Sono anche passati 531 anni dalla scoperta del Continente fatta da tre caravelle spagnole partite da Porto Palos per andare in Oriente passando per l’Occidente. Ma una percezione autentica dall’Europa del contesto storico e umano di questo grande sub-continente non fa parte o non ha mai fatto parte della coscienza popolare europea. Per questo forse merita di parlarne ancora
Sono passati cinquant’anni dal colpo di stato in Cile dei militari di Augusto Pinochet e dalla drammatica fine del suo presidente Salvador Allende nel palazzo della Moneda. Prima di morire sotto i bombardamenti suicidandosi per non finire prigioniero Salvador Allende aveva lanciato un ultimo appello l’11 settembre 1973: “Non dimenticate mai che presto si apriranno di nuovo le grandi strade (“avenidas”) che percorrerà l’uomo libero per costruire una società migliore”.
Sono anche passati 531 anni dalla scoperta del Continente fatta da tre caravelle spagnole partite da Porto Palos per andare in Oriente passando per l’Occidente. Ma una percezione autentica dall’Europa del contesto storico e umano di questo grande sub-continente non fa parte o non ha mai fatto parte della coscienza popolare europea. Per questo forse merita di parlarne ancora. A cominciare da una conquista del sub-continente che cominciava da parte spagnola e portoghese proprio dopo la fine della Reconquista del territorio iberico, liberato dalla presenza Almohade, Almoravide ed infine omayyade, quattro secoli dopo la riconquista di Toledo che era avvenuta nel lontano 1085. Con una conquista sul cui significato commentava il grande storico spagnolo Américo Castro: “Gli Spagnuoli non si estesero per il mondo per realizzare progetti meditati prudentemente. Se ne avessero avuti, le loro imprese sarebbero state di ambito molto più modesto.” E aggiungeva:” L’idea che la cupidigia e la crudeltà fossero gli unici moventi della espansione ispano-portoghese presuppone un’assoluta ignoranza della realtà della storia”. La “dimora vitale” dell’essere spagnolo, cioè lo spirito del popolo spagnolo, il modo con cui esso si percepiva all’epoca della Conquista, era innanzi tutto quella di esistere come credente. Nel XV Secolo il sogno ricorrente era il dominio del mondo sotto il segno della Croce e della spada di Carlo V. L’espansione territoriale degli spagnoli fu simile ad un tragico romanzo abitato dagli hidalgos, cavalieri combattenti per la fede – se ne conteranno 625.000 nella Spagna del `700 che sí e no raggiungeva i nove milioni di abitanti – e non è un caso se i nomi prescelti per i punti estremi della dominazione americana – la California a Nord e la Patagonia a Sud – siano tratti da libri di cavalleria, rispettivamente da “Las Sergas de Esplendían”, isola vicina al Paradiso a destra delle Indie e il “Primaleón”. O se Vasco de Quiroga, vescovo di Michoacán, imponesse agli Amerindi messicani tutto quanto Tommaso Moro aveva immaginato nella sua Utopia.
