati a diffondere in Italia delle esperienze di rottura dal classicismo tradizionale, dall’impressionismo francese, a Rimbaud, sino al cubismo. Ardengo Soffici e Giuseppe De Robertis gli divengono amici. A Firenze pubblica nel 1916 la sua prima antologia, Prologhi. Divenuto collaboratore del Tempo di Roma vi conosce Giovanni Papini che gli apre le porte dell’editore Vallecchi.

Nel frattempo Cardarelli ha rotto con l’esperienza avanguardistica di rottura vociana per divenire co-direttore della Ronda nel 1919, rivista che si potrebbe definire di “restaurazione neo-classica”, movimento letterario definito “rondismo”. Risale a quel periodo la raccolta Viaggi nel tempo che esce con i tipi di Vallecchi. Esaurita anche l’esperienza rondista lo troviamo collaboratore del Tevere che lo manda da inviato in Russia fra il 1928 e il 1930, ma anche dal 1926 del Corriere Padano di Ferrara, e poi dell’Italiano fondato da Leo Longanesi con cui ebbe peraltro un sempre così difficile rapporto legato alla supponenza di Longanesi gli farà dire alla sua morte “E’ l‘ultimo dispetto che poteva farmi”. Dal 1930 al suo ritorno dalla Russia è collaboratore del Bargello di Firenze e lo vediamo animatore inesauribile di cento dibattiti nei caffè letterari del tempo, al caffè Aragno di Roma, al Salvini di Milano come alle Giubbe Rosse di Firenze. Finirà per esprimere un’adesione al fascismo soprattutto col testo critico del 1931 “Parliamo d’Italia” anche se non svolgerà mai un’attività politica. Nei dieci anni seguenti esprimerà una straordinaria attività poetica. Dopo la ristampa di Profughi (1931) usciranno sempre con Bompiani Giorni in piena (1934), Il cielo sulla città (1939), la silloge critica Solitario in Arcadia e soprattutto nel 1942 Poesie che gli vale il Premio Poesia 1942-XX- dell’Accademia d’Italia. Ma già nel 1929 con “Sole a Picco”, versi e prose con le illustrazioni del pittore bolognese Giorgio Morandi, aveva raggiunto la fama con la vittoria del premio Bagutta.

La sua attività letteraria continua dopo la guerra e con Villa Tarantola vincerà nel 1948 il Premio Strega, nel 1954 con Viaggio di un poeta in Russia la prima edizione del premio Napoli. Ma, soprattutto, questo autodidatta che nessuno predestinava ad una carriera letteraria diventa nel 1949 per dieci anni insieme al drammaturgo forlivese Diego Fabbri, uno dei “fabbri” potremmo dire della cultura televisiva italiana delle origini, direttore della Fiera Letteraria, la rivista settimanale di lettere, scienze ed arte che illuminerà fra il 1925 anno in cui la fonda Umberto Fracchia e gli anni ’80 il riferimento di tutti gli appassionati italiani di letteratura. Per poi cessare per ragioni economiche alla vigilia del ventennio  berlusconiano  che renderà l’Italia nelle condizioni attuali di paese dalla minore circolazione culturale di massa dell’intera Europa, situazione ideale per tentare oggi sotto altre forme la restaurazione politica  di un nuovo  Ministero della Cultura Popolare attraverso il tentativo di un’ informazione opportunamente formattata per escludere gli utenti italiani tele-radiofonici da un minimo di conoscenza dei problemi reali del pianeta. Cardarelli si spegnerà, solo, a Roma nel Policlinico, proprio nel 1959.

Ci lascia una poesia che esprime un difficile equilibrio fra una naturale impetuosità descrittiva e una forte volontà di autocontrollo, come se in lui, sopravvissuto a due epoche letterarie antitetiche, volesse conciliare nei suoi versi lo spirito avanguardista della Voce alla restaurazione letteraria neo-classica espressa dalla Ronda. Ma  quel che interessa a noi lettori è la sua felicità e facilità  descrittiva che esprime sempre e comunque nella sua voluta compostezza una natura profondità di riflessione poetica.

E l’uomo? Al di là dell’autore? Una vita di solitario, a parte un momento giovanile di amore infelice per Sibilla Aleramo, un uomo appartato che esaurita l’energia profusa nei salotti e nella foga letteraria ritrovava una sua amara solitudine, un suo mondo povero di affetti. Lo descrive così nei suoi ultimi anni di vita, Piero Buscaroli nel 2013:” Quando lo conobbi a Roma negli anni’50 era un fagotto. Stava (solo ndr)  al primo caffé di Via Veneto, aveva sempre freddo …(anche ndr) Longanesi lo aveva scaricato crudamente, e lui l’aveva capito…Longanesi era capace di freddezze assolute”.

Un successo di artista, quello di  Vincenzo Cardarelli, che non ha mai corrisposto alla crudezza invalicabile della vicenda umana del vero Nazareno. Ma la su Civita etrusca, tante volte evocata nelle sue poesie e nelle sue prose, non lo ha perlomeno mai dimenticato. La citta di Tarquinia lo ricorda con il premio di pittura a lui dedicato.

LJ

“Ho poco da dire su di me. Confesso che ho un sacro orrore di gettare gli occhi in quell’abisso che sarebbe, per caso, la mia natura. Sono un empirico e uno sperimentalista in materia. Piuttosto che sottopormi ad inutili introspezioni preferirei esprimermi, agire, per potermi giudicare a ragion veduta. Ma qui cominciano i guai. Ho io motivo di lodarmi, di essere contento dell’opera mia?

Sicuramente no. Motivo di disperarne per l’avvenire? Nemmeno. Il tempo opera in me i piu’ strani miracoli. M’ha condotto dove non immaginavo neppure di poter giungere. Nella speranza che non voglia abbandonarmi a questo punto, è tutta la mia fede, la mia certezza. ”Fede è sostanza di cose sperate…”

Quello che non riuscirò mai a prevedere, ad evitare, a sostituire, nella mia vita, è l’intervento del tempo, l’opera di questa forza incognita che ci rapisce quando meno ce l’aspettiamo, ci dismemora dei nostri propositi più fermi, e rende suscettibili di mutamento le consuetudini più inveterate. Mediante il tempo si ristabilisce, nell’ordine facilmente disgustoso e logoro della nostra esistenza, un po’ d’incertezza e di trepidazione, torna ad agire la sorpresa e il senso che, vittoriosi o sconfitti, non c’è nulla in noi di veramente definitivo. Tutto può essere perso e riguadagnato in un istante. E quel che ci sostiene e che ci porta avanti è l’impossibilità  di sapere in anticipo l’ora precisa in cui non avremo più speranze, ne timori da collocare nel tempo.”

( da Solitario in Arcadia)

SERA DI GAVINANA

Ecco la sera e spiove

sul toscano Appennino.

Con lo scender che fa le nubi a valle,

prese a lembi qua e là

come ragne fra gli alberi intricate,

si colorano i monti di viola.

Dolce vagare allora

per chi s’affanna il giorno

ed in se stesso, incredulo, si torce.

Viene dai borghi, qui sotto, in faccende,

un vociar lieto e folto in cui si sente

il giorno che declina

e il riposo imminente.

Vi si mischia il pulsare, il batter secco

ed alto del camion sullo stradone

bianco che varca i monti.

E tutto quanto a sera,

grilli, campane, fonti,

fa concerto e preghiera,

trema nell’aria sgombra.

Ma su ogni cosa come piu’ rifulge,

nell’ora che non ha un’altra luce,

il manto dei tuoi fianchi ampi, Appennino.

Sui tuoi prati che salgono a gironi,

questo liquido verde, che rispunta

fra gl’inganni del sole ad ogni acquata,

al vento trascolora, e mi rapisce,

per l’inquieto cammino,

si’ che teneramente fa star muta

l’anima vagabonda.

( da Poesie)

LIGURIA

È la Liguria una terra leggiadra.
Il sasso ardente, l’argilla polita,
s’avvivano di pampini al sole.
È gigante l’ulivo. A primavera
appar dovunque la mimosa effimera.
Ombra e sole s’alternano
per quelle fondi valli
che si celano al mare,
per le vie lastricate
che vanno in su, fra campi di rose,
pozzi e terre spaccate,
costeggiando poderi e vigne chiuse.
In quell’arida terra il sole striscia
sulle pietre come un serpe.
Il mare in certi giorni
è un giardino fiorito.
Reca messaggi il vento.
Venere torna a nascere
ai soffi del maestrale.
O chiese di Liguria, come navi
disposte a esser varate!
O aperti ai venti e all’onde
liguri cimiteri!
Una rosea tristezza vi colora
quando di sera, simile ad un fiore
che marcisce, la grande luce
si va sfacendo e muore.

( da Poesie)

ABBANDONO


Volata sei, fuggita

come una colomba

e ti sei persa, là, verso oriente.

Ma son rimasti i luoghi che ti videro

E l’ore dei nostri incontri.

Ore deserte,

luoghi per me divenuti un sepolcro

a cui faccio la guardia.

(da Poesie)

DISTACCO

Io ti sento tacere da lontano.

Odo nel silenzio il tuo silenzio.

Di giorno in giorno assisto

All’opera che il tempo,

complice mio solerte, va compiendo.

E già quello che eri era presente

divien passato e quel che ci pareva

incredibile accade.

Io e te ci separiamo.

Tu che fosti per me piu’ di una sposa!

Tu che volevi entrare

nella mia vita, impavida,

come in inferno un angelo

e ne fosti scacciata.

Ora che t’ho lasciata,

la vita mi rimane

quale un’indegna, un’inutile soma.

Da non poterne avere piu’ alcun bene.

(da Poesie, 1942)

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