Je crois que dehors c’est le printemps, adattamento teatrale di Gaia Saitta –  che ne ha curato anche la regia con  Giorgio Barberio Corsetti – del libro di Concita De Gregorio “Mi sa che fuori è primavera” (Feltrinelli, 2015) andrà in scena al Kinneksbond di Mamer venerdì 15 marzo (ore 20). Una storia che ci aiuta a tirare fuori la nostra voce. Ne parliamo con l’attrice e regista marchigiana che vive e lavora a Bruxelles che, dopo aver portato lo spettacolo nei teatri italiani, belgi e francesi, approda in Lussemburgo

Chi ricorda la storia tragica delle sorelline Schepp? Alessia Vera e Livia Clara vennero rapite nel 2011 dal padre Mathias, ingegnere svizzero separato dalla madre Irina Lucidi, avvocata italiana che non le rivedrà mai più. Una storia sconvolgente che tenne con il fiato sospeso l’Italia e la Svizzera e che si conclusa con il suicidio dell’uomo proprio nostro Paese.

Gaia Saitta fotografata da Chiara Pasqualini

Concita de Gregorio dice che il libro è nato dall’incontro personale con Irina Lucidi e che questo incontro è stata una terapia per lei. Cosa ti ha spinto  ad affrontare una storia così importante e tragica?

Sicuramente il libro di Concita De Gregorioperché conoscevo la storia ma non ho subito pensato a portarla in scena. Solo quando ho letto il libro che è un libro pieno di grazia, dove si sente la voce di Irina e la narrazione della stessa storia è molto diversa da quella che fanno le cronache, ho deciso. E questa voce è la voce di una donna straordinaria, piena di luce. La cosa sorprendente è che quando leggi Mi sa che fuori è primavera, leggi una voce che è piena di speranza, di voglia di vivere. Non è una voce solo di dolore. Non è una voce che parla solo dal punto di vista di chi è vittima della sua storia. Perché ci sono tante storie di donne vittime di violenza al centro dell’attenzione ma quello che mi sembrava importante, in questo caso, è mostrare che Irina non è mai solo la vittima della sua storia, è una donna che resiste, che prende in mano il resto della sua vita e decide che vale la pena di viverla. È una donna che lotta per il diritto alla felicità, alla sua, oltre quella di tutti noi. Nel senso che chi ha perso le figlie in modo così tragico, di fronte alla società, spesso non ha diritto a continuare a vivere. Nel senso che questo lutto è quello che stigmatizza la donna per il resto della vita. Invece lei dice che c’è ancora vita e che vale sempre la pensa di essere vissuta. È il modo in cui lei onora le sue figlie. Nonostante quando l’ho incontrata mi abbia dato l’idea di essere una  cattedrale di cristallo, nel senso che è fortissima e fragilissima allo stesso momento. E il suo dolore prende una forma che è una delle cose più straordinarie che io abbia mai visto nella sua terribilità.

Quando abbiamo parlato mi ha detto: “Sai Gaia, la mia storia ti dà accesso anche a una grande conoscenza” . Ed è vero, perché se tu sopravvivi a quel dolore, sai di più del mondo, lo guardi in modo diverso, hai una linea dell’orizzonte che va oltre quello delle di altre persone che hanno minore esperienza di vita. Lei ha gli occhi per guardare più lontano. O un posto dove il tempo non esiste e le sue figlie sono vive per sempre. Non è buonismo. È linguaggio, è proprietà di lettura.

Come hai costruito il personaggio? Come ti sei nutrita delle parole di Concita e  la voce di Irina?

Non ho costruito un personaggio. Tutto quello che dovevo fare è stato abbandonare le armi e non fare il mio lavoro. Perché questa storia è così. Non è che porti in scena Shakespeare o Cechov, allora come fai a mettere in scena la carne viva di una donna che potrei essere io? O che potresti essere tu? La cosa che puoi fare è essere uno strumento al servizio di qualcosa. Non c’è personaggio,  c’è la possibilità di fare ascoltare la voce di Irina attraverso il mio corpo, la mia voce, la mia conoscenza del teatro senza mettermi in mezzo. Quando ho conosciuto Irina le ho chiesto:  ho diritto di raccontare la tua storia senza avere l’esperienza della maternità? So che la tua storia è urgente e necessaria ma non ho l’esperienza della maternità. E lei mi ha risposto: Non servono i figli per essere madri. Volevo guardarti negli occhi e se tu racconti la mia storia io mi sento meno sola.

Gaia Saitta fotografata da Chiara Pasqualini

Irina, si riprende il diritto alla felicità, nonostante l’assenza. Come fa?

Non lo so come fa. So che lei si innamora di nuovo, ama di nuovo e credo che veramente la sua forza le venga dalla sua maternità, dall’esperienza con le sue figlie che ci sono sempre quando parli con lei. Mi sembra che sia il suo modo di onorarle continuando a vivere. Non so dove trovi questa forza e questa capacità di vedere il mondo in modo diverso, più ampio. È come se lei accedesse a una conoscenza più vasta per cui tutto quello che è materia oscura lei possa aprirla e farne qualcosa di luminoso.

La parola e il teatro per curare sé stessi?

Io credo che chi ha accesso alle parole ha accesso alla possibilità di intervenire sulla realtà e cambiare il mondo, migliorarlo ed elevarlo. Bisogna ascoltare chi ha le parole perchè è una cosa rara.

Una pièce che emoziona e commuove. Ci portiamo i fazzoletti?

 Si,  ma non solo! perché si esce dal teatro con un fazzoletto in una tasca e con un mazzo di fiori di speranza dall’altra. Dicendo: se ce la fa lei ce la facciamo tutti. Ti viene voglia di trovare la tua voce. Un grande privilegio per me.

Paola Cairo (immagine di cover: Chiara Pasqualini)

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