O se il grande Cristoforo Colombo firmasse il suo nome con il segno della croce seguito dall’aggettivo “ferens”. Nella stessa cerimonia del “requiriminento” con cui si conferiva “il giusto titolo” della conquista e con cui di fatto si spogliavano gli amerindi dei loro possedimenti, secondo la sistemazione giuridica che ne fece il giurista Juan de Palacios Rubios nel 1512, si faceva lettura alle popolazioni indigene in latino e in spagnolo di una dichiarazione solenne in cui si richiedeva il riconoscimento del Papa come signore del mondo e in sua vece del re di Castiglia per diritto di donazione. Ma la stessa Corona spagnola, che si incaricava della missione fondamentale di estendere i confini della Fede, l’impero su cui non tramontava mai il sole, costituiva una entità in stato quasi fallimentare che aveva dovuto appoggiarsi a banchieri tedeschi, come i Fugger o i Welser, per ottenere l’elezione di Carlo V ad Imperatore. Ricca di hidalgos, prelati ed aristocratici, ma indebitata nei confronti dei banchieri di mezza Europa, doveva ad essi riconoscere in restituzione del debito le future ricchezze che si sarebbero ottenute dai nuovi domini. L’oro, secondo un detto spagnolo dell’epoca ricordato dallo storico genovese Michelangelo Dolcino, così “nasceva in Oriente, moriva in Ispagna e veniva sepolto a Genova”, mentre Colbert, ministro delle finanze di Luigi XIV osservava: ”Quanto più uno stato commercia con gli spagnoli, tanto più argento possiede”. Ma lo stesso avrebbero potuto ripetere gli inglesi a proposito dell’oro del Portogallo, soprattutto dopo che il suicidario trattato di Methuen (1703) aveva aperto, in cambio di un privilegio sul commercio dei vini portoghesi, il paese e le sue colonie americane alle manifatture britanniche, accompagnandone la messa in esecuzione qualche anno dopo con l’ordine della materiale distruzione di tutti i telai e le filature brasiliane! A ciò si deve aggiungere il trionfo nella penisola iberica di teorie economiche mercantilistiche che facevano dipendere la ricchezza delle nazioni dal possesso dei metalli preziosi quali l’oro e l’argento, secondo una visione, rivalutata dai moderni monetaristi, che comportava il sacrificio delle attività economiche reali che erano allora essenzialmente agricole e artigianali. In questo senso, le cacciate di ebrei e moriscos dal suolo spagnolo rispettivamente nel 1492 e nel 1609, cioè di due componenti essenziali per il mantenimento delle attività artigianali ed agricole nella penisola iberica, non faranno che ribadire il suicidio economico implicito in queste teorie, che obbligheranno i regni di Spagna e Portogallo a toccare il XX Secolo con minore potenza economica e politica di Paesi Bassi o Scandinavia. Resta che, quale che siano le teorie dominanti in Europa sull’utilizzo delle risorse strappate al Nuovo Mondo, gli effetti della scoperta delle Americhe si tradussero per i nativi in una immane tragedia, avviando un genocidio combinato ad un etnocidio dalle proporzioni indicibili, in gran parte sapientemente occultati nei libri di storia europei. Quando Cristoforo Colombo salpa da Palos, la Spagna di Isabella possiede da 6 sino ad un massimo 9 milioni di abitanti, ma le stime più raffinate parlano di una popolazione probabilmente più prossima ai 7 milioni di abitanti. Quando Colombo tocca terra ai Caraibi, la isola di Hispaniola, oggi divisa fra Haiti e Santo Domingo, possiede da sola due milioni di abitanti. Nel 1516, cioè solo 24 anni dopo l’arrivo delle tre caravelle, il frate dominicano Bartolomeo de las Casas – famoso protagonista della disputa di Valladolid intorno alla natura umana degli indios, negata dal cappellano di Carlo V e allievo di Pietro Pomponazzi Juan Ginés de Sepúlveda – dichiara che la popolazione dell’isola si è ridotta ad appena 11.000 persone.
In totale, al momento della scoperta l’America centrale conta invece fra i dieci e i tredici milioni di abitanti, il Messico precolombiano ha una popolazione oscillante fra i trenta e i trentasette milioni di abitanti, e ad un numero analogo si stimano gli abitanti dell’impero incaico. Un totale quindi di 70-90 milioni di amerindi ripartiti fra le zone popolate dagli aztechi, i regni maya, l’impero incaico, abitano l’America latina nell’epoca pre-colombiana. Quando la più grande città di Spagna, Siviglia, superava appena i 50.000 abitanti, la capitale dell’Impero azteco, Tenochtitlán, contava 100.000 abitanti mentre Teotihuacán, al suo apogeo precedente l’epoca della scoperta, aveva raggiunto i 200.000 abitanti. Un secolo e mezzo dopo, gli abitanti del sub-continente sono ridotti in totale a tre milioni e mezzo. Per comprendere l’enormità di questa situazione, è necessario, anche a rischio di percorrere temi già noti, descrivere come era il mondo prima della nascita del moderno capitalismo che si fa proprio coincidere con l’epoca delle grandi scoperte geografiche. Nel tempo che precede quella che convenzionalmente chiamiamo l’Età moderna, il mondo globale aveva una struttura rappresentabile con la figura di un arcipelago. Un insieme di isole grandi e piccole, sconosciute spesso agli abitanti delle altre, legate da rapporti radi e difficili, caratterizzate da modi di produzione e da formazioni sociali diverse.
All’alba della scoperta, se ne possono distinguere principalmente tre: la società comunitario-tribale, la società tributaria, la società feudale. L’Europa alla fine del XV secolo era ancora legata al metodo di produzione feudale, sorto dopo il crollo dell’impero romano d’Occidente e l’insediamento di nuovi popoli sul suo territorio. L’attività prevalente è quella agricola, l’industria è ancora artigianale e si svolge in parte nelle campagne, il commercio è limitato agli scambi fra città e contado per i prodotti di base, mentre il commercio a più lunga distanza provvede a fornire beni introvabili, spesso considerati di lusso, necessari per le pratiche religiose o destinati a sostituire una inesistente catena del freddo (incenso, tessuti di lusso, sete, pepe e altre spezie). Nell’Africa sub-sahariana, in gran parte di quel continente che sarà chiamato America e nell’Oceania, prevalgono invece società che si fondano sui rapporti di parentela e che svolgono attività economiche prevalenti di raccolta, caccia, pesca, agricoltura e allevamento, indirizzate alla pura sussistenza delle popolazioni. Sono le società comunitario-tribali. In Asia e in America, centrale e andina, prevale invece il sistema “tributario”. Le società sono molto più complesse e sono organizzate in grandi imperi o regni (Cina, India, il Messico degli aztechi, l’impero incaico) la cui unità è personificata da un capo, sovrano o imperatore, con alla base le comunità familiari, claniche o di villaggio dedite prevalentemente all’agricoltura e, in sovrapposizione, una comunità superiore costituita da funzionari, caste sacerdotali, capi militari, la cui creazione e il cui mantenimento sono resi possibili dal surplus ottenuto con le attività svolte dalle comunità di base. Comunque, sino alle grandi trasformazioni che subisce l’assetto mondiale a partire dall’Europa proprio per effetto delle scoperte, i tre sistemi sono accomunati dal fatto di essere poggiati su di una economia di tipo tradizionale basata sulla terra e su di una modesta produzione artigianale, sviluppata con tecniche semplici che sfruttano esclusivamente la energia umana o animale. Questa situazione è destinata a cambiare proprio per effetto della scoperta del Nuovo Mondo. Il pianeta arcipelago, formato di isole lontane fra loro e negli scambi, si trasforma in un sistema unico mondiale rispondente al nuovo modo di produzione capitalistico in cui si distinguerà un centro e una periferia, secondo un processo di periferizzazione, che avverrà in quattro fasi, di cui la prima inizierà proprio con la conquista dell’America e si concluderà nella seconda metà del ‘700, con l’avvento della rivoluzione industriale a partire dalle isole britanniche. Il centro sarà in un primo momento policentrico e vi si ritroveranno i paesi europei all’origine del processo di periferizzazione, la Spagna e il Portogallo, ma anche l’Inghilterra, la Francia e i Paesi Bassi, mentre proprio il Nuovo Mondo costituirà la principale periferia che finirà per trasformarsi progressivamente in una intera area asservita esclusivamente agli interessi delle madrepatrie europee poste al centro del sistema unico mondiale. Le popolazioni amerindiane, dopo la scoperta, conosceranno insieme il genocidio e l’etnocidio. Prima, ci saranno le stragi per le azioni militari dei conquistatori dotati di tuonanti fucili, di cani addestrati e di sconosciuti destrieri che gli amerindi crederanno formare un tutt’uno con i loro cavalieri; poi, gli effetti devastanti dei batteri e dei virus importati dall’Europa, dal vaiolo al tetano, dalla febbre gialla alle carie, dalle malattie intestinali a quelle veneree, che decimeranno delle popolazioni prive di anticorpi. Infine, seguirà il vero e proprio etnocidio, per gli effetti nefasti della trasformazione di architetti e ingegneri, di agricoltori ed allevatori in operai asserviti alle miniere di argento, di oro, di stagno, (i mitayos), o in braccianti nelle grandi piantagioni. Gli amerindi saranno costretti comunque ad abbandonare le loro attività agricole di sussistenza e a subire anche un radicale mutamento nella distribuzione e nelle forme di possesso della terra, secondo regole lontane dalle tradizioni che riproporranno, attraverso il latifondo, gli istituti feudali ancora in vigore nelle lontane madrepatrie europee.
Nuove forme di mobilitazione e di riorganizzazione della forza lavoro li trasformeranno in popolazioni sotto schiavitù, ancora prima dell’inizio delle vere e proprie tratte degli schiavi africani dalla Guinea o dall’Angola. Le popolazioni indigene, private della loro base tradizionale di sussistenza, si ritroveranno asservite, prima, alla ricerca e alla estrazione dei metalli preziosi, poi alla economia di piantagione. Se, in un primo tempo, la ricerca implacabile di oro e argento si tradusse nel saccheggio di templi, palazzi e regi tesori, come quelli che Francisco Pizarro strappò all’imperatore inca Atahualpa prima di garrotarlo – “due stanze piene d’oro e una stanza piena di argento”- o Cortés a Tenochtitlán dopo la riconquista della città nel 1521, subito dopo la fame dei metalli si convertì nel lavoro sistematico imposto agli indigeni nelle miniere. Oggi Potosí, secondo le più recenti statistiche, è una città andina di 150.000 abitanti, posta a 4.100 metri di altezza, al centro di una delle tipiche zone “expulsoras” dell’“altiplano” boliviano che fabbricano sfollati economici convertiti da contadini in “lumpenproletarien” abitanti le zone marginali urbane di città come Santa Cruz de la Sierra, Cochabamba, Sucre o La Paz. Quel che è singolare è che, secondo il censimento del 1573, Potosí contasse già 120.000 abitanti, saliti addirittura a 160.000 nel 1650. Sulla sovrastante montagna a forma conica di Sumaj Orcko, a quasi 5.000 metri di altezza, ribattezzata poi “cerro rico” (collina ricca) dagli spagnuoli, nel 1545 l’indio Huallpa, che inseguiva in una caccia notturna un lama in fuga, aveva acceso un falò che aveva rivelato una fibra bianca e brillante. Era l’argento. Poco dopo cominciava così a Potosí la corsa al prezioso metallo. Don Quijote, nel capolavoro immortale di Miguel de Cervantes Saavedra, non parlerà più del Perú come unità di valore. Rivolto a Sancho, userà un altro linguaggio: ”Vale un Potosí ”. Trasformate in forme e lingotti, le viscere della “collina ricca” alimenteranno per secoli lo sviluppo dell’Europa. L’argento delle Alpi, sotto il controllo dei banchieri tedeschi Fugger che, insieme ai Welser, avevano finanziato l’elezione di Carlo V ad Imperatore, si stava progressivamente esaurendo e, comunque, i costi di estrazione era comparativamente molto più alti. Con il “cerro rico”, subentrarono ai Fugger i Genovesi. Il controllo dell’argento di Potosí fu alla base essenziale della loro ricchezza durante il celebre “Siglo de los genoveses”, dalla metà del ‘500 alla metà del ‘600.
Tesorieri della Corona spagnola dal regno di Filippo II a quello di Filippo IV, i genovesi si convertiranno nei principali beneficiari della estrazione dell’argento. Mentre i Welser, ottenuto da Carlo V il governatorato di Venezuela dal 1528 al 1556, cercheranno di rilanciare le loro fortune organizzando tragiche spedizioni dai pochi superstiti, nella vana ricerca del mitico El Dorado, di Cíbola e delle sette città d’oro, che avevano erroneamente localizzato intorno alla laguna di Maracaibo, Genova invece si coprirà di splendide chiese e di favolosi palazzi fra la metà del ´500 e la metà del ´600 e Potosí otterrà la gratitudine di Carlo V che la eleverà a “Villa Imperial”.
Ma il “cerro” intanto si era trasformato per i nativi nella “bocca dell’inferno”, secondo la denunzia che appena cinque anni dopo la scoperta, nel 1550, il frate dominicano Domingo de San Tomás faceva al Consiglio delle Indie. Braccati e obbligati al lavoro forzato nella miniera (la “mita”), costretti ad abbandonare le loro attività e le loro colture nel raggio di cento miglia intorno alla miniera, gli amerindi boliviani morivano ogni anno a decine di migliaia per estrarre i preziosi metalli. Dopo il ciclo dell’argento, ci sarà quello dello stagno.
Si stima che il “cerro rico” inghiottirà in tre secoli la vita di otto milioni di persone. Di fatto si può dire tristemente che le fondamenta delle più belle chiese di Genova poggiano sui cadaveri dei nativi americani. E quello che fu la storia tragica di Potosí può ripetersi per le oggi messicane Zacatecas e Guanajuato nel ciclo dell’argento, per la brasiliana Minas Gerais nel ciclo dell’oro, regione che da sola contò nel secolo XVIII altrettanto oro di quello estratto da tutte le colonie spagnole nei due secoli precedenti.
Ma se l’attività forzata nelle miniere controllate da spagnoli o portoghesi destrutturò totalmente le ricche attività agricole che prima della conquista esercitavano le comunità precolombiane e segnò l’abbandono delle straordinarie opere pubbliche create da inca e aztechi, infrastrutture stradali e terrazzamenti agricoli, canali d’irrigazione e giardini galleggianti, altrettanto distruttrice per la economia di sussistenza delle popolazioni fu la economia di piantagione, introdotta dai conquistatori sui nuovi latifondi creati con le terre strappate alle comunità indigene.
E’ proprio dalla piantagione coloniale subordinata alle esigenze di consumo di lontane madrepatrie e completamente estranea alle esigenze e all’autoconsumo delle popolazioni locali che deriva l’attuale latifondo, al centro della gabbia del sottosviluppo economico delle regioni latinoamericane.
E’ la storia che va dalla coltivazione del “pau brasil”, il pregiato legno color della brace utilizzato nelle tinture, alle piantagioni di zucchero delle Antille e del Nordest brasiliano, alle colture di caffè e banane delle zone andine e centroamericane, cui venivano destinati gli amerindi, ma anche gli schiavi trasferiti dalle lontane coste africane dai negrieri olandesi o inglesi. Ma è anche, come ricorda Eduardo Galeano, la storia del cacao venezuelano, del cotone del Maranhao, delle piantagioni di cacciù della Amazzonia, dove nell’apogeo della ricchezza di Manaus veniva a cantare la celeberrima Malibran o il grande Caruso, ma anche dei boschi di piante medicinali come il quebracho distrutto nel nord dell’Argentina e nel Paraguay, o delle piantagioni di frutta del Brasile, dell’Ecuador o della Colombia. E’ la storia di terre sfruttate e poi abbandonate, di un latifondo che lasciava dietro terre e braccia esauste, che bruciava insieme alle vite la fertilità dei terreni, perpetuando a favore dell’elemento europeo o creolo uno stato di dominio che faceva da contrasto con la totale emarginazione economica, sociale e giuridica delle popolazioni locali. E’ così a partire da queste premesse, oggi, anche dal punto di vista etnico, il sub-continente latino-americano presenta una grande varietà di situazioni che sono una conseguenza diretta del retaggio coloniale.
Mentre i paesi del Cono Sud (Argentina, Uruguay, Cile) hanno una popolazione in grande maggioranza europea, il Brasile e le Antille contano una forte presenza di discendenti africani, conseguenza della storica tratta degli oltre dieci milioni di schiavi impiegati nello sfruttamento dei metalli e nelle piantagioni. In America Centrale e nei paesi andini, invece, le comunità amerindie restano molto importanti: in Bolivia, Perú, Guatemala, Ecuador rappresentanti all’incirca la metà o piu’ della metà della popolazione.
Soggetti attivi del processo di colonizzazione dopo la scoperta colombiana, accanto ad Olanda, Francia e Gran Bretagna, la Spagna ed il Portogallo seguono il metodo, molto diverso dagli altri paesi europei, dell’intervento diretto del governo nel controllo delle nuove colonie. Le terre scoperte del Nuovo Mondo vengono occupate in nome del sovrano e sottoposte al suo potere: l’amministrazione dei territori è organizzata in forme variamente articolate di unità territoriali subordinate ad un organo centrale. Per il Portogallo si tratta del Conselho do Impero, per la Spagna del Consejo real y supremo de las Indias. Il commercio tra le colonie e la madrepatria è controllato da dipartimenti della amministrazione, le Casas. Lo stato portoghese si riserva il monopolio dei metalli preziosi e delle spezie, in Spagna il monopolio del commercio è attribuito alla città di Siviglia, sede della Casa de contratación, e a Cadice, mentre lo Stato si riserva il 20% (el quinto real) sui metalli preziosi. Tale approccio centralizzatore dei colonizzatori, che favoriva esclusivamente le elites urbane di origine iberica, ha avuto l’effetto di escludere le comunità amerindie per lunghissimo tempo dal potere, secondo una logica che prima che economica era innanzi tutto giuridica. Solo in epoca molto recente, le comunità amerindie hanno cominciato a cercare di perseguire politicamente una rivendicazione dei propri diritti, come abbiamo visto in paesi dal Brasile all’Ecuador alla Bolivia. Il problema della terra resta comunque sempre di centrale attualità in paesi largamente dominati da grandi proprietari (hacendados, fazendeiros) di origine europea o da grandi società spesso transnazionali. In assenza poi di un vero e proprio accatastamento delle terre, la ricchezza viene ripartita in maniera molto diseguale e le comunità indigene si collocano sistematicamente in basso nella scala sociale. Per questo possiamo ragionevolmente domandarci quale sarebbero oggi le condizioni del sub-continente se le tre caravelle già toccate dalla tempesta alle Canarie non fossero mai arrivati sino all’isola di Hispaniola. Ma rifare la storia con le “if” succede anche nella vita privata e purtroppo non funziona mai. E questo ci obbliga invece a continuare in una prossima rubrica nell’esame del quadro complesso e delle prospettive complesse di questo straordinario sub-continente.
Carlo degli Abbati
Bibliografia consigliata
- Eduardo GALEANO, Memoria del fuego, I-II-III,Siglo Veintuno Editores, Mexico, 1982-1986
- Eduardo GALEANO, Le vene aperte dell’America latina, Sperling&Kupfer, Milano, 1997
- Eduardo GALEANO, Il libro degli abbracci, Sansoni, Firenze, 1992
- Eduardo GALEANO, Splendori e miserie del gioco del calcio, Sperling&Kupfer, Milano, 1997
- Marcel NIEDERGANG, Les 20 Amériques latines, Ed. du Seuil, Parigi, 1969
- Carlo DEGLI ABBATI, Appunti da un pianeta globale. America Latina e Caraibi. Quando l’inchiostro lascia la penna per la piuma del quetzal, De Ferrari, Genova, 2010
*Carlo degli Abbati insegna Diritto dell’Unione Europea al Dip. di Lingue e Culture Moderne dell’Università degli Studi di Genova. Già docente di Economia dello Sviluppo presso lo stesso Ateneo e di Storia dei Paesi musulmani presso il Dip. di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento, è stato funzionario responsabile del controllo della cooperazione europea allo sviluppo presso la Corte dei Conti Europea a Lussemburgo.