Ogni settimana una poetessa, un poeta, un profilo, una citazione sul suo intendere il modo di costruire le parole, la sua poesia.
Umberto Saba
La poesia di Umberto Saba si iscrive quasi perfettamente nella prima metà del XX Secolo. I suoi primi versi sono del 1900 e i più antichi – Sei poesie della vecchiaia – del 1953. Umberto Saba nasce il 9 marzo 1983 a Trieste allora non ancora italiana, sbocco portuale dell’impero austro-ungarico. Il padre Ugo Edoardo Poli convertitosi all’ebraismo in occasione delle nozze la con la madre Felicita Rachele Cohen, nipote di Samuel David Luzzatto, sparirà poco dopo, con la moglie ancora incinta, inseguito da un mandato di cattura a seguito della sua prossimità all’irredentista Guglielmo Oberdan, ma anche per il suo carattere “gaio e leggero” come suggerirà il figlio che lo rivedrà solo …vent’anni più tardi. Lo alleverà la madre che invece “tutti sentiva della vita i pesi”, ma soprattutto una balia slovena e cattolica chiamata “Peppa Sabaz”, che il poeta definiva “madre di gioia” e a cui probabilmente si deve il suo nome d’arte. Anche se esiste una seconda interpretazione secondo il quale Saba discende dal termine ebraico “nonno” o “persona anziana”. : סבא. Il poeta trascorrerà fra Padova e Trieste una giovinezza infelice per l’assenza del padre anche se assistito amorevolmente da tre donne, la madre con le due zie Fortunata e Regina. A ventidue anni è a Pisa dove segue corsi di letteratura e di archeologia, poi nel 1905 a Firenze che echeggia di esperienze “vociane”, conoscendo fra gli altri Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini. E qui la vita letteraria di Umberto Saba potrebbe avere avuto un esito scontato. A Firenze pubblica la prima poesia il Borgo che firma con lo pseudonimo di “Umberto da Montereale”, certamente ispirato da un Gabriele d’Annunzio, che Saba ammirava. Avrebbe potuto in seguito divenire un antesignano dell’ermetismo fiorentino.
Ma Umberto Saba era innanzi tutto un triestino. Un uomo “dell’altra sponda”. Nonostante la sua italianità e il suo senso innato della lingua e della forma italiana, il cielo della sua poesia è quello “inconfondibile” di Trieste, non il cielo fermo di Firenze. Era figlio di una città “periferica”, lontana dai fermenti stilistici di ogni tipo che si preparavano in Italia, di cui probabilmente non aveva bisogno semplicemente come città fondamentalmente romantica. E Saba la sua città, la interpreta, la respira. Resta come scrive Sergio Solmi “moderno in moto quasi sconcertante, rimanendo al tempo stesso fedele alla tradizione, lontano dalle pugne letterarie.”
“Con una natura che aveva bisogno di appoggiarsi sempre al più solido, al più sicuro, a quello che aveva fatto le prove in un lungo, nel più lungo possibile passato per poi partire da quello alla conquista di sé stesso”. Anche quando diventa celebre e affermato la danza cosmica di Umberto Saba si anima sempre intorno a tre componenti, Trieste, la figura di Lina, moglie amatissima sposata con rito ebraico nel 1909, l’espressione della sua intimità. Nella sua Trieste è proprietario dal 1919 di una libreria antiquaria, insieme all’amico filosofo Giorgio Fano, mentre ormai la critica aveva scoperto il valore della sua opera. La prima edizione del Canzoniere (1900-1921) esce nel 1922. Ma nel 1938 perseguitato dalle leggi razziali dovrà affidare ad altri la sua libreria e, prima, emigrare in Francia per poi nascondersi dopo l’8 settembre a 1943 a Firenze dove gli sarà di conforto l’amicizia di Eugenio Montale e quella di Carlo Levi che poi si legherà sentimentalmente alla figlia Linuccia. Nel dopoguerra vive per dieci anni a Milano collaborando con il Corriere della Sera e con Mondadori pubblica un libro di aforismi, Scorciatoie, ed un commento in terza persona al suo Canzoniere con lo pseudonimo di Giuseppe Carimandrei.
Nel 1946 vice ex-aequo con Silvio Miceli il Premio Viareggio. Seguiranno nel 1951 il premio dell’Accademia dei Lincei e il Premio Taormina. Nel 1953 l’Università di Roma La Sapienza gli conferisce la laurea in Lettere honoris causa.
Morirà a Gorizia il 25 agosto 1957 solo nove mesi dopo la morte della moglie lasciando incompiuto un romanzo, Ernesto, che sarà pubblicato postumo.
Come nel caso di Luigi Fallacara, il suo archivio è conservato presso il Centro per gli studi sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia.
Loris Jacin
“Per aver scritto delle poesie – mettiamo anche, senza falsa modestia, delle belle poesie -io non mi sono mai sentito (se non nell’esaltazione della prima ignara giovinezza) più di un altro uomo; voglio dire più di un uomo qualunque. Oggi poi sono abbastanza vecchio, abbastanza esperto di beni e di mali, per non sapere che tutto a questo mondo si paga, e che dove c’è più sole c’è più ombra. Così le partite, in qualche modo si pareggiano sempre. O quasi…Che cos’è in fondo un poeta, se poeta davvero? L’ho già detto altrove: un poeta può essere molte cose, ma è, soprattutto, un bambino che si meraviglia di quello che accade a lui stesso diventato adulto. Rimane quindi, nell’intimo della sua natura, molto – troppo – della prima infanzia, della preistoria sua e del mondo: tutto questo è fonte per lui di debolezze e di smarrimenti infiniti. Per quanto sia, d’altra parte, un adulto; abbia, nei casi più fortunati sviluppato perfino “un carattere”, un poeta soffre sempre di attaccamenti eccessivi al passato, che gli rendono la vita, continuamente mutevole, più difficile che agli altri uomini, i quali li hanno, o si comportano come li avessero, superati. In altre parole, un poeta è sempre, piu’ o meno, un enfant terrible: non si sa mai cosa possa fare o dire: dire, soprattutto. Ora gli enfants terribles sono degli esseri un poco imbarazzanti; sebbene – lo riconosco volentieri – possano talvolta (come fanno appunto i poeti) rinfrescare negli altri il senso della vita. E dicendo enfants terribles, npn alludo solo ai poeti cosiddetti ”maledetti”( che essendo i più scoperti, sono anche i più innocenti), ma mi vengono in mente pure nomi venerabili e venerati; così e così giustamente venerati, che non oso farne, in questo luogo e a questo proposito, i nomi. Platone – se ricordate – proponeva che, in una repubblica bene ordinata, i poeti – tutti i poeti – fossero, nonché premiati, banditi addirittura. Ora Platone ha detto (sopportate -vi prego – il mio giudizio, che può -si capisce – essere errato) cose molto più infantili dei poeti; sebbene, come i poeti, le abbia dette in forma squisita; ma c’è in questo suo crudele proposito, un granello di realtà che, in qualche modo, lo giustifica. ( Dal Discorso di ringraziamento al Corpo Accademico dell’Università di Roma )
TRIESTE
Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salito un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo;
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove essa termina
termini la città.
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva
( da Trieste e una donna)
A MIA MOGLIE
(Il poeta delinea in questa lirica il ritratto della moglie Lina, e lo fa usando la tecnica del confronto. La donna viene paragonata alle femmine di sette animali. La forma metrica è data da sei strofe irregolari di endecasillabi e settenari, chiusi da un quinario e liberamente rimati.)
Tu sei come una giovane,
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell’andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull’erba
pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio.
Così se l’occhio, se il giudizio mio
non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun’altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.
Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la sua carne.
Se l’incontri e muggire
l’odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l’erba
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t’offro quando sei triste.
Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d’un fervore
fervore indomabile arda,
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.
Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l’angusta
gabbia ritta al vederti
s’alza;
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritoglierle? chi il pelo
che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?
Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest’arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere;
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un’altra primavera.
Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
che l’accompagna.
E così nella pecchia
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun’altra donna.
( da Il Canzoniere)
ULISSE
Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggire l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore