Uno studioso di cose africane già professore della Scuola di Guerra di Saint Cyr, Bernard Lugan, ha di recente affermato sulla rivista OMERTA che per il Sahel la Francia “ha preferito ascoltare quelli che escono da Sciences Po e che hanno una visione Sofitel dell’Africa”, facendo riferimento alla multinazionale alberghiera presente in molti paesi africani, cioè genti lontane dal terreno confinate ad interpretazioni astratte

Per capire perché la Francia si è fatta espellere progressivamente dal Sahel, dobbiamo concentrarci su di una regione africana che sembra un punto quasi insignificante di questo grande continente: il Nord del Mali. La abbiamo già descritta. Ci si arriva lasciandosi dietro il verde tropicale africano e si va a nord o nord-est e tutto progressivamente si perde nell’immensità degli spazi desertici. Ma non è un erg alla libica, un fotogenico deserto di dune gialle, ma un deserto petroso di pietra macinata, un paesaggio lunare, sconfinato, dove non c’è il segno di un albero, di un filo d’erba, solo qualche raro cespuglio spinato, che vibra nel vento, su sfondi di massicci sfumati, in quella che sembra una cortina di nebbia ma è solo polvere lontana, polvere sollevata dal vento. Ma questa zona dal clima violento, dalle escursioni termiche incredibili, fra giorni divorati dalla calura e notti segnate dai lamenti dei dromedari intirizziti, vivono anche delle persone: sahraui, originari del Sahara, tebu, retaggio umano di quando il Sahara era savana abitata da popolazioni che provenivano dall’Africa equatoriale, tuareg, uomini blu, arabo-berberi i cui turbanti colorati all’indaco finiscono per segnare anche la pelle del viso. E anche gli Imghad, i tuareg neri. Genti che nella storia sopravvivevano con commerci transahariani di cui abbiamo già riferito e allevamenti nella libertà di spazi indefiniti e sconfinati. Poi dalla fine dal XIX secolo hanno conosciuto i primi confini coloniali sovrapposti ai vecchi reami, Macina, Songhai, Mali e poi sono finite nel secolo scorso nelle prigioni fisiche dai limiti assurdi tirati sulle carte militari a delimitare la Mauritania, il Mali, il Niger, il Burkina Faso, il Ciad con la dissoluzione dell’Africa governata dalla Francia, l’Africa Occidentale Francese (A.O.F.), e il processo delle indipendenze dal 1960.

Source: University of Texas, Perry Castaneda Library Map Collection – Courtesy of the Un. of Texas Libraries, The University of Texas at Austin

Nel meccanismo post-coloniale diventati loro, sahraui e tuareg, abituati ad una antica superiorità razziale bianca, gli esponenti di una piccola minoranza marginale e reietta, parte del “cattivo Mali’” per il governo dei neri del “Buon Mali”, quello tropicale, incentrato su Bamako. Governo centrale con cui comunque la Francia intratteneva le sue relazioni e i suoi interessi. Il “Buon Mali” della Francafrique. Storicamente già colonia francese con il nome di Sudan francese, il Mali è diventato indipendente il 22 settembre 1960. Dopo la presidenza di Modibo Keita (1960-1968) segue la lunga dittatura militare di Moussa Traoré (1968-1991) e un processo di democratizzazione inizia nel 1992. Ma anche in Mali, più di recente, il rovesciamento occidentale del regime libico di Muammar al-Gheddafi nel 2011 ha provocato un peggioramento della situazione della sicurezza. Muammar al Gheddafi aveva dovuto confrontarsi prima con i Fratelli musulmani egiziani ma soprattutto con il Gruppo Libico Islamico Combattente (GLIC) formato da mojahidin arabo-afghani di origine libica rientrati nel paese, ma aveva anche inquadrato nel suo esercito esponenti delle rivolte tuareg che avevano ripiegato verso questo paese. Sono questi miliziani che ritornano nel Nord del Mali dopo aver combattuto in Libia a fianco del Colonnello sino al 2011 contro la coalizione occidentale organizzata dalla Francia sotto la presidenza di Nicolas Sarkozy e vi  ridestano la ribellione della minoranza  tuareg che si riconosce nel MNLA (Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad) che riesce a prendere il controllo della parte settentrionale del paese. Qui occorre rilevare il sostegno di movimenti islamici integralisti legati ad AQMI (Al-Qaida nel Maghreb  Islamico), Ansar ad-Din e MUJAO (Movimento per l’Unità e il jihad nell’Africa occidentale). Certo sono tutti musulmani   e molti si sono inseriti nel proselitismo wahhabita sempre incoraggiato nella regione dall’Arabia saudita attraverso la creazione e il finanziamento di migliaia di madrasa coraniche.

Ma sono innanzi tutto tuareg e più che una guerra santa contro gli infedeli vogliono il riconoscimento di una loro autonomia e il miglioramento delle loro condizioni economiche nelle difficili zone marginali rispetto a Bamako in cui vivono. E’ difficile non vedere che se di jihadismo si tratta è legato a rivendicazioni locali, è jihadismo locale, non è un sollevamento contro l’Occidente, è solo un sollevamento tuareg, il quinto dal 1960 che impone accanto ad un intervento militare la ricerca di una soluzione politica. Ci sono anche gli uomini, gli opinion leaders, i capi indiscussi, su cu costruire un tentativo di soluzione politica, di durevole pacificazione. Il protagonista principale della quinta rivolta è un nobile tuareg, Iyad Ag Ghali, tuareg della tribu’ degli Ifogas, figlio di Ghali Ag Babakar rimasto ucciso durante la prima rivolta del 1962-64. Dopo la fine della Libia di Gheddafi è rientrato in Mali come molti tuareg passati dal 2009 nelle fila delle unità sahariane dell’armata libica. Fondatore storico nel 1988 del Movimento Popolare di Liberazione dell’Azawad (MPLA) aveva fondato un proprio gruppo, Ansar ad-Dine, “I Difensori della religione”, gruppo salafita prossimo ad AQMI di cui è allora capo Abdelmalek Drukdel. Dopo aver conquistato la regione di Kidal e la piu’ grande parte della regione di Tombuctu’ con AQMI, nel gennaio 2013 Iya Ag Ghali lancia una offensiva verso il Sud del Mali. La risposta francese è quasi immediata: nel gennaio del 2013 un corpo di spedizione francese (operazione Serval) affiancato da truppe ciadiane condotte da Idriss Déby e nigerine riprende quasi totalmente il controllo della regione settentrionale. Il presidente Hollande riceve a Bamako una calorosa accoglienza e dichiara di vivere il momento migliore della sua presidenza. Il 25 aprile 2013 viene istituita la MINUSMA (Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite in Mali). Nello stesso anno l’UE nell’ambito delle “missioni Petersberg” lancia la missione EUTM di formazione dell’esercito maliano cui partecipano anche dei soldati lussemburghesi. Nel 2014 la Francia allarga al Sahel la missione Barkane, mentre viene formato il gruppo 5G Sahel che ha missione il mantenimento dell’ordine fra Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad. Ma l’intervento francese e occidentale non è mai uscito dal suo confinamento militare alla lotta al terrorismo. Le autorità francesi non hanno compreso che l’azione militare Serval doveva essere completata da una azione politica che desse dei risultati durevoli di pacificazione della zona tuareg. Avevano in mano l’uomo  che avrebbe potuto marcare una intesa durevole con le autorità di Bamako, che già aveva fatto parte della amministrazione centrale, Iyad Ag Ghali, e ne hanno invece fatto il loro nemico pubblico  n°1 di cui Macron ha ordinato l’abbattimento dopo quello di Abdelmalek Drukdel e El Para. In dieci anni il consenso del Sahel verso la Francia si è convertito in rigetto. Come è potuto accadere?

L’incomprensione francese della situazione tuareg in Mali rientra per noi nel quadro piu’ generale dell’ approccio occidentale all’Africa. Un approccio che definiamo un misto letale di narcisismo e di ignoranza ambientale. Il narcisismo spinge l’Europa occidentale a volere fare dell’Africa un copia- e-incolla delle situazioni democratiche europee immaginando che il problema dell’Africa sia l’assenza della democrazia (discorso di Mitterand a La Baule, 1991) o il non ingresso dell’Africa nella storia (discorso di Sarkozy a Dakar, 2007).

Quindi, tutta la cooperazione con l’Africa si immagina condizionata al raggiungimento di valori democratici, come unica via di soluzione dei problemi locali, senza comprendere che un multipartitismo imposto al di fuori di una percezione della situazione reale, sistematicamente tribale, avrebbe fatto saltare i fragili equilibri costruiti intorno a Stati dalla struttura debole che dovevano essere prima di ogni altra cosa opportunamente rinforzati, anche per ridurre quello che è poi divenuto lo sconfinato campo della corruzione delle élites africane. Il secondo elemento è stato il progressivo allontanamento dal processo decisionale della cooperazione di amministratori dotati di una sufficiente comprensione antropologica della situazione africana, con delle letture affidati a civili inesperti ma comunque “unti dal Signore” o a militari spesso sprovvisti di sufficienti conoscenze della struttura antropologica dei popoli con cui venivano a contatto. Un esempio fra tutti: il genocidio del Rwanda. Con una lettura tutta belga i Tutsi sono passati per i valloni dominanti e gli Hutu come fiamminghi dominati, il che ha contribuito a far saltare secolari equilibri interetnici e aperto le lotte fratricide fra gli stessi Hutu. Ancora, nel caso del Sahel si è aggiunto un intervento militare anti-jihadista inserito in una replica della bushiana War on Terror che ha scambiato i problemi tribali locali con un dovere di lotta contro il terrorismo internazionale. Come se il problema fosse l’islam e non la situazione locale dei tuareg e degli altri gruppi minoritari rispetto ai dominanti Bambara, Fulbe, Soninko, Senufo.

Tornando alla situazione attuale in Mali, malgrado gli accordi di pace firmati nel 2015, si sono da allora protratti gli attacchi di gruppi armati, grazie alla saldatura del salafismo jihadista con le rivendicazioni delle citate minoranze etniche che porta alla creazione nel 2017 del Gruppo di Sostegno all’Islam e ai Musulmani (GSIM). Il GSIM si è ulteriormente inserito accanto allo Stato islamico nel Grande Sahara (SIGS)  nelle violente lotte inter-etniche che hanno corso nel paese fra allevatori nomadi, Fulbe, Peul, condizionati dall’accelerato degrado ambientale dovuto al riscaldamento climatico e agricoltori Dambara e Dogon. Dal 24 maggio 2021 dopo un doppio colpo di stato il col. Assimi Goita ha assunto la presidenza della repubblica.

Un primo colpo di stato contro il presidente Boubacar Keita nel maggio 2020, che vedeva lo stesso col. Goita assumere la  presidenza del “Comitato nazionale per la salvezza del popolo”, aveva comportato l’arresto del presidente e del primo ministro. La giunta militare mostra un chiaro allontanamento dalla Francia (l’ambasciatore francese in Mali nel febbraio 2022 è stato espulso in condizioni applicabili alle espulsioni delle spie) ed un avvicinamento alla Federazione russa presente nel paese con le milizie Wagner, nel quadro della progressiva privatizzazione della sicurezza africana attraverso contractors, vigilantes, cybersorveglianza.

Troppo tardivamente quasi dieci anni dopo la Francia ha immaginato di uscire dal solo intervento militare allargandolo ad una palette più vasta concernente l’educazione la sanità le infrastrutture per tagliare l’erba sotto i piedi al reclutamento giovanile nei gruppi radicali. Dopo l’abbandono americano dell’Afghanistan nel 2021, il Mali nel 2022 prova tutta la difficoltà dell’Occidente nel dialogo con il resto del mondo, la separazione fra West and the Rest, il resto numericamente soverchiante della popolazione non occidentale del pianeta. Separazione ben chiara all’ONU se si contano i paesi che si astengono dal supporto all’Ucraina. Nel frattempo Mali, Burkina Faso e Niger si sono anche dimessi dalla CEDEAO, la Comunità Economica degli Stati dell’Africa occidentale, in cui la Nigeria figura come socio principale. Il Ciad resta ormai l’ultimo partner fondamentale della Francia nella regione centro-occidentale sahelica.

Potrebbero vedersi dietro questa situazione delle trame russe. Non bisogna farsi illusioni: Russi, Cinesi, Turchi, Emiratini, Sauditi occupano lo spazio in Africa lasciato vacante da altri. Indovinare chi.

Carlo degli Abbati

Professore associato di Politica economica e finanziaria già docente universitario di Economia dello sviluppo e responsabile del controllo della politica di cooperazione allo sviluppo della UE presso la Corte dei Conti Europea

